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Il Conclave e l’Italia sospesa

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Lo spirito soffia dove vuole, ma se volesse pure dare una mano all’Italia, con l’elezione del nuovo Papa, agli italiani, laici o cattolici che siano, forse non dispiacerebbe. D’accordo: la Chiesa cattolica ha una missione universale, non soltanto nazionale, e i suoi fedeli sono sparsi in tutti i continenti, e l’Europa non è più così centrale come un tempo e l’Italia lo è ancora meno. E poi i tempi di un’istituzione bimillenaria non si misurano sul piede della cronaca o dell’attualità. E soprattutto la sua sola e unica domanda – la più angosciosa, la più drammatica – non può che essere la domanda del Vangelo: «quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra?». Un Papa lo si fa per quello, perché il Figlio dell’uomo possa trovare ancora servi fedeli al suo ritorno. Sulla terra, non solo in quella piccola, alquanto malandata penisoletta che è l’Italia.

Ma questa volta il Conclave cade anche in un altro contesto: nel bel mezzo di una grave crisi economica e sociale, che dura da anni, a cui si è sommata una ancora più acuta crisi politica da cui non sappiamo se e quando l’Italia saprà uscire. Per questo se un soffio dello Spirito lambisse anche l’altra sponda del Tevere neppure l’ateo più accanito, forse, potrebbe dispiacersene.

Non è facile. Quando Friedrich Nietzsche spiegò cosa mai fosse il nichilismo, l’ospite inquietante che secondo lui ci avrebbe tenuto compagnia per un paio di secoli almeno (Nietzsche scriveva alla fine dell’800, dunque pure col nichilismo siamo ancora a metà del guado), provò a descriverla come quella situazione nella quale «l’uomo rotola via dal centro verso la x». E in effetti, mai come in questi giorni  di questa caduta non si vede il punto di arresto. Mai come in questa fase l’Italia sembra aver perduto stabilità e centralità, tanto rispetto al contesto europeo e internazionale quanto rispetto al suo stesso destino storico, che non sa più decifrare. Mai come in questa congiuntura, mentre un settennato volge al termine, e una nuova legislatura fatica a incominciare, e non c’è nessuno che abbia qualcosa più di un’ipotesi arrischiata sul futuro prossimo venturo, si sente la mancanza di certezze, e forse anche il bisogno di qualche rassicurazione. Così si aspetta la fumata bianca per poter pensare: almeno questa è fatta, qualcosa finalmente comincia ad andare per il verso giusto.

Non si tratta solo di psicologismo spicciolo: c’è effettivamente nel Paese una sorta di sospensione, di finta calma, di surreale immobilità. Persino i mercati finanziari sembrano attendere gli eventi, invece di tentare di determinarli con la solita, frenetica aggressività. Forse al paese è accaduto veramente di ritrovarsi sospeso in quella grande bonaccia delle Antille che raccontò Italo Calvino: senza un alito di vento verso una qualunque direzione, la nave dei corsari che rimane ferma per mesi, a fronteggiare da lungi i galeoni dei Papisti, in un’asfissiante bonaccia. Il fatto è che se domani, se nei prossimi giorni (ma presto, per carità!) dal comignolo di San Pietro venisse fuori un filo di fumo bianco, vorrebbe dire che almeno la barca di San Pietro ha ritrovato il suo capitano ed ha ripreso il mare.

La parabola marinara di Calvino era rivolta anzitutto contro l’immobilismo del PCI di Togliatti (che infatti la prese a male). Questa volta si tratta però, più gravemente, dello stallo dell’intero sistema politico, finito in un pauroso buco di vento.

Intendiamoci: neanche per la Chiesa la navigazione potrà essere tranquilla. Quando l’allora cardinale Joseph Ratzinger tenne la sua ultima omelia, prima che si chiudessero le porte del Conclave che lo scelse papa, parlò con inusitata determinazione della «sporcizia della Chiesa», da cui bisognava liberarsi. Dopo sono venuti gli scandali, lo Ior, Vatileaks, la pedofilia, il maggiordomo infedele e la riapertura del caso Orlandi, l’acuirsi della crisi delle vocazioni e gli scontri all’interno della Curia: infine, le inaudite dimissioni del Papa. Anche Ratzinger aveva usato una parabola marinara: «spesso, Signore, la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti». Ma Bemedetto XVI ha lasciato, e mettere la barca in condizione di affrontare nuovamente il mare è il compito del futuro Papa: un nuovo Pontefice potrebbe averne la forza, essere il legno al quale i credenti potranno aggrapparsi.

E l’Italia? Quando l’Italia potrà salpare nuovamente, da dove potrà ripartire? Dalla saggezza di Napolitano? Sicuramente, ma ha soltanto un mese di mandato davanti a sé. Dai partiti? Ma sono investiti da un ciclone ancora più impetuoso di quello che li travolse con Tangentopoli. Dal Movimento 5 Stelle? Ma sembra lontanissimo da una qualunque idea di governo, e finanche dalle consuetudini parlamentari. Da un nuovo spirito pubblico, allora?

Ecco: se lo Spirito, che soffia dove vuole, dopo aver lasciato la Cappella Sistina mandasse qualche sbuffo pure dalle nostre parti e facesse circolare un po’ di aria nuova, di idee e di forze nuove, forse anche l’Italia potrebbe riprendere il vento.

Il Messaggero, 12.03.2013

Qudabliu

C’è una cosmicomica di Calvino che cito sempre, anche se ormai non me la ricordo più. Si chiama Un segno nello spazio, e c’è Qwfwq (Qudabliueffedabliuqu, più o meno) che ha il problema di lasciare, in un universo appena nato, un segno. Il primo.
L’ho citata anche ieri, durante la prima lezione di Filosofia del Linguaggio, introducendo qualche piccola variante. Il protagonista si chiamava cioè Qudabliubush, e siccome era texano, non capiva proprio come non si potesse affatto tracciare questo primo segno.

(Al pomeriggio, durante la prima lezione di Filosofia della Comunicazione, mi veniva voglia di citarla di nuovo. Ma ho fatto di meglio: ne ho inventata una di sana pianta. Però quest’altra non ve la racconto).

P.S. In rete trovo questo passo:
“ (…) io una volta passando feci un segno in un punto dello spazio, apposta per poterlo ritrovare duecento milioni d’anni dopo, quando saremmo ripassati di lì al prossimo giro. Un segno come? È difficile da dire perché se vi si dice segno voi pensate subito a un qualcosa che si distingue da un qualcosa, e lì non c’era niente che si distinguesse da niente; voi pensate subito a un segno marcato con qualche arnese oppure con le mani, che poi l’arnese o le mani si tolgono e il segno invece resta, ma a quel tempo arnesi non ce n’erano ancora, e nemmeno mani, o denti, o nasi, tutte cose che si ebbero poi in seguito, ma molto tempo dopo. La forma da dare al segno, voi dite non è un problema perché, qualsiasi forma abbia, un segno basta serva da segno, cioè sia diverso oppure uguale ad altri segni: anche qui voi fate presto a parlare, ma io a quell’epoca non avevo esempi a cui rifarmi per dire lo faccio uguale o lo faccio diverso, cose da copiare non ce n’erano, e neppure una linea, retta o curva che fosse, si sapeva cos’era, o un punto, o una sporgenza o rientranza. Avevo l’intenzione di fare un segno, questo sì, ossia avevo l’intenzione di considerare segno una qualsiasi cosa che mi venisse fatto di fare, quindi avendo io, in quel punto dello spazio e non in un altro, fatto qualcosa intendendo di fare un segno, risultò che ci avevo fatto un segno davvero”.

Perché l'opposizione è da irrobustire

“Confronti continuativi periodici”. Al Senato, Berlusconi ha annunciato ieri che si è deciso di avviare, già dalla fine di questa settimana, un “confronto non pregiudiziale” con l’opposizione, senza precedenti nella storia della Repubblica, per una “comune assunzione di responsabilità” che consenta finalmente, dopo una “guerra quasi ventennale”, di restituire credibilità al sistema politico nel suo insieme ed efficacia all’azione di governo, particolarmente sul terreno delle riforme istituzionali.
Se questa è la grande notizia della giornata politica, non piccola notizia è che un confronto serio e meditato si è avviato anche all’interno del partito democratico, sicché quelle stesse parole possono forse servire anche per dare conto del seminario a porte chiuse che ieri pomeriggio ha riunito attorno a un tavolo i maggiori leader del partito democratico nella sede di piazza Farnese della Fondazione ItalianiEuropei: la “cosa differente” che sta cercando di fare D’Alema – secondo le sue parole di ieri al Corriere – cioè uno di quei luoghi in cui si può supporre che in futuro troverà articolazione la proposta politica del PD.
Ora, che ci sia stata o no nelle scorse settimane un’analisi delle cause della sconfitta elettorale altrettanto approfondita, franca e non retorica di quella condotta ieri, e che Veltroni abbia impresso o meno dopo il disastroso ballottaggio di Roma una qualche correzione di rotta sui modi e le forme in cui il partito democratico dovrà attrezzarsi nei cinque lunghi anni che trascorrerà all’opposizione, il fatto è che si sta comunque facendo largo la salutare convinzione che il partito leggero e mediaticamente affascinante, immaginato e descritto fino al giorno prima delle elezioni dal suo leader, ha urgente bisogno di irrobustirsi un po’. E che la necessaria cura ricostituente non può non passare attraverso il “confronto non pregiudiziale” tra analisi, idee e proposte che alimentino sia la forza di elaborazione politica e culturale del centrosinistra che la sua capacità di rappresentare interessi e bisogni reali del paese. Nonostante gli impegnativi manifesti dei valori e i codici etici, quel che finora è stato messo in campo dal PD è poca cosa a confronto di quanto occorrerà che metta in campo nei prossimi anni per recuperare un rapporto non sfilacciato né velleitario con il paese.
E di velleità il PD ne ha coltivate molte, in questi ultimi mesi. L’idea un po’ contraddittoria che bisognasse fare sì un partito, ma che in nulla somigliasse effettivamente a un partito, rientra tra queste. Ma dopo una “guerra quasi ventennale” in cui ha spirato forte il vento dell’antipolitica, si può sommessamente osservare che, ci sarà stata pure la casta, quel che però di sicuro non c’è stato, sono stati proprio i partiti (e casomai, in loro vece, le proprietà private di questo o quel leader)? Berlusconi lo ha capito, e ha preso come un complimento che qualcuno gli abbia detto, dopo il suo discorso in Parlamento, di avere parlato da democristiano. E dalle parti del PD?
Nelle sue celebri lezioni americane, Italo Calvino scelse anche lui parole fascinose per attrezzarsi alle sfide del nuovo millennio. La leggerezza e la rapidità, innanzitutto, poi l’esattezza e la visibilità. Bene. Anche a voler concedere che queste parole funzionino davvero per organizzare le forze con cui affrontare i futuri impegni che il paese ha davanti, e che non sono di poco momento, c’è da augurarsi almeno che il partito democratico scorra l’elenco fino in fondo, e prenda nota anche delle ultime due: molteplicità e coerenza.
Molteplicità, anzitutto, il che, adattato un po’ rozzamente alle esigenze del PD, non deve certo significare correnti vecchio stile e sanguinose faide intestine, ma presenza sul territorio e nella società, e pluralità di centri, associazioni politiche e culturali, istituti di ricerca, a meno di non voler trasformare la vocazione maggioritaria in una voce monocorde.
E infine coerenza. La sesta paroletta scelta da Calvino, che non fece in tempo a descriverla, era la coerenza. Si dovrà vedere nelle prossime settimane se la disponibilità alla “comune assunzione di responsabilità” manifestata da Veltroni nel partecipare al seminario della Fondazione avrà un seguito e darà forza al partito democratico oppure sarà stato solo un gesto senza seguito di fredda e distratta cortesia.