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Se l’ascensore sociale sale in cattedra

indexDa qualunque parte lo si guardi, il concorso scolastico che prende inizio oggi rappresenta un punto di svolta nella storia della scuola italiana. A concorso vanno quasi 64.000 posti: nella scuola primaria e dell’infanzia, nella scuola secondaria, per insegnanti di sostegno. Era dai tempi del concorso del 2000 che non succedeva una cosa del genere. Luigi Einaudi non aveva affatto torto quando diceva che l’assetto ordinamentale non conta quanto il reclutamento docenti: se non investi sugli insegnanti, ogni disegno riformatore rimane infatti sulla carta. Certo, se l’età media di coloro che hanno presentato domanda supera i 38 anni, viene un po’ più difficile parlare di una nuova. fresca generazione di maestri e professori, ma il ritardo non può certo essere attribuito al governo in carica, bensì all’immobilismo degli anni passati, e anzi al progressivo disinvestimento nell’istruzione e nella formazione. In questa materia, il governo realizza dunque  una netta inversione di tendenza.

Questo non vuol dire che mancheranno le polemiche: le polemiche (e un’immancabile scia di ricorsi) nel mondo della scuola non mancano mai. E allora saranno le modalità delle prove, il riconoscimento dei titoli, la formazione delle commissioni, i tempi della procedura concorsuale. Sarà, soprattutto, la protesta dei precari, quelli che avrebbero voluto entrare ex lege sulla base degli anni di supplenza accumulati, e che invece sono costretti, al pari di tutti gli altri, a sottoporsi alla prova concorsuale. Vince però il merito, ed è anche giusto che sia così, se si guarda non solo alle pur legittime richieste sindacali, ma anche alle esigenze almeno altrettanto legittime della scuola e degli studenti.

E così Matteo Renzi segna oggi un punto. Su una materia, peraltro, sulla quale aveva investito fin dal suo insediamento. Il governo in questi due anni ci ha messo quattrini: non solo per il concorso, ma anche per l’edilizia scolastica, e per la formazione docenti (il bonus di 500 euro per l’aggiornamento). Al passaggio parlamentare della riforma, il coro delle proteste aveva prevalso: scuola gerarchica, scuola autoritaria, scuola di classe. Slogan un po’ stantii. In ogni caso, con le migliaia di assunzioni di questi mesi, e ora con il concorso, Renzi sta rovesciando la partita. Aveva cominciato con una buona dose di retorica, visitando le scuole elementari ogni settimana, accompagnato da imbarazzanti coretti giulivi di bambini in grembiule, preparati da maestre forse troppo zelanti. Ma poi la riforma è stata approvata, gli investimenti sono arrivati, e il concorso eccolo: si fa.

A gennaio Renzi aveva detto: «noi blairiani vogliamo education, education, education», cercando di dare ai provvedimenti del governo anche il tono di una scommessa politica, e di una rivoluzione culturale. È presto per dire se vi stia riuscendo, è abbastanza per dire che ci sta provando. Avrebbe potuto anche scomodare Antonio Gramsci e il suo elogio dello studio, per accontentare quella parte della sinistra a cui il nome di Blair fa venire l’orticaria, ma la sostanza non sarebbe cambiata: nel nostro Paese l’ascensore sociale non funziona, e la funzione della scuola rimane quella di mettere tutti i nostri ragazzi su un piede di parità.

La giornata di ieri è stata poi teatro di un’altra, importante decisione, su cui questo giornale si era lungamente speso: quella di tenere aperte le scuole di Napoli anche al pomeriggio, oltre l’orario scolastico, e anche durante il periodo estivo.  Ieri si è fatto un primo passo, e i primi milioni sono stati stanziarti per trasformare gli istituti scolastici in presidi di legalità, di civismo, di educazione alla cittadinanza. Le cronache di queste settimane ci hanno messo dinanzi ad una amarissima verità: l’età di quelli che sparano si è abbassata, e l’appartenenza familiare e sociale determina sin dall’adolescenza, entro determinati contesti, il destino criminale dei figli di camorra. Ripetere che forze dell’ordine e magistratura non bastano, che la sola repressione non basta è presso che inutile, se la scelta possibile in certi quartieri rimane una e una soltanto: quella della delinquenza organizzata. Perché i camorristi non se la passano male; perché il codice del rispetto e dell’onore legati alla violenza continua ad avere una presa molto forte; perché tutto passa di padre in figlio, in certe storie di camorra. Spezzare queste catene, economiche, sociali e valoriali, è possibile, ma per farlo c’è bisogno della scuola. Di docenti motivati e ben pagati, di istituti funzionanti e aperti al territorio.

Ieri è arrivato un primo segnale concreto. Se il concorso susciterà una nuova leva di docenti, con una sincera passione per le loro materie e la voglia di insegnarle ai più giovani, ne arriverà presto un altro, altrettanto importante.

(Il Mattino, 28 aprile 2016)

Perché negare i luoghi comuni non la camorra

1Contestare l’espressione usata da Rosy Bindi per denunciare la presenza camorristica a Napoli tutto vuol dire meno che sminuire il fenomeno, o addirittura negarlo. Invece, il Presidente della Commissione Antimafia ha ribattuto alle critiche in questi termini. Al primo sproposito ne ha dunque aggiunto un altro: prima ha detto che la camorra é un dato costitutivo di Napoli, poi ha tacciato i suoi critici di negazionismo. Come se solo sparandola grossa si dimostrasse consapevolezza del problema. Eppure è semplice: se la camorra fosse costitutiva della città, della società napoletana, vorrebbe dire che Napoli non sarebbe Napoli se la camorra non fosse in città. Si scelgano gli esempi che si vogliono più appropriati, per una rapida istruzione sull’uso della parola: la laguna è costituiva di Venezia, nel senso che Venezia non sarebbe la stessa senza i suoi canali. Né lo sarebbe Roma senza il Colosseo, o senza la presenza della Chiesa cattolica nella sua storia.
Ma si può provare anche così: forse che Napoli sarebbe la stessa senza la lingua napoletana? Certo che no: la lingua napoletana, e la cultura che in essa si esprime, sono dunque costitutivi della città. Ecco cosa si vuol dire: togliete a Napoli la sua lingua e l’avrete resa irriconoscibile, amputandola di una parte fondamentale della sua identità.
Orbene: si vuol dire lo stesso della camorra? Che Napoli cioè perderebbe un pezzo della sua identità il giorno in cui fosse definitivamente sconfitta la camorra? Che perciò i napoletani si trovano di fronte all’aspro dilemma: o restano se stessi, e allora devono imparare a convivere con la camorra, oppure debbono inventarsi un’altra storia e un’altra identità, se vogliono liberarsi per davvero della criminalità organizzata?
Questo basta per l’uso delle parole, gli infortuni linguistici e le pezze peggiori del buco. Ma perché Rosy Bindi ha insistito, è ritornata sulle sue parole, non ha chiesto scusa e anzi ha rincarato la dose? Non è certo solo per una questione di orgoglio, o per evitare una figuraccia. Tant’è vero che a darle man forte è intervenuto pure il procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti. Anche per lui, non devono far scandalo le parole del Presidente Bindi, ma casomai la reazione che hanno sollevato. Negare infatti che la camorra sia un elemento costitutivo della società napoletana significa «non guardare in faccia la realtà». E se non si può negare che le mafie siano elemento costitutivo della società vuol dire che chi invece lo nega è un negazionista – parola che, ricordiamolo, si usa per indicare non un mero errore, ma una deliberata e infamante disonestà intellettuale.
E invece la prima regola del confronto di idee è rispettarle tutte. Cosa che si fa – sia detto incidentalmente – ospitando sullo stesso giornale opinioni anche difformi, come il Mattino non ha mancato di fare; cosa che invece si fa meno, tacciando l’interlocutore di negazionismo.
Perché però accade questo? E soprattutto perché non è sufficiente una semplice messa a punto del vocabolario, per dirimere la questione? In fondo basterebbe replicare che per «approntare gli interventi strutturali» necessari a contrastare la camorra bisognerebbe evitare di considerarla parte del paesaggio naturale della società napoletana. Per suscitare le migliori energie politiche, morali e civili bisognerebbe cioè dire esattamente il contrario di quanto si è venuti dicendo: che nessuna legge storica o sociale, men che meno antropologica o biologica, condanna i napoletani a vivere in mezzo all’illegalità e al malaffare. C’è uno slittamento inavvertito fra il dire che la camorra fa parte della società napoletana, che è un dato sociologico, e il dire che non può non farne parte. Che è invece una legge d’essenza: un dato costitutivo, appunto.
Ma daccapo: perché si produce questo slittamento? Per difetto di logica? Possibile, ma non probabile. Più probabile è che in queste posizione si esprima una certa cultura dell’emergenza, per cui non è mai abbastanza quanto è scritto nelle leggi, quanto è previsto dalle pene, quanto è possibile agli inquirenti. Una ideologia dell’inasprimento, potremmo chiamarla, parente stretta di quel populismo penale che per principio esulta quando è elevata una pena pur che sia, quando è introdotta una nuova figura di reato, quando è prolungato un termine di custodia.
Chi d’altra parte, invece di inasprire, si potrebbe mai proporre di attenuare? In verità, si dovrebbe dire piuttosto garantire, e non solo inquisire, ma daccapo: chi può permettersi di dirlo, senza rischiare imperiose squalifiche morali?
Forse, l’unica maniera per dirlo sarebbe appunto parlare in nome di quella società sana, viva, pulita, che non accetta di essere criminalizzata in blocco.
Se invece il crimine e la camorra non fossero solo un problema serio, drammatico, ma fossero addirittura un dato costitutivo di Napoli, allora questa via sarebbe preclusa, questa parola sarebbe zittita, e non vi sarebbe altra strada che quella che passa attraverso giudici e tribunali.
E invece altre strade ci sono, o perlomeno non bisogna smettere di cercarle lì dove possono e devono essere tracciate: nella politica e nella società. Rosy Bindi forse non le conosce, e conosce solo la Napoli costituita dalla camorra. Si può dunque sostenere, senza negare alcunché, che la camorra è costitutiva solo della conoscenza che Rosy Bindi ha di Napoli.

(Il Mattino, 17 settembre 2015)

I fatti gravi e le parole da pesare

IMMMago

Un’inchiesta come quella della Dia di Napoli sulla gestione dell’azienda ospedaliera di Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta, che ha portato in carcere o agli arresti domiciliari decine di persone, offre uno spaccato davvero inquietante del livello di penetrazione camorristica raggiunto in alcune aree della nostra regione, e non può non destare la massima preoccupazione nell’opinione pubblica, che giustamente si interroga non solo sulla ben nota pericolosità delle organizzazione criminali, ma anche sulle conseguenze di più ampia portata di una così profondo inquinamento politico e sociale. Tutti i rapporti su cui si basa un’ordinata convivenza civile – quelli di mercato, quelli politico-elettorali, quelli che legano il cittadino allo Stato e all’amministrazione pubblica – sono infatti gravemente alterati e corrotti, se la camorra riesce a controllare così pervasivamente appalti e affidamenti di lavori all’interno di una struttura pubblica.

A dirlo è lo stesso gip  Giuliana Tagliatela nella sua ordinanza, che descrive il sistema proprio in questi termini, per abbandonarsi poi a questa indignata considerazione: «Chi paga? Il cittadino della Campania, che paga le tasse, foraggia il politico che fa clientela, il camorrista che si arricchisce e l’imprenditore che droga la concorrenza. Salta il mercato dell’economia, salta la libera determinazione dell’elettore, salta il rapporto fra lo Stato e la criminalità organizzata. Salta la democrazia, al Sud più che altrove». La citazione è lunga ma andava riportata per esteso, non solo per l’efficacia della domanda retorica e per lo sfogo che ad essa si accompagna, ma perché figura senz’altro meglio in un fondo di giornale piuttosto che in un’ordinanza cautelare. E però – sia consentito dirlo – è in quest’ultima che la si legge: dunque nell’atto di un giudice, che accogliendo l’impostazione dei pm, autorizza mandati di arresto.

Ora, lungi da me il voler confondere la pagliuzza con la trave, anche se molte pagliuzze rischiano di ingolfare qualunque macchina, figuriamoci quella così delicata della giustizia. Ma sta il fatto che l’inchiesta «Croce nera» della Dia di Napoli ha certo consentito meritoriamente di scoperchiare la pentola di malaffare e corruttela in cui il clan Zagaria teneva la vita amministrativa ed economica dell’ospedale, ma ha lambito, lambito appena, alcuni di quei rapporti di cui parla il Gip nella sua ordinanza. Si dovrà indagare ancora: sicuramente e con la massima determinazione. Ma, allo stato, i personaggi che sono coinvolti non appartengono affatto alla politica che conta. O almeno: non sono coinvolti dal punto di vista penale, che è però il solo punto di vista che conta in un atto come quello firmato dal Gip. I nomi grossi – quelli che consentono ai giornali di fare i titoli – non ci sono. O per meglio dire: ci sono, ma intervengono solo nella descrizione letteraria del sistema, non in relazione a fattispecie precise per le quali siano stati raggiunti da provvedimenti della magistratura. Non è una distinzione di grana troppo sottile: eppure viene bellamente saltata. Capita così che il procuratore Colangelo debba precisare alla stampa che la tal intercettazione, in cui compare il tale nome, che magari il Gip riprende nella sua ordinanza, non contiene in verità notizie di rilievo penale, e che al suo aggiunto, Giuseppe Borrelli, venga perciò fatto di osservare che, tuttavia, ha un rilievo giornalistico, e che per questo viene messa a disposizione della stampa.

Melius abundare. Diciamolo allora un’altra volta: la gravità delle connivenze all’ombra delle quali imprenditori, clan, funzionari pubblici e notabili locali si spartivano affari è tale, da suscitare legittimamente il più grande allarme. E la politica ha sicuramente enormi responsabilità: responsabilità politiche, appunto. Ma proprio per ciò, e proprio perché l’impianto accusatorio mostra sicuramente una notevole robustezza, è lecito chiedersi perché spingersi anche più in là, dove l’inchiesta non soccorre con pari robustezza il giudizio politico o morale, e dove anzi questo non avrebbe titolo per comparire: forse perché la notizia giornalistica è la prosecuzione della notizia penale con altri mezzi? I politici, che a detta del Gip «orchestrano, nominano, revocano, danno direttive e tutto sovraintendono», compiono reati, così orchestrando nominando e revocando? Se sì, tocca alla magistratura perseguirli senza sconti. Se no, tocca all’opinione pubblica discuterne e far conoscere, e tocca poi all’elettorato giudicare ed eventualmente sanzionare. Ma senza commistione di ruoli, senza sovrapposizione di ambiti. Senza infilare qua e là questa o quella pagliuzza. Senza, insomma, che si inneschi un’altra volta il circo mediatico-giudiziario in cui inchieste e processi diventano parti di un rituale sociale, non potendosi svolgere dentro le aule giudiziarie.

(Il Mattino, 22 gennaio 2015)

La giustizia fai da te dei razzisti nostrani

Dove sono i razzisti? Sempre lontano, altrove, e mai tra noi. Anzi: non siamo mai noi, i razzisti, ma sempre gli altri. Poi però accade che un’indagine della magistratura porta allo scoperto quello che accade nelle nostre scuole, tra i nostri figli, e all’improvviso prendiamo coscienza che il problema ci riguarda, che l’integrazione è ancora tutta da fare,, che non siamo affatto più tolleranti degli altri, ma che anzi reagiamo nello stesso modo: incivile, illegale, infame.

Peggio: si scopre che pur di tenere i nostri figli lontano da quelli brutti, sporchi e cattivi – che sono sempre i poveri, gli extracomunitari, meglio se di pelle scura – siamo disposti ad affidarci alla camorra, neanche fosse la ronda padana in servizio fra le strade di Napoli. Con tuta sportiva al posto della camicia verde, ma con la stessa funzione. E sul serio, non a chiacchiere.

Perché, certo, chi non si preoccupa dell’educazione dei figli? Chi non si augura per loro la migliore istruzione? Ma cosa c’entra con la legittima preoccupazione di assicurare un futuro ai propri figli, e persino con gli infiniti problemi che esasperano la vita dei cittadini napoletani nell’infinita periferia della città, il rivolgersi ai clan per ripulire la scuola ed il quartiere dalle presenze sgradite e sgradevoli? Questo, infatti, è accaduto: forse un preside non avrà ascoltato abbastanza, e forse neanche lui poteva far nulla, perché l’istruzione è un bene universale che va garantito a tutti senza eccezione alcuna. Forse, anzi senza forse, in certi quartieri non solo lo Stato non è presente, ma non si trova neppure un vigile, un pubblico ufficiale o un qualunque presidio pubblico a cui rivolgersi, ma cosa c’è di peggio della rassegnazione con cui ci si affida non a un esposto o a una denuncia, ma alle armi del clan, al metodo mafioso, all’intimidazione e alla violenza?

Ora i sociologi disquisiranno se sono la povertà e il degrado sociale a generare l’odio razziale; gli antropologi ci aiuteranno a capire e, si spera, rimuovere le diffidenze verso l’altro, il diverso, lo straniero che rendono difficile e a volte troppo faticosa la convivenza; gli educatori ci spiegheranno che l’istituzione scolastica è sempre più abbandonata, in un tessuto urbano disgregato, ultima fra le priorità che la politica affronta o finge di affrontare. Ma tutto questo non riduce di un millimetro il vuoto in cui sprofonda una città, quando i suoi abitanti non trovano di meglio da fare che rivolgersi alla camorra per regolare i suoi conti, le sue paure, le sue intolleranze. Che Napoli non sia una città da libro Cuore lo sappiamo da un pezzo, quel che non vorremmo scoprire è che non è più nemmeno una città, un luogo a tutti comune, ma il pezzo di carne e di vita che ciascuno strappa a brani per sé e per i propri figli.

Il Mattino, 11 luglio 2012

La forza delle parole

E se invece la letteratura c’entrasse qualcosa? Dopotutto, Saviano non ha pubblicato solo degli articoli, delle inchieste giornalistiche, dei pezzi di denuncia, ma ha scritto un libro, e qualunque idea si abbia della letteratura, dalla più frivola alla più impegnata, sarà difficile che si riesca a tenerne fuori il suo libro, Gomorra. E se Gomorra appartiene al campo letterario, così come ad esso appartengono i Versetti Satanici di Salman Rushdie o i romanzi di Orhan Pamuk, non bisognerà chiedersi come facciano le parole di un libro, come può lo statuto letterario di quelle parole rappresentare una minaccia per qualcuno? È una riflessione alla quale spesso e volentieri ci si sottrae. Comprensibilmente, del resto: il pericolo di vita, nel caso di Saviano, è così concreto e reale, che innanzi a qualunque discussione sulla forza delle parole viene la preoccupata solidarietà per la sua stessa esistenza. Che va espressa senza reticenze, senza tiepidezze, senza ipocrisie. Saviano però è uno scrittore, ed è in quanto scrittore, per il suo lavoro di scrittore, che è oggi nel mirino dei Casalesi. Sicché bisogna tornare a chiedersi come sia possibile che un libro possa avere tanta forza, e preoccupare i clan camorristici al punto da spingerli a progettare l’eliminazione fisica dello scrittore (perché, quanto al libro, come diceva Bulgakov, quello per fortuna non lo si può più eliminare). Quando, un paio di anni fa, a Saviano fu assegnata "una sorta di protezione" (così pudicamente scrissero in un primo momento i giornali), Umberto Eco ebbe a dichiarare che il caso di Saviano era diverso da quello di Rushdie: che non servivano gli appelli di scrittori e intellettuali, ma solo l’impegno delle forze dell’ordine. Era forse un modo non proprio felicissimo per incitare le autorità di pubblica sicurezza a fare la loro parte, ma dava la sgradevole sensazione che tutto quello che si era sollevato intorno a Roberto Saviano non avesse molto a che fare con il mestiere dello scrittore e dell’intellettuale, e con la funzione della letteratura. Come se, appunto, l’attività letteraria, e l’attività artistica in generale, avessero a che fare solo con la bellezza, e non anche con la verità. E siccome Saviano è nel frattempo divenuto un "testimonial dell’anticamorra" (anche questo s’è letto sui giornali, quasi che dopo tutto si trattasse solo del clamore di un fenomeno mediatico), anche le normali funzioni critiche di giudizio sulla sua opera sarebbero da sospendere, per timore che un giudizio negativo possa essere considerato un vergognoso sabotaggio nella lotta alla camorra. La qual cosa è ridicola: forse non si può pretendere da nessuno, critico letterario o no che sia, di avere il coraggio di Roberto Saviano, ma di avere il coraggio di discutere di letteratura con lui e con il suo libro, questo però lo si può chiedere a chiunque non abbia dello spazio letterario un’idea men che salottiera. Dopo tutto, quelli che han ragionato così poveramente, non hanno ragionato molto diversamente dagli amici che si trovano costretti, dicono loro, a sopportare il peso della notorietà letteraria di Saviano: si vedono accollata una responsabilità non gradita e non voluta.
Poiché in fondo si tratta solo di questo: della responsabilità nell’uso delle parole, nelle quali ci si impegna se a quelle parole si crede, che si tratti di rendere una testimonianza in tribunale, di dare un consiglio a un amico, di stendere un giudizio critico o di scrivere un libro. Le parole hanno infatti un peso e una forza, e la letteratura, quando è tale, è il luogo in cui questa forza si intensifica al massimo: non certo il luogo in cui essa venga meno. Magari quella forza si manifesta a distanza di secoli, oppure si manifesta in contesti diversi da quelli civili e pubblici nei quali ha fatto la sua salutare irruzione la parola di Saviano, ma si manifesta. Per non lasciare mai indifferenti, se appunto è vera letteratura e non mero divertissement.
Questa è poi la potenza e la verità dell’arte. Di tutta l’arte. Chiunque abbia visto una tela di Marc Rothko, uno dei più grandi artisti del ‘900, saprà di cosa stiamo parlando. Chiamato a dipingere per un lussuoso ristorante all’interno del Seagram Building di New York qualcuna delle sue tele, Rothko lasciò perdere le questioni squisitamente estetiche, e così confesso le sue intenzioni per lettera: “Ho accettato questo incarico come una sfida, armato di intenzioni del tutto malevole. Spero tanto di riuscire a dipingere qualcosa che guasti l’appetito d’ogni figlio di puttana che entrerà in quella sala per mangiare”.Ecco, che anche la letteratura riesca a guastare l’appetito di qualche figlio di, e gli impedisca di mangiare tranquillamente, è quello che Saviano non ha mai smesso di proporsi, senza rinunciare di un millimetro alla propria idea di letteratura e alla propria esperienza di scrittore. Ed è quello che dobbiamo augurarci riesca ancora a fare.

Le risposte (inevase) di Walter a Saviano

Pronuncia i loro nomi. Pronuncia i nomi dei boss, di Zagaria e Iovine, ad esempio, accendi i riflettori su queste terre, e fai anche i nomi delle persone a cui affidare la svolta politica di cui questa terra ha un disperato bisogno: così Roberto Saviano ieri, su questo giornale.
Ma Saviano ha anche scritto: ci vogliono parole “che diventino «ouvertures» ai fatti”. Non credo volesse dire solo che le parole devono costituire la premessa del cambiamento: devono essere già, esse stesse, i primi fatti di questa nuova politica.
Le parole possono avere infatti anche un uso performativo, e cioè: si possono “fare cose con le parole”, e non limitarsi a dirle. Il sindaco che emette ordinanze, il cittadino che denuncia, il giudice che sentenzia fanno cose con le parole: non si limitano a constatare, agiscono. Lo stesso fa Saviano, con il suo libro Gomorra, e ora con la lunga e accorata lettera a Veltroni: non si limita a riferire fatti, ma smuove coscienze, motiva persone, e chiede risposte. E lo stesso dovrebbe saper fare finalmente la classe politica campana: compiendo scelte nette, pronunciando parole scomode, e dando risposta alle domande finora inevase. Risposte che sono drammaticamente urgenti. Che non possono essere differite sine die. Che devono, soprattutto, avere la stessa, decisa perentorietà dei fatti.
Già, i fatti. Anche questa, però, è una parola. Si declina anzitutto al passato, ed invita a considerare in primo luogo quello che è stato e quello che non è stato fatto, specie in campagna elettorale, che è tempo di programmi ma anche di bilanci. Ora, il governo Prodi può e deve rivendicare con convinzione le azioni di contrasto alla criminalità organizzata che ha saputo condurre: le confische dei beni, gli arresti dei mafiosi, le condanne dei criminali. Sono peraltro fatti i numeri, la proporzione e l’entità dei crimini commessi, ed è giusto che i cittadini valutino su queste basi se sia o no accresciuto il grado di sicurezza e di legalità delle nostre città. Quel che però Saviano dice con forza, è che a fatti di natura criminale, che richiedono, per le dimensioni del fenomeno, un impegno assoluto sul piano delle politiche nazionali e un coordinamento efficace su quello internazionale, non si può rispondere, a livello locale, parlando di musei e di mostre. Se lo dice uno scrittore, non sospettabile di disinteresse verso la valorizzazione dei beni artistici e le risorse culturali, vuol dire davvero che in Campania c’è una necessità così impellente di migliorare il lato materiale dell’esistenza, le condizioni ordinarie del vivere civile, la pulizia delle strade, la sicurezza del lavoro, il rispetto della legalità, da non consentire più “imbellettamenti” di sorta. Finora Napoli è stata, agli occhi del mondo e pur di se stessa, un puro scialo: di bellezza, ma anche di turpitudini. È stata un enorme spreco: di autentica generosità ma anche di rovinose ricchezze. Non può più esserlo e non deve esserlo. E le parole che le occorrono per questo, non possono più essere, da parte di nessuno, fatue parole di declamazione o parole di imprecazione altrettanto vane.
Saviano ha dunque mille ragioni: voltare pagina è possibile ed è doveroso. Se si rivolge con la sua lettera a Veltroni, è perché forse la novità rappresentata dal partito democratico è tale da meritare ancora qualche apertura di credito. Ma nessun credito è illimitato. E soprattutto nessun credito sopravvive se non riesce a rimuovere con coraggio le ragioni del discredito. Le parole di cui c’è bisogno, in quest’ultimo scorcio di campagna elettorale, devono perciò cominciare già a produrre la discontinuità necessaria. E il fallimento decennale delle istituzioni pubbliche nella gestione dei rifiuti chiama tutti, ciascuno per la sua parte, a una piena assunzione di responsabilità. Veltroni lo ha compreso e ha il merito di averlo riconosciuto. Ma occorre che lo comprendano anche le forze regionali. Né la candidatura di D’Alema né il tour elettorale di Veltroni devono infatti avere un carattere surrogatorio, o fornire alibi: non possono sostituirsi all’opera di rinnovamento che il PD deve saper intraprendere a partire dalle sue classi dirigenti locali, dall’interno delle sue stesse file. Se il PD vuole essere davvero un partito nuovo, deve saper dimostrare, senza il ricorso a deleghe eccezionali, che è in grado di segnare con le sue proprie forze un nuovo inizio. Se poi sarà davvero una nuova stagione, si vedrà. Ma per specchiarsi in persone nuove in cui riconoscersi con orgoglio e fiducia, come vuole Saviano (ed è l’unico appunto che può muoversi alla sua lettera), la prima cosa che occorre è non limitarsi ad aspettare che le persone nuove siano nominate, ma chiedere con forza di ripristinare i circuiti democratici che, nei partiti e nel paese, consentono di tornare a scegliere.
(Il Mattino di ieri. Il titolo, com’è noto, è del giornale. Nell’articolo, ad essere inevase sono, più sensatamente, le domande. Ma io spesso ho chi veglia su di me, e rimedia alle sviste, il giornale evidentemente no)