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Il diritto di un codice

burri rev

A. Burri, Bianco plastica B5 (1965)

Mettere centomila persone in uno, due stadi di calcio si può fare. Ma se già abbiamo difficoltà ad assicurare la sicurezza di un normale deflusso dagli impianti in occasione di certi eventi sportivi, figuriamoci se quella può mai essere la soluzione per dare accoglienza ai migranti. Mario Calabresi, nel suo editoriale su Repubblica di ieri, voleva dare un’idea delle proporzioni del fenomeno migratorio rispetto alla popolazione italiana complessiva, ma l’immagine che ha scelto non è molto felice. Quella di stipare i migranti in uno stadio sembra anzi un’idea “concentrazionaria” da Paese sudamericano negli anni Settanta, e dimostra che non sempre, quando si parla di accoglienza, si parla davvero e per intero di politiche di accoglienza, di gestione controllata di flussi migratori, di strategie di medio-lungo periodo per fronteggiare un fenomeno che, da qualunque lato lo si guardi, non ha nulla di passeggero. Accoglienza non è salvataggio degli uomini in mare, e nemmeno mero deposito e magazzinaggio di uomini: è tutto quello che viene dopo, e per cui purtroppo il nostro Paese non si è dimostrato, finora, seriamente attrezzato.

Però Calabresi ha ragione su un punto: il problema non sono, non possono essere le Ong. Ragioniamo per ipotesi: se domani mattina dal Mediterraneo scomparissero d’incanto tutte le navi che oggi prestano soccorso in mare, gli arrivi dall’Africa subsahariana, dalle regioni più povere del mondo, dai teatri di guerra africani e del Medio Oriente si arresterebbero? È illusorio crederlo. Piuttosto, la pressione demografica, che si esercita su Paesi gravati spesso da condizioni politiche, economiche e ambientali assai difficili, continuerebbe a spingere uomini, donne e bambini a tentare altre vie e a inventarsi altri mezzi e maniere per lasciare le loro terre in cerca di migliore fortuna. Né si farebbe miglior figura a dire che però, in questo modo, sarebbero risparmiati i porti e le città italiane. Mentre chiediamo all’Europa di impegnarsi in uno sforzo comune e condiviso, e ci rammarichiamo degli egoismi degli altri Paesi (ma – sia detto per inciso – questi altri Paesi non hanno affatto, in generale, una presenza di stranieri inferiore alla nostra, e noi non siamo affatto sotto minaccia di un’invasione), non si può fondare una politica nazionale solo sul modo in cui deviare i flussi verso altre mete, altri porti e altre città. In ogni caso, pure in questa ipotetica disinfestazione del nostro mare, non si riuscirebbe certo ad interrompere, estinguere, troncare la migrazione in corso. Ed è per questa ragione che non si vuol spedire la palla in tribuna quando si chiede invece all’Unione europea di fare fronte comune. Da un lato, l’Europa tutta non sarà più senza stranieri, senza cioè una quota significativa di popolazione extra-europea, il fenomeno è strutturale e la xenofobia non è una soluzione. Dall’altro, l’Europa prima ancora che l’Italia deve anche sapere, e non può fingere di non sapere, che la rotta centrale del Mediterraneo, che porta i migranti in Italia, è anche quella più costosa in termini di vite umane.

Ma una politica nazionale ci vuole. E accogliere tutti non è una politica: questa è una proposizione “grammaticale”, un’istruzione sull’uso della parola “politica”. Che comporta sempre una qualche correlazione fra fini e mezzi, fra possibilità e realtà, fra fatti e parole. E, certo, anche fra quello che siamo e quello che vogliamo essere. Ora, è comprensibile che un’organizzazione non governativa, in ossequio ai propri principi (che trovano fondamento in norme e convenzioni sovranazionali), agisca secondo finalità strettamente umanitariee e provi a salvare il maggior numero di persone. Ma lo è altrettanto che uno Stato, nelle proprie politiche, tenga conto delle conseguenze di quell’agire. Che denunci l’effetto perverso per cui all’aumentare delle possibilità di salvataggio in mare dei migranti aumenta anche il numero di imbarcazioni che gli scafisti mettono in acqua, lucrando sulla disperazione dei migranti e sulla buona fede dei soccorritori. Ma se non si può chiedere alle Ong di spezzare un simile circolo vizioso, non vuol dire che lo Stato italiano non debba cercare di spezzarlo. Il codice Minniti è un tentativo del genere. Si tratta peraltro di un codice di autodisciplina (che quindi viene liberamente sottoscritto), prova a dare regole comuni alle azioni di salvataggio in mare, e prevede, in certi casi, presenza di polizia giudiziaria: non per militarizzare le Ong, ma per la conduzione di attività di indagine sul traffico di esseri umani.

Entro questi limiti, il tentativo ha senso. Non lo ha più, ed anzi prende un senso perfino sinistro, se ad esso si affida una sorta di prova muscolare con cui dimostrare che non vogliamo più stranieri sull’italico suolo. Non sono troppi, gli stranieri, e non sono nemmeno pochi: sono invece fatti entrare nel peggiore dei modi possibili. Per mani clandestine, a rischio della loro stessa vita, in balia di mercanti senza scrupoli. Ammassati nei barconi, ammassati nei centri di accoglienza, ammassati nelle periferie delle nostre città. E chissà: magari in futuro in uno stadio. Masse, insomma: che perciò fanno numero, e fanno paura. Ma se chiudere ogni via è impossibile, oltre che ingiusto, aprirne di regolari, e controllate, è, invece, una strada percorribile. E per farlo bisogna, credo, aprire un poco anche le nostre menti.

(Il Mattino, 9 agosto 2017)

Perché ha fallito la nuova politica

Cene, feste, macchine. Macchine, feste, cene. Più spiccioli per le ricariche telefoniche o per piccole passioni e innocenti (però lussuosi) trastulli. Forse non conosciamo ancora il totale esatto, milione più milione meno, di sicuro però Guardia di Finanza e Corte dei Conti ci metteranno un po’ per passare al setaccio fatture e scontrini del gruppo Pdl alla Regione Lazio.

Ma, reati e danno erariale a parte, come lo si troverà ora anche un solo cittadino che di fronte a tanto sperpero, a tanta sfacciataggine, a tanto malcostume voglia impegnarsi in un pacato ragionamento politico, in una riflessione meditata sulle prospettive del Paese e la riscossa della democrazia?

E così siamo punto e a capo. Vent’anni dopo Tangentopoli rischiamo di ritrovarci là dove ci eravamo lasciati. Cioè nei pressi di un’elezione politica generale in cui il tema principale del confronto politico rischia di essere non le prospettive che si offrono al paese, non l’uscita dalla crisi, non il confronto con l’Europa, ma la qualità della classe politica chiamata a governare. E naturalmente non la qualità squisitamente politica, e neppure le competenze, il prestigio internazionale oppure, che so, la capacità di leadership, ma il grado di prossimità, di coinvolgimento o di compromissione con le impudenze, l’illegalità o le ruberie di cui non si smette di avere prova.

Con quale risultato? Che cosa ne viene al paese da un confronto politico in cui elementi di programma e scelte di fondo sono sopravanzate dalla (sacrosanta, peraltro) indignazione per gli scandali che continuano a tracimare sulle prime pagine dei quotidiani? Ben poco, purtroppo. Lo si è fatto già una volta, già una volta abbiamo votato sull’onda della convinzione che i politici sono tutti ladri, con la speranza di procurare un cambiamento di sistema che ci liberasse in un colpo solo di tutto il marciume della vecchia Repubblica: quel che però è venuto fuori non ha dato gran prova di sé. E non è tanto questione di Berlusconi, quanto del berlusconismo, cioè dell’idea che una colorita espressione napoletana rende meglio di ogni disquisizione politologica: l’idea di fare il gallo sopra la monnezza (invece di togliere la monnezza dalle strade). Vale a dire, fuor di metafora: invece di costruire una proposta politica e di governo, fare del discredito e della delegittimazione della politica le condizioni della propria fortuna. Da ultimo lo sta facendo Grillo – il quale, dal canto suo, ha definitivamente  chiarito, a Parma, cosa sia il suo movimento, quando ha detto senza mezzi termini che “Bossi è stato un grande, finché non è entrato nel sistema”). Grillo come il Bossi d’antan, quello che voleva scendere dalle valle coi fucili fino a Roma. Ma, Grillo o non Grillo, il rischio che si punti solo a far saltare il tavolo esiste. E che nuovi apprendisti stregoni vogliano esercitarsi nell’impresa, anche. Il primo partito chiamato a resistere a questa china pericolosa è il Pd, perché ha davanti alle primarie: vedremo in che modo verranno condotte, con quali argomenti chiameranno a votare la gente. Con quali proposte, con quali toni.

D’altra parte, ha ragione Mario Calabresi (su La Stampa): lo scandalo della Regione Lazio non dimostra solo che quando si crede di aver toccato il fondo c’è sempre qualcuno che si mette a scavare,  ma sgretola anche le poche certezze sulle quali si voleva costruire, negli ultimi anni, la speranza di una politica nuova. Il federalismo, i giovani, le preferenze. Nessuno di questi ingredienti ha mostrato infatti di produrre di per sé buona politica, a giudicare almeno dalla maniera in cui un’istituzione regionale ha fatto spazio nel proprio bilancio agli appetiti di voraci consiglieri, i quali peraltro si segnalavano per la giovane età (De Romanis, quello della festa in costume), oppure per il ricchissimo patrimonio di preferenze (Fiorito, quello dei conti pantagruelici). Questo ovviamente non significa che, allora, dobbiamo augurarci l’inamovibilità della classe politica, un esasperato centralismo e il ritorno dei piemontesi in tutte le Prefetture d’Italia, e, infine, tenerci il Porcellum. Proprio no. Significa però che nessuna ricetta potrà mai bastare, nessuna tecnica elettorale e neppure le norme più stringenti se la politica non tornerà ad essere un’impresa collettiva, l’assunzione di una responsabilità comune e l’indicazione di un bene possibile, piuttosto che il percorso personale che ciascuno traccia per sé, nel deserto dei partiti, col favore dell’ombra che la luce proiettata sui galli, cioè sul leader di turno, lascia ai suoi spregiudicati compagni di ventura.

Il Mattino, 25 settembre 2012