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Riuscirebbero i grillini a reggere se fallisse la conquista di Roma ?

Superstudio

Tutti in piazza per Brambilla sindaco, a Napoli. Tutti in piazza per Bugani sindaco, a Bologna. E soprattutto: tutti in piazza per Raggi sindaco, a Roma. E piazza del Popolo si è riempita: la mobilitazione c’è stata, e l’aspettativa di una vittoria della candidata a cinque stelle rimane molto alta. La lunga marcia nelle istituzioni del Movimento avrebbe sicuramente una svolta, se Virginia Raggi dovesse diventare sindaco di Roma. L’assalto al cielo della politica italiana sarebbe cominciato. A Renzi rimarrebbe la partita del referendum istituzionale, ma un sindaco grillino nella Capitale trasformerebbe immediatamente il Movimento in un’altra cosa, cioè in un’alternativa politica reale. Finora, chi vota cinque stelle ha molto chiaro a cosa dice no, e chi vuole mandare a casa, ma è molto meno sicuro di cosa significhi dare il governo del Paese ai Cinquestelle. A quale cultura politica? A quale ceto politico? Per farsene un’idea, non possono bastare Parma, Livorno o Quarto. Roma invece sì, il Campidoglio sarebbe il terreno ideale per dimostrare, in vista delle politiche, che da quella parte non ci sono solo grillini chiassosi e intransigenti, ma una classe dirigente in grado di gestire la capitale del Paese, e dunque anche di andare su su, fino a Palazzo Chigi. E poiché nemmeno i Cinquestelle possono venire tutti dalla luna, si vedrà anche come riempiranno le seconde e terze file, a quali serbatoio di ceto politico e professionale attingeranno, e in che modo si confronteranno con le burocrazie pubbliche.

Ma anche il contraccolpo sul Movimento, nel caso in cui la Raggi non dovesse farcela, sarebbe di non poco momento. Nel 2013, i Cinquestelle sono arrivati primi, dietro solo alla coalizione del Pd di Bersani (peraltro subito accantonata dai democratici). Pur rappresentando un quarto circa dell’elettorato, dopo circa tre anni i grillini non riescono ancora a presentare proprie liste in tutti i comuni. È una situazione paradossale, mai altrove verificatasi: che il primo partito su base nazionale non sia rappresentato ovunque, su base locale. Se la Raggi non dovesse vincere, se i Cinquestelle non raggiungessero il ballottaggio nelle principali città italiane, la fisionomia sfilacciata del Movimento non sarebbe nascosta dal valore simbolico del sacco di Roma, e le spinte centrifughe si moltiplicherebbero.

Anche sul piano organizzativo, il Movimento è su un crinale sottile. Perché parla sempre meno di streaming, sempre meno di «uno vale uno», sempre meno di decisioni prese dagli iscritti, mentre sempre più chiaramente emergono leadership o potenziali leadership, direttori, riunioni riservate e cerchi magici. La Raggi che promette di ascoltare, in caso di elezione a sindaco, i parlamentari, e il deputato europeo, e il consigliere regionale, non sembra proprio che prenderà le decisioni riunendo la base dei meetup della capitale. Ma finché vinci, o i sondaggi ti danno vincente, è difficile che ti venga rinfacciata la contraddizione. Diverso è però se perdi: allora i mugugni crescono, la conflittualità interna sale, viene anche per i grillini l’ora livida dell’analisi del voto e la piega presa dal Movimento  può facilmente esserti rimproverata come una deviazione dal progetto originario.

Fin qui, Grillo e Casaleggio hanno tenuto insieme il Movimento a colpi di sospensioni ed espulsioni. I gruppi parlamentari grillini di deputati e senatori ne hanno persi parecchi, e però le sorti del Movimento non ne hanno finora risentito. Se il Movimento si conferma sulle percentuali del 2013 ed elegge la Raggi sindaco, queste sono bazzecole. Se le cose vanno diversamente, allora son dolori (forse).

(Il Mattino, 5 giugno 2016)

Sotto quella bandana un bilancio da nascondere

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Un uomo solo al comando: a quindici giorni dal voto, i sondaggi danno in vantaggio il sindaco uscente, Luigi De Magistris. A distanza tutti gli altri candidati. Così d’altronde è iniziata questa campagna elettorale, e così probabilmente continuerà: con De Magistris avanti e gli altri a inseguire.

Sull’entità del distacco fra il primo cittadino e tutti gli altri si deve essere tuttavia molto più prudenti, perché i sondaggi premiano la popolarità di Giggino, ma non registrano con altrettanta efficacia peso e composizione delle liste, che invece in questa sfida amministrativa contano eccome. Non che De Magistris non vi abbia pensato: se infatti cinque anni fa si presentò con quattro liste a sostegno, questa volta invece le liste sono salite a quattordici (salvo perderne quattro per irregolarità formali). Più che indicare una crescita del consenso, il dato segnala però la necessità di raccogliere voti attraverso il rapporto personale dei candidati col territorio, rinforzando possibilmente la squadra anche con transfughi di altri schieramenti. C’è molto poco di cultura politica e di partito, in questi processi, ma tant’è: tutti vi si sono adeguati, e al giudizio degli elettori si presentano in centinaia. Con De Magistris, ma pure con Lettieri e Valente. Fanno eccezione i grillini, il cui consenso segue altre, più collettive strade, come accade a tutti i movimenti politici nelle fasi iniziali.

Lo stesso ragionamento vale ovviamente per le elezioni circoscrizionali: anche in quel caso ci sarà sicuramente un effetto di trascinamento delle truppe di complemento sulla sfida principale, per l’elezione diretta del sindaco. Sotto quest’aspetto, dunque, i principali contendenti, e schieramenti, si somigliano parecchio.

Se questo è vero, allora la partita è molto più equilibrata di quanto i sondaggi non lascino pensare.

Ma non è l’unica considerazione che convenga fare. Il modo in cui De Magistris sta conducendo la campagna elettorale – toni forti e appassionati, per dirla eufemisticamente, e un nemico individuato non nei suoi avversari politici, ma a Palazzo Chigi –  indica la direzione che intende intraprendere, dopo il voto. E l’ambizione che lo spinge. Su questo giornale, Isaia Sales e Francesco Durante si sono soffermati, nei giorni scorsi, sui motivi del consenso di cui attualmente il Sindaco gode. È interessante che nelle loro analisi non stia in primo piano la qualità dell’azione amministrativa espressa. Quando Luigi De Magistris vinse, scassando tutto, si presentò con due tratti precisi, anche se uno soltanto si impose davvero: da una parte, il magistrato divenuto famoso per le inchieste sulla politica che lotta contro i poteri forti e spazza via il malaffare dei vecchi partiti; dall’altra, un recupero di efficienza amministrativa, di trasparenza, rigore e serietà. A consuntivo, il primo De Magistris si vede, il secondo risulta non pervenuto: qualcosa vorrà pur dire.

Per avere una solida pietra di paragone: Pierò Fassino – anche lui, come il sindaco partenopeo, in cerca di riconferma nella sua città – sta chiedendo voti in nome dei risultati ottenuti a Torino da lui e dalla sua giunta. Parla di bilancio, di investimenti, di quartieri risanati; De Magistris no: nulla di tutto questo. De Magistris ci mette il cuore e manda a cagare. E il risultato principale di cui ,e a vanto è la derenzizzazione, come se fosse un merito tenere Napoli fuori da qualunque circuito istituzionale.  Così, quel che lascia intravedere ha molto di più i lineamenti del suo personale futuro politico che quelli di un progetto di città. Napoli liberata da Renzi cosa mai farà, il giorno dopo il voto? Non si sa.

Il fatto è che lo spazio politico a sinistra, per il capopopolo del Vomero, c’è, mentre mancano altri attori credibili sul piano nazionale. La sinistra italiana di D’Attore e Fassina, del resto, è già alle prese con diatribe interne, e Il sindaco di Napoli sogna di usare la tribuna della terza città d’Italia per arrivare in Parlamento da pifferaio di tutte le opposizioni al premier.

Già, perché in un simile calcolo entra anche l’ipotesi che al voto si torni prima del previsto. Ma anche se si dovesse arrivare al 2018, De Magistris dovrà portare pazienza per un paio d’anni al massimo, con le scartoffie e le beghe amministrative negli uffici: poi, se ne potrà andare a recitare la sua parte di rivoluzionario parolaio su ben altri palcoscenici.

E forse è proprio questo retro-pensiero che spiega l’atteggiamento di Antonio Bassolino, che ha deciso di assegnarsi la parte del vincitore morale delle elezioni, anche se ha perso le primarie. Ovviamente, la politica non contempla una simile categoria di vincitori e non prevede simili copioni (posto che l’ex sindaco abbia titoli per interpretarlo). Così è più probabile che dietro le continue stilettate che infligge a quello che fu (è?, sarà?) il suo partito, c’è un cattivo augurio per i democratici: che se non fossero capaci di arrivare al ballottaggio e di sfidare il sindaco uscente, dovrebbero cedergli nuovamente il passo. Così probabilmente pensa Bassolino. Che evidentemente ignora come i vincitori morali altro non conseguano, in politica, che vittorie di Pirro.

(il Mattino, 22 maggio 2016)