«Quando vedo l’immagine di Caleb Ansah Ekuban non posso non pensare alle sembianze di un orango»: purtroppo le immagini non consentono di leggere il labiale, e quindi non sappiamo se davvero il giocatore del Matera Gaetano Iannini, nel corso dell’incontro che opponeva la formazione lucana alla squadra del Sudtirol, abbia davvero pronunciato quelle parole. Sta di fatto che il referto dell’arbitro, sulla base del quale Iannini è stato condannato a dieci giornate di squalifica, parla di «epiteto insultante espressivo di discriminazione razziale». Com’è noto, secondo il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, se le parole di Iannini fossero quelle che abbiamo ipotizzato, non costituirebbero offesa: lui infatti le ha già impiegate all’indirizzo del ministro dell’integrazione Cécile Kyenge, e nessun giudice, sportivo o no, si è permesso, al momento, di comminargli alcuna sanzione. Iannini salterà dieci incontri di calcio di fila, Calderoli invece non salterà nessuna seduta parlamentare. Poi dice che non ci vuole la riforma della giustizia.
Naturalmente, è possibile che Iannini non abbia avuto la squisita delicatezza di Calderoli, che da navigato politico ha saputo impiegare le giuste sfumature: un conto è parlare infatti di mere sembianze, un altro è scavalcarle in direzione della figura intera; un conto è dire papale papale che Tizio sembra un orango, un altro è affermare che il proprio pensiero corre irresistibilmente a raffigurarsi l’animale, magari persino contro la propria volontà. Sono differenze importanti, che, però, nella concitazione di una partita, in pieno furore agonistico, dopo che un giocatore di origine ghanese ti ha pure segnato un gol, non riesci a fare. Iannini ha così già pronta una robusta linea difensiva. Si scriva il ricorso! Se a ciò si aggiunge che non deve essere parso vero a un giocatore di origini napoletane di recarsi lassù, nel Sudtirolo, per imbattersi in qualcuno palesemente più meridionale di lui, si comprenderà bene come i dirigenti del Matera Calcio potranno facilmente accampare attenuanti di ogni tipo.
E in effetti hanno già provato a farlo: se il giocatore ha sbagliato pagherà, siamo pronti anzi a infliggergli una multa, come si fa in questi casi, però l’applicazione della nuova normativa è stata troppo severa, dieci giornate sono troppe, si tratta in fondo solo del primo caso da quando è entrata in vigore e i giocatori non sono ancora abituati a non usare espressioni di odio razziale, e così via. Nessuno ha ancora impiegato l’esimente Calderoli, ed è un peccato. Funzionerebbe così: possibile che Calderoli può insultare un ministro e cavarsela con qualche impacciata scusa telefonica e un giocatore di calcio di una serie minore, giunto ormai sulla soglia dei trent’anni, non può, in pieno «eretismo podistico» e sotto il sole di agosto, lasciarsi scappare una parolina di troppo? Quale delle due vicende vi sembra più grave?
In verità, non crediate, la risposta giusta è: sono gravi tutte e due. L’una non è meno grave dell’altra. Avere trent’anni o averne il doppio, essere giocatori o essere senatori (addirittura!) non cambia di una virgola la gravità del caso. Non so se lo si possa dire a maggior gloria dello sport o a maggior vergogna del Parlamento, per apprezzare in un caso l’applicazione della pena e nell’altro l’inosservanza di un minimo di decoro civile da parte di un suo membro autorevole, ma sta il fatto che l’inaccettabilità dell’insulto a sfondo razziale è e resta la medesima. E non ci si può fare l’abitudine, non si può graduare l’indignazione, perché troppi sono gli episodi, e troppo esteso ancora il pregiudizio discriminatorio. I cori razzisti si odono sia sui campi di periferia che nelle sfide di cartello tra grandi squadre, e le offese a sfondo razziale sporcano tanto la politica nazionale quanto quella locale. Ci si illude che i processi di civilizzazione, che l’educazione, che la legislazione, che la politica democratica depositino più di uno strato sottile sopra le passioni, gli usi e i costumi degli uomini, ma capita troppo spesso che quello strato si riveli invece soltanto una pellicola superficiale, e che sempre di nuovo si debba provare a ricostruirla. Per questo, in tempi in cui ci si vuole far dubitare che vi sia un giudice a Berlino, che ci sia un giudice almeno nella Federazione Gioco Calcio è una buona notizia. E un punto di partenza.
(Il Mattino, 8 agosto 2013)