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De Luca junior e il partito formato famiglia

Immagine2.jpgLe analisi del voto si fanno sui numeri, ma a volte contano anche le storie. Come quella di Salerno. I numeri parlano chiaro. A Salerno, Enzo Napoli è stato eletto sindaco con la percentuale record per questa tornata elettorale del 70,5% dei voti. Il secondo arrivato ha preso il 9,6%: un abisso. Nella sua giunta entra Roberto De Luca, figlio del governatore campano, con deleghe pesanti al bilancio e allo sviluppo. La nuova consiliatura si apre dunque nel segno della più assoluta continuità con un’esperienza politica che dura dal 1993, da quando cioè Vincenzo De Luca subentrò al dimissionario sindaco socialista, Vincenzo Giordano. In quello stesso anno, De Luca affrontò il voto e venne eletto per la prima volta, con quasi il 58% dei voti, alla testa dei «Progressisti per Salerno». Nel 1993 il Pd non esisteva: esisteva il Pds, Partito democratico della sinistra, che sarebbe poi diventato Ds, Democratici di sinistra, e infine – insieme con la Margherita – Pd, partito democratico. In tutto questo tempo, i «Progressisti per Salerno» hanno mantenuto la guida della città, ripresentandosi ad ogni elezione. De Luca è stato sindaco finché ha potuto, finché cioè il limite dei due mandati non lo ha costretto a lasciare. Ora è alla Regione, ma la giunta cittadina è, in tutto e per tutto, una sua diretta emanazione. Un caso analogo, in una città di medie dimensioni, in giro per l’Italia non c’è. Un caso analogo: cioè il caso di una città che tributa un consenso reale, vero, largamente maggioritario (una volta si diceva bulgaro), ad una stessa formazione politica ininterrottamente per un quarto di secolo. In uno strano gioco di eredità, non c’è solo il testimone che passa di padre in figlio, con il neo-eletto sindaco Napoli nei panni del Mazzarino di turno, che assume la reggenza in attesa che si perfezioni la successione; c’è anche un’eredità che si trasmette graziosamente al Pd, il quale riceve in dote i clamorosi successi politici di De Luca pur senza mai affrontare il voto col proprio simbolo.

Napoli: tutt’altra storia. Anche lì cominciata nel ’93, con l’elezione di Antonio Bassolino (che di De Luca è praticamente coetaneo), e proseguita poi per un secondo mandato. A Napoli il passaggio in Regione arriva prima, nel 2000, e nei dieci anni successivi il centrosinistra tiene sia il Comune (con la Iervolino) che la Regione (con Bassolino). Poi, con la drammatica crisi dei rifiuti, perde tutto: prima la Regione, dove sale il centrodestra di Caldoro, quindi la città, dove viene eletto De Magistris, dopo il clamoroso autogol delle primarie annullate. Ma da allora sono trascorsi cinque anni, e il Pd non ha dato segnali di inversione di rotta. Ha cambiato segretari regionali e provinciali, è passato per esperienze di commissariamento, ha ottenuto sottosegretariati al governo, ma nulla è servito. In realtà, il 2011 non era stato solo l’anno di una sconfitta politica, ma anche il punto in cui di fatto si rompeva un rapporto politico e sentimentale con la città. Cinque anni non sono valsi a ricucirlo. Il Pd ha continuato a dividersi, lacerato da polemiche intestine, dominato da piccoli capi locali, quasi disperso come comunità politica. Quel che è peggio, continua a non apparire degno di fiducia a settori larghi della popolazione cittadina, che non avrebbero motivo per seguire le rodomondate di De Magistris, e che però non trovano sufficienti doti reputazionali (eufemismo) nella classe dirigente che il partito democratico esprime. D’altronde lo si è visto: Valeria Valente ha portato per tutta la campagna elettorale la croce di una diffidenza profonda e di un malcontento che venivano dallo stesso partito democratico. Al di là dei suoi meriti o demeriti personali, è un fatto che non c’era nessuno che avrebbe potuto federare i diversi pezzi del Pd e offrire l’immagine di un partito unito e di una causa comune. Lo stesso Bassolino era sceso in campo non già come l’uomo che avrebbe potuto mettere d’accordo tutti, ma come quello che avrebbe potuto vincere da solo, o quasi, sospendendo i giochi correntizi, sempre meno redditizi, che paralizzano il partito democratico

Due storie opposte, dunque: a Napoli, un quadro a dir poco frammentato, una dirigenza di fatto priva di autorevolezza, e la mancanza di parole che entrino nel discorso pubblico e aggreghino società civile, intellettualità diffusa, mondo produttivo. Che facciano cioè quel che la politica deve fare. A Salerno, invece, un monolite costruito intorno alla figura carismatica di Vincenzo De Luca, in una forma di affidamento personale, capace di trasmettersi anche oltre i limiti naturali di un ciclo politico, edi ridurre le dinamiche di partito a un ruolo subordinato e quasi ornamentale. A Salerno tutta la città segue De Luca, a Napoli quasi nessuno si fida del Pd, ma in tutte e due i casi, per troppo successo o per un completo insuccesso, i democratici non si capisce cosa ci stiano a fare. E poiché purtroppo poche altre storie offre il Mezzogiorno, usi o no il lanciafiamme, Renzi un pensiero serio alle condizioni in cui si trova il partito di cui è il segretario lo deve dedicare.

(Il Mattino, 10 giugno 2016)

I delusi dal voto che sognano la politica semplice

Immagine3La delusione che Biagio De Giovanni ha espresso ieri sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno è qualcosa di più di un sentimento personale. Cade peraltro nello stesso giorno in cui Raffaele Cantone dichiara che andrà al voto, ma – aggiunge – «non sarà un piacere»: la delusione, dunque, in certo modo riguarda anche lui. Ma delusi per chi o per cosa? Nel caso di De Giovanni, il motivo di delusione è Renzi. Che a livello nazionale lascia sperare in una politica davvero rinnovata, mentre a livello locale, «nelle periferie dell’impero, torna a macinare nei vecchi mulini». Il vecchio mulino da macina è, nella circostanza, il sindaco di Salerno De Luca, che Matteo Renzi, da segretario del Pd, non ha rinunciato a sostenere nella campagna elettorale in corso.

Ora, non c’è riga del filosofo De Giovanni – dico nei suoi libri, non solo nei suoi articoli – che non dia modo di ricavare una severa (e alta, mai cinica o meschina) lezione di realismo: perché dunque questa volta si mette nei panni più volubili di un filosofo «con la testa fra le nuvole», quando invece l’ha sempre tenuta ben dentro i tornanti della storia, secondo la lezione dei suoi maggiori, di Vico o di Hegel? Perché, spiega, una forte discontinuità era da augurarsi anche in Campania: non per semplice ingenuità, ma per necessità politica. La regione, infatti, ha più che mai bisogno di energie nuove, fresche, e invece si ritrova con volti vecchi e, qualche volta, impresentabili.

C’è del vero, naturalmente, in questo argomento. Il Mezzogiorno ha un problema di classe dirigente che non ha sin qui saputo risolvere, e che si ripropone anche in queste elezioni: per esempio, nella formazione delle liste. Ma c’è anche, nella delusione di De Giovanni, una lampante sottovalutazione del dato di fondo di questa tornata elettorale: al confronto vanno non due vecchi leoni della politica locale ma due esperienze amministrative, e su queste è richiesto il giudizio degli elettori. Caldoro chiede di essere confermato alla guida della regione in nome del risanamento dei conti, e del disastro sui rifiuti su cui si infranse la precedente stagione di governo del centrosinistra. De Luca, invece, porta con sé gli anni trascorsi alla guida di Salerno, più di venti, come prova delle sue capacità di amministratore: è poco? È molto? Vedremo. Ma c’è un pizzico di vaghezza nell’immaginare che lo schema renziano della rottamazione, con tutto l’afflato per il nuovo che comporta, possa essere replicato tal quale a Palazzo Santa Lucia come a Palazzo Chigi, indipendentemente dai percorsi politici territoriali, dal contesto sociale, dalla condizione dei partiti regionali.

Renzi ha approfittato con grande scaltrezza del logoramento di una generazione intera di dirigenti democratici, già sperimentatisi al governo, e sostanzialmente bocciati nel voto elettorale del 2013. Invece, né De Luca né Caldoro hanno ancora subito un giudizio simile. Anzi: entrambi rivendicano per sé stessi un successo. Naturalmente si può dare un giudizio negativo sulle loro prove: si può imputare a Caldoro incapacità di produrre idee, visioni per lo sviluppo della regione, e non solo una manutenzione prudente dei conti pubblici. E, allo stesso modo, si può apprezzare poco il tratto decisamente sbrigativo di De Luca, e riconoscervi solo l’antico vizio notabilare della politica meridionale. Ma nell’uno e nell’altro caso bisogna comunque passare attraverso la fisiologia dei processi politici democratici – la loro maturazione, l’aprirsi e l’esaurirsi dei loro cicli – e non pretendere di sostituire ad essi un astratto dover essere, e il rimpianto per quel che doveva essere e, purtroppo, non è stato.

C’è di più: a Napoli i principali partiti politici nazionali sono già franati una volta: nel 2011, quando Luigi De Magistris vinse le elezioni municipali approfittando del naufragio delle primarie democratiche e dell’impreparazione del centrodestra. La rottura, dunque, c’è stata, la rottamazione pure: quale bilancio però ne dobbiamo trarre? Ieri il sindaco di Napoli esultava alla notizia del voto spagnolo per Podemos: ecco altri che finalmente hanno scassato, proprio come lui. E però De Magistris è al governo ormai da quattro anni: forse dovrebbe trovarsi un’altra parte in commedia.

Ma forse, più in generale e più realisticamente, la politica non è palingenesi, ma una costruzione molto più faticosa e contraddittoria di quanto ci si possa augurare. E neanche a un leader come Renzi può riuscire di semplificarla del tutto. O di distribuire tutte le carte e giocare tutte le partite: qualcuna toccherà pure ai cittadini elettori, di giocarla.

(Il Mattino – ed. Napoli, 27 maggio 2015)

Gli outsider all’attacco

imageIn piedi, dinanzi a un podio, i candidati alla guida della Regione Campania sono riusciti a stare senza difficoltà dentro le regole del confronto televisivo. Ed è un punto di merito, che hanno segnato tutti e cinque. Suonava il gong, e loro si tacevano: disciplinatamente. Il conduttore, dal canto suo, ha guidato il confronto sui binari programmatici, tenendo aperti capitoli importanti: prima la disoccupazione, più avanti la sanità, quindi i trasporti e la Terra dei fuochi: ce n’è di che parlare. E a due settimane dal voto viene anche un po’ di rammarico perché la campagna elettorale avrebbe potuto davvero aiutare i cittadini a scegliere. Dopo la prima risposta, i cinque profili erano infatti già nettamente delineati: Salvatore Vozza, Sinistra e Lavoro, insisteva sulla disoccupazione giovanile; Valeria Ciarambino, dei Cinquestelle, reclamava il reddito di cittadinanza; Marco Esposito, lista meridionalista Mo!, lamentava l’enorme squilibrio nei progetti europei a favore del Nord; Caldoro parlava con enfasi dei cantieri aperti in questi cinque anni; De Luca batteva e ribatteva sulla sburocratizzazione. Poi è venuta la seconda, inevitabile domanda: la campagna avvelenata dalla polemica sugli impresentabili. Nessuno ha voluto far nomi, ma Esposito e Ciarambino l’hanno giocata tutta in attacco; Caldoro e De Luca in difesa (mentre Vozza, sciorinando i nomi dei presentabili, cioè dei suoi futuri assessori, s’è tirato fuori dalla mischia). Difficile dire quanta parte del voto si orienterà in base alla qualità delle liste, ai condannati e agli inquisiti, alla quota di trasformisti presenti nell’uno o nell’altro schieramento, ma nel dibattito, salvo Valeria Ciarambino, la più aggressiva, non c’era molta voglia di discutere di queste cose. Non è un caso che il maggior numero di repliche si è avuto su un tema di programma, i trasporti, con Caldoro che difendeva l’opera di risanamento e imputava ai tagli del governo le falle del sistema, e De Luca che invece addossava tutte le responsabilità all’amministrazione Caldoro.

Difficile dire chi ha vinto: di sicuro si sono delineati con chiarezza alcuni stili comunicativi. Ciarambino parlava a manetta, sciorinando indiscutibili certezze; Caldoro tirava fuori cartelli e dati ad ogni risposta, e cercava di ribadire così la sua immagine di affidabile uomo delle istituzioni; Marco Esposito, col pullover colorato, sceglievalo stile più informale, e soprattutto insisteva più di ogni altro sull’identità meridionalista della lista; Vozza aveva l’aria un po’ demodé, ma che voleva anche essere rassicurante, della sinistra tradizionale; De Luca si è tenuto invece parecchio lontano dal cliché del sindaco sceriffo, e molto lontano anche dalla imitazione che gli ha regalato Crozza: solo alla fine, sull’ultimo gong,  ha sfoderato il suo piglio decisionista.

Poi il conduttore si è preso la libertà di chiedere a Caldoro e De Luca, che nella scenografia dello studio si sono trovati dalla stessa parte, di guardarsi una buona volta. E i due si sono voltati. Fino a quel momento, non si erano rivolti un solo sguardo. Nulla di personale, ovviamente: ma non v’è dubbio che i due erano i più ingessati, forse perché sono entrambi quelli che più hanno da perdere dalla sfida. Per entrambi si tratta di una partita decisiva: o la polvere o gli altari. Per De Luca è l’ultimo assalto ad un palcoscenico diverso da quello locale, e probabilmente morde il freno per gli ostacoli che gli sono stati buttati nel corso di questa campagna elettorale, dalla legge Severino all’intervista a Saviano. Che qualcosa non gli sia andata per il verso giusto lo dimostra anche il fatto che la Ciarambino, che pure guida una lista anti-sistema, ha polemizzato molto più con lui che con Caldoro. Quanto a quest’ultimo, governatore in carica, è l’ultimo punto di coagulo del centrodestra nel Mezzogiorno: sa bene che senza un risultato positivo il processo di frantumazione proseguirà, e sarà molto difficile immaginarsi, nel breve periodo, linee di ricostruzione di una proposta politica.

Poi sono venuti gli appelli finali. Chissà a cosa servono. Chissà se esiste un elettore al mondo che cambia al voto sulla base delle poche parole che i candidati rivolgono agli elettori in quei pochi secondi finali. Quelli di Sky ci hanno provato in realtà due volte: la prima, quando hanno chiesto a tutti i candidati di rivolgersi a Gomorra senza abbassare lo sguardo; la seconda, appunto, con gli appelli finali. Ma se è lecito interrompere la cronaca, la battuta più felice l’ha avuta, con gli occhi alla telecamera, Marco Esposito, che citando Luciano De Crescenzo, in “Così parlò Bellavista”, ha detto quello che tutti pensiamo dei camorristi: che fanno una vita di merda. È pure ora, però, che i cittadini campani facciano una vita migliore.

(Il Mattino, 18 maggio 2015)

La breccia di Lecce sul muro della leadership

mura crepate

È mai accaduto, nel centrodestra, che la leadership di Silvio Berlusconi fosse contestata al punto che la sua direzione politica ne venisse apertamente sconfessata? È mai accaduto che qualcuno, posto dinanzi alla scelta fra il Cavaliere e il capo dell’opposizione interna, preferisse quest’ultimo? No, non era mai accaduto fino ad ora. Ma ora è accaduto, ora che Francesco Schittulli, candidato di Forza Italia alla guida della regione Puglia, ha mollato il partito al suo destino per ottenere il sostegno di Raffaele Fitto, contro le tassative indicazioni di segno opposto provenienti da Arcore. Il veto su Fitto è caduto, e sono adesso i berlusconiani a dover casomai andare al seguito e rimanere aggrappati.
Conta ovviamente il peso elettorale di Fitto nella regione: senza il suo appoggio Schittulli non ha chance di vittoria. Ma è arduo trovare un segnale più fragoroso della profonda crisi che attraversa oggi il centrodestra. All’inizio, cioè nel 1994, era il Verbo, e il Verbo era stato assai ben accolto: di opposizione interne non aveva neppure senso parlare. Nel corso di un ventennio Berlusconi ha perso e ritrovato alleati, e ha attratto a sé forze e personalità anche distanti, culturalmente e ideologicamente, dall’area moderata e di destra che è riuscito per lungo tempo a coagulare attorno a sé, riunendo in un’unica alleanza perfino la Lega secessionista e la Destra nazionale, spingendo al voto azzurro uomini molto diversi: ex filosofi marxisti e illustri professori liberali, democristiani di lungo corso e socialisti di provata fede, perfino repubblicani e repubblichini. E nessuna di queste componenti ha mai potuto disegnare un’area di minoranza, un’opposizione interna, un dissenso organizzato. Malumori e disaccordi rientravano, e se proprio non potevano essere ricomposti, non producevano molto di più di qualche solitaria rinuncia, o di qualche lenta ma inesorabile emarginazione politica.
In un partito univocamente caratterizzato dal carisma del Cavaliere, una normale dialettica interna non ha mai potuto stabilirsi. Ci hanno provato, esplicitamente o implicitamente, in molti – da Fini a Tremonti, da Casini a Follini -: non ha mai funzionato. E non poteva funzionare, perché il partito di Berlusconi esisteva nell’elettorato solo grazie a Berlusconi. Naturalmente, in tanti anni, non pochi dei quali trascorsi a Palazzo Chigi (e alla guida di amministrazioni periferiche), si sono formati e sono esistiti anche un partito nel governo e un partito nell’organizzazione, con gruppi dirigenti fedeli al Cavaliere ma legati anche a cordate locale e ai plenipotenziari della macchina di partito: Scajola prima, Denis Verdini poi. Ma quel che conta sono i voti e il progetto politico, e l’uno e l’altro sono sempre rimasti intestati al Cavaliere, il che scongiurava ogni pericolo di disarticolazione.
Ormai, però, non è più così: più che le disavventure giudiziarie, hanno potuto la caduta del governo nel 2011, le deludenti elezioni del 2013, l’ascesa di Renzi nel 2014. Succede così che non vi sia più nulla – né la linea politica né il consenso – per spegnere i conflitti che scoppiano dentro il partito. E mentre prima poteva bastare a Berlusconi isolare o cacciare il dissidente di turno, ora succede che all’angolo ci finisce lui. Schittulli forse lo sa, forse no, ma si è assunto la parte che nella favola è del bambino il quale dice a voce alta ciò che tutti fingono di non vedere: che il Re è nudo.
Berlusconi è nudo: i sondaggi danno Forza Italia al suo punto più basso; figure storiche come Sandro Bondi lasciano il partito e contestano apertamente gli uomini e le donne più vicine al Cavaliere; né, infine, Alfano né Salvini ragionano più come Fini o Bossi, come se cioè Berlusconi potesse ancora essere il loro trait d’union. E, oltre a tutto ciò, Fitto gli dimostra che può avere più forza attrattiva di lui, o anche solo più facilità di movimento di lui. Accusano Fitto di «sete di potere», ma il punto è proprio questo: prima, chi aveva sete di potere stava con Berlusconi, non contro di lui.
In Campania, l’altra grande regione del Mezzogiorno che va al voto, le cose sono un po’ diverse. Non però perché Forza Italia abbia molte più carte da spendere, ma perché ne ha ancora qualcuna Caldoro. Se infatti Area popolare sembra propensa a rimanere nell’area di centrodestra, è in virtù della forza del governatore uscente. Che in verità può esercitarsi su due terreni: uno è quello del sottogoverno locale, delle residue promesse di fine mandato; l’altro è riconducibile all’«incumbency factor», alla tendenza dell’elettorato a premiare la continuità amministrativa, quando può dare un giudizio positivo sull’esperienza conclusa, ma soprattutto quando giudica che essa ha bisogno, per compiersi, di continuare per un altro mandato. Ora è chiaro che non potranno essere le ultime, frettolose nomine a decidere in questo senso. I tre profili di partito prima descritti – il partito nell’organizzazione, il partito nel governo, il partito nell’elettorato – possono comporsi in modo diverso. E se, invece di guardare all’elettorato con un progetto di governo, Caldoro si adagerà sul primo profilo, lasciando che prevalgano gli accordi fra notabili e conventicole, forse qualcosa rimarrà insieme, e una più rumorosa conflagrazione del centrodestra sarà evitata, ma in un senso non dinamico, non espansivo, bensì puramente difensivo. E, prima o poi, succederà così che altre nudità verranno allo scoperto.
Il Mattino, 5 aprile 2015

La scelta del sindaco che divide la sinistra

votoAll’indomani delle primarie, il Pd ha in Campania un candidato Presidente, Vincenzo De Luca, ma non ha, stando almeno alle intenzioni espresse, un bel po’ dei voti raccolti alle europee un anno fa. È una situazione in cui il Pd non si era ancora trovato: accusare un calo consistente di consensi, e avere nel suo candidato Presidente non più un punto di forza, ma un punto interrogativo. Naturalmente, il sondaggio che al Pd deve procurare qualche supplemento di riflessione fotografa una situazione ancora in movimento. E in tempi di alta volatilità del voto, nessun numero può ritenersi acquisito. La fotografia, per giunta, è scattata ad una considerevole distanza dal traguardo, fissato a fine maggio, e non può quindi includere alcuni elementi della sfida elettorale ancora in corso di definizione. Resta però il fatto che il Pd si trova per la prima volta a dover recuperare il terreno perduto – cosa, da Renzi in poi, mai capitata – e che il Sindaco di Salerno non riesce a trasferire la sua popolarità in percentuali più lusinghiere di quelle della coalizione che lo sostiene. Nel 2010, quando De Luca perse, ottenne comunque un risultato personale di tutto rispetto, finendo quasi cinque punti sopra la sua coalizione. Stavolta quell’effetto-leader non è visibile: coalizione e candidato presidente sono quasi appaiati.

È un problema che De Luca per primo sa di dover affrontare. Chi infatti conosce la storia dell’istituto che il partito democratico ha introdotto in Italia, mutuandolo dall’esperienza americana, sa che la prima e principale conseguenza delle competizioni primarie consiste nello spostamento del peso politico dal partito al candidato: si indebolisce il primo, si rafforza il secondo. Conta dunque, per il Pd, la capacità di ricostruire attorno al vincitore del primo marzo unità di intenti e di liste, dopo le inevitabili divisioni della campagna elettorale (e l’appello al non voto di Saviano, e i polemici addii di alcuni parlamentari, e i tentativi disordinati di evitare la competizione), ma conta anche di più la fisionomia del candidato prescelto. Il quale non ha un problema soltanto: ne ha due. Il primo problema è rappresentato, come tutti sanno, dalla condanna in primo grado che, per effetto della Severino, gli impedirà, salvo ricorsi o sospensive o pronunce di incostituzionalità, di andare ad occupare il posto di Presidente di Regione, in caso di vittoria. De Luca, ovviamente, non lascia trapelare la minima esitazione: se ha corso le primarie, è per correre anche dopo, contro Caldoro, e quindi ripete come un mantra che lui non ha alcun problema con la legge, e che il Tar metterà le cose a posto un minuto dopo il voto. Ma rimane il fatto che una porzione almeno dell’elettorato di centrosinistra (fuori dalla cinta muraria salernitana) continua a nutrire forti perplessità: vuoi per il complesso profilo giuridico della vicenda, vuoi per un atteggiamento legalitario, e cioè per l’indisponibilità a «fregarsene della legge», come dice De Luca, sbagliata o no che la legge sia. La domanda sull’opportunità della candidatura di De Luca spacca infatti l’elettorato di centrosinistra in due metà quasi eguali.

C’è poi il secondo problema, che non è ancora esploso ma che comunque rischia di creare a De Luca qualche inciampo, se non troverà la soluzione. Lui infatti tira dritto: ma il Pd? Anzi, più precisamente: Matteo Renzi? Renzi darà una mano? Metterà le cose per il giusto verso anche qui? Perché non sarebbe per De Luca auspicabile portare da solo tutto il peso della campagna elettorale, che andrà anzi crescendo col passare dei giorni, e difficilmente si schioderà dal problema rappresentato dalla Severino. Cosa farà allora Renzi? Potrà accontentarsi di girare alla larga da Napoli? Al voto di maggio mancano circa ottanta giorni: Renzi pensa di fare il giro d’Italia in ottanta giorni senza passare per la Campania? Si possono prendere alcune contromisure: il voto regionale è un voto amministrativo, più che politico, quindi – si può dire – Renzi non c’entra; De Luca, poi, mostra una capacità di attrazione su pezzi dell’elettorato moderato che può compensare quello che forse, per via della condanna, non riuscirà a raccogliere alla sinistra del Pd. Ma la latitanza di Renzi dalla sfida nella più importante regione meridionale difficilmente passerebbe inosservata. Una simile condotta imbarazzata non priverebbe solo De Luca della popolarità del leader nazionale, ma rischierebbe di rafforzare, invece di dissipare, i dubbi dell’elettorato sulla sua candidatura.

Proprio quello che De Luca, forse, non si può permettere. A due mesi dal voto, e soprattutto tre punti percentuali dietro Caldoro.

(Il Mattino, 14 marzo 2015)

Se Cesaro diventa l’anti-Cosentino

ImmagineNel giorno, in cui la Camera dei Deputati licenzia l’Italicum, non senza qualche batticuore, nella sede del consiglio regionale campano si fanno i conti con la mancanza del numero legale, che l’altro ieri ha reso a tutti evidenti i problemi della maggioranza che sostiene la giunta Caldoro. La fine naturale della consiliatura non è più così naturale.

Sono cose diverse, si dirà: un conto sono le sorti politiche nazionali, un altro le faccende degli enti locali. E poi le due vicende hanno un segno inverso: di là una nuova legge elettorale, e secondo il premier il primo punto segnato dalla politica contro il disfattismo; di qua invece una sconfitta della politica e il rinvio del consiglio a data da destinarsi; di là il primo scatto fuori dalla palude, di qua invece l’impantanarsi nella palude.

C’è però, al di là delle circostanze, un termine medio che tiene insieme i due estremi. O, al contrario, che non tiene né contiene più nulla. Quel termine sono i partiti politici, il luogo in cui dovrebbero comporsi interessi, forze, ideali, e che invece appaiono in avanzato stato di decomposizione. I partiti, così almeno come li intendeva la Costituzione, come soggetti organizzati dotati di autonoma cultura politica, non esistono quasi più. In particolare non esistono nel Mezzogiorno, dove sembrano condurre un’esistenza parassitaria solo dentro le istituzioni, essendo ormai irriconoscibili  e impresentabili in società. Le dinamiche con cui pezzi di partito si staccano o si riattaccano, si dividono o si riuniscono non solo non hanno alcun significato ideale, ma non parlano neppure a interessi diversi e più larghi di quelli che costituiscono quei pezzi stessi. La rappresentanza è quasi del tutto evaporata. Così oggi, in consiglio regionale, il gruppo di Forza Campania, staccatosi dalla maggioranza e passato di fatto all’opposizione, non può essere descritto adeguatamente se non per mezzo di un semplice cognome: sono i cosentiniani. Nient’altro: non basi ideologiche o programmatiche, l’area politica coincide perfettamente con il grosso grumo di potere che si raccoglie intorno all’ex sottosegretario all’Economia. Come si vede, la demonizzazione per via giudiziaria non c’entra nulla; c’entra invece, e come, il degrado della politica.

Se questo è lo stato delle cose, colpisce che il governatore Caldoro non avverta l’urgenza di ricostituire dalle fondamenta le ragioni di un vero patto politico, non semplicemente preoccupandosi di conservare il consenso, ma restituendogli il valore di una rappresentazione di ragioni, senso, progettualità. Che non senta cioè anche lui l’esigenza di scrivere da qualche parte: la politica segna un primo punto contro il disfattismo. Di sicuro, se pensa che affidarsi a Luigi Cesaro nella prossima competizione per le europee sia la maniera migliore per spezzare le sordide trame dei cosentiniani, non segnerà alcunché. Non è infatti cercando di contrapporsi pezzo a pezzo in una pura lotta di potere che potrà dare una prospettiva allo scorcio di mandato che gli rimane, e alla sua probabile ricandidatura. Caldoro ha tutto il diritto di esibire i risultati del suo governo, presentandoli come un’inversione di tendenza rispetto al passato. Ma ha il dovere di indicare una direzione, che non può consistere nel far scegliere gli elettori di centrodestra fra Cosentino e Cesaro. Sono questi i campioni della politica che vuole proporre ai cittadini campani, per dare qualche parvenza di credibilità spessore all’idea stessa di rappresentanza, che è alla base delle istituzioni della democrazia rappresentativa?

Intanto l’Italicum passa dalla Camera al Senato. La preoccupazione di liberare il paese dall’incantesimo del porcellum sta forse dando al paese un primo punto, come dice orgogliosamente Renzi. Ma il problema resta: il termine medio, i partiti. La migliore legge elettorale, quella che più di tutte assicura governabilità (e, onestamente, l’Italicum non è la migliore legge, bensì solo l’unica che finora si sia riusciti a fare), non può comunque risolvere il problema più grande della politica italiana: chi o cosa sono ormai i partiti che ci governano?

(Il Mattino – Napoli, 13 marzo 2014)