Archivi tag: campania

La voglia di riformismo non è morta

tiorba

Anche a Napoli (e anche in Campania) si riparte da Renzi. E la domanda da porre al neo-segretario del Pd è dunque: e adesso? E adesso è la volta che imbraccerà veramente il lanciafiamme? Ed è quello che davvero ci vuole? La metafora che Renzi ha usato in passato esprimeva tutta l’insoddisfazione del segretario nazionale del partito per i risultati del Pd napoletano. Ma oltre l’insoddisfazione Renzi non era andato, in realtà: non erano seguite prese di posizione rispetto ai gruppi dirigenti, non era stata scelta la via drastica del commissariamento, non si era scelto né di tagliare i rami secchi né di coltivare i deboli germogli di rinnovamento comparsi qua e là. Un’opera di rimozione, più che di rottamazione.

La ragione è presto detta: il Renzi rottamatore che nel 2013 prende le redini del partito democratico decide, a Napoli e nel Mezzogiorno, di assecondare le dinamiche locali, piuttosto che di sovvertirle. È una scelta compiuta in stato di necessità (Renzi arriva al governo senza nemmeno passare per il voto popolare), ma anche una scelta dettata da una certa sottovalutazione della funzione del partito nella selezione delle classi dirigenti. Così il Pd renziano si limita da queste parti a sommare quello che c’è, bello o brutto che sia. E quello che c’è ha ovviamente tutto l’interesse a perpetuare lo status quo: non potrebbe essere altrimenti.

Ora però comincia il secondo tempo della partita che Renzi giocò quattro anni fa, e non tutto è rimasto uguale a prima. A tacer d’altro, di mezzo ci sono state le sconfitte alle amministrative di Roma e Torino, che in fondo hanno seguito Napoli nel consegnare il Municipio a una formazione populista. Qui De Magistris scassò tutto già nel 2011, ed entrò a Palazzo San Giacomo; a Roma e Torino è accaduto lo scorso anno, con la Raggi e l’Appendino. E così si è fatta drammaticamente evidente l’usura delle classi dirigenti locali. Scegliere dunque di sostenersi sul notabilato che in periferia racimola voti ma non produce egemonia – come si sarebbe detto una volta – si rivela essere una scorciatoia sempre più stretta e sempre meno praticabile.

Il voto napoletano dimostra tuttavia che anche in questa città resiste un elettorato di sinistra che continua a votare il Pd e a riconoscersi in una proposta politica riformista, di respiro e formato nazionale ed europeo, una prospettiva che difficilmente De Magistris può assicurare. Il punto è come svincolare questo risultato da una geografia di stampo localistico, e congiungerlo al resto del Paese. Se De Magistris è impegnato a costruire un meridionalismo “contro”, questo voto consente a Renzi e al partito democratico di costruire un nuovo meridionalismo “per”?

Ora Renzi può davvero prendere il lanciafiamme? Nella sua versione precedente, quell’arma non ha sparato un colpo, e cambiare tutto per non cambiare nulla è stata la fatale conseguenza di condizionamenti da cui la segreteria Renzi non ha saputo affrancarsi. Il voto di ieri dà al neo-segretario un’indubbia forza: a Napoli e nel Paese. Gli dà anche un obiettivo: impegnare quei voti per tornare a collegare il Sud all’Italia e all’Europa, invece di contrapporlo in una prospettiva ribellistica e rivendicazionista. Cambierà anche il partito, di conseguenza, se non altro perché quel pezzo che pensa che essere di sinistra obblighi a parlare con De Magistris dovrà venire a un chiarimento definitivo.

(Il Mattino, 1° maggio 2017)

De Luca e la trappola del fuori onda

cc

Ennesimo fuori onda, ennesime polemiche. Il Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, chiede a gran voce al neoquestore di smentire le parole che Vincenzo De Luca ha pronunciato in via confidenziale, riferendo nel corso di un incontro al deputato del Pd, Leonardo Impegno, un giudizio che il neo-questore di Napoli, De Iesu, avrebbe pronunciato in via privata: la città è peggiorata, De Magistris ha governato come un pazzo.

Ora, seguitemi: se Tizio dice che Caio pensa peste e corna di Sempronio, non è che Sempronio sia tenuto a smentire quel che Caio va dicendo in giro. Anche perché la smentita di Sempronio potrebbe suonare non semplicemente come una smentita, ma come un (involontario) apprezzamento. «Io non ho mai detto peste e corna di Sempronio» significa, per chiunque lo ascolti, che di Sempronio penso bene: e perché mai Caio dovrebbe dare a intendere una cosa del genere?

Il questore ci ha pensato un po’, poi ha smentito comunque, penso per amor di concordia e senso delle istituzioni: ha detto che nel corso dell’incontro con De Luca non ha «evidenziato considerazioni negative» sulla gestione comunale. Domanda: e se invece avesse detto di non avere evidenziato «considerazioni negative, ma neppure positive»? Sarebbe suonata come una specie di indiretta conferma, al di là della lettera ufficiale?

Forse. E, senza forse, sarebbe molto meglio se De Luca non incorresse in nuove gaffe.

Ma si è trattata veramente di una gaffe, o non piuttosto dovremmo parlare di una sorte di intercettazione non autorizzata? Certo, De Luca dovrebbe avere imparato come funzionano le cose, nella democrazia del fuori onda. Dove può succedere che registrino le tue parole anche dopo che ti hanno assicurato che stai parlando «off record»; o che ti piazzino un microfono nei tuoi paraggi senza che tu te ne accorga; o ancora che ti telefonino sotto falso nome e camuffando la voce ti strappino dichiarazioni con l’inganno. A De Luca è già capitato di incorrere in simili infortuni, e poiché non fa quasi mai uso di lievi ed alate parole le sue frasi fanno ancora più rumore.

Ma resta il fatto che non di annunci fatti alla stampa si è trattato, ma di parole che il governatore stava usando in via del tutto riservata, con un compagno di partito, per chiedere un’opposizione senza sconti all’Amministrazione De Magistris. Certo, il governatore parlava in un luogo pubblico, ma cosa vuol dire? Se ad esempio io tengo un comizio e parlo da un megafono, e ad un certo punto scosto il megafono per rivolgermi a bassa voce a una persona che è sul palco con me – poniamo: per farle un complimento galante – è giusto dire che le ho fatto pubblicamente un complimento? Nessuno lo direbbe. Eppure, se quelle parole fossero carpite da qualche potente microfono piazzato lì sul palco, diverrebbero immediatamente di dominio pubblico, e la loro diffusione sarebbe giustificata proprio dal fatto che sono state rese in un luogo pubblico.

A De Luca si può dunque dire di metterci un di più di attenzione, quando si trova in circostanze come quella di ieri: prima di un incontro pubblico, con telecamere, giornalisti e microfoni in giro. Ma un po’ più di attenzione dovremmo mettercela tutti, perché non è un bel vivere quello in cui saltano le distanze e le separazioni fra la sfera pubblica e la sfera privata, fra pubblicità e riservatezza, fra dichiarazioni e confidenze. Il nostro tempo è segnato da una continua erosione della privacy, da una incessante captazione di dati personali, da una costante pressione a rovesciare in pubblico tutto quello che un tempo si svolgeva in privato: tra mura domestiche, in circoli ristretti, fra pochi amici. Non c’è quasi più nulla che garantisca non dico segretezza, ma almeno discrezione. Gli algoritmi che spazzano la rete sono in grado di tracciare il nostro profilo individuale forse meglio di quanto noi stessi sapremmo fare, sul nostro conto; sui social media finisce tutto, dalla culla alla tomba (ecco che fine ha fatto il welfare State!); «amico> è ormai parola che non indica più nulla di intimo, ma solo il raggio delle possibili condivisioni online. E naturalmente la gogna mediatica funziona a pieno regime. In queste condizioni, provare a tirare una linea fra quello che appartiene al discorso pubblico e quello che invece può, o deve, rimanerne fuori è un’impresa disperata. Ma c’è un’altra conseguenza a cui badare. Perché il crollo delle pareti fra l’ambito pubblico e l’ambito privato comporta anche una distorsione dell’agenda pubblica. Cambia la gerarchia degli argomenti di cui si discute, e si mescolano le notizie che andavano prima su pagine e media ben distinti. De Luca stava dicendo, e avrebbe poi ripetuto a voce alta che la linea del Pd a Napoli non può avere incertezze e condiscendenze verso le uscite alla Masaniello, i neoborbonismi e le pulcinellate. Tutti capiscono cosa pensi e a chi si riferisca: non c’era bisogno di alcun fuori onda per cogliere la sostanza del giudizio politico. Ma l’ennesima indiscrezione involontaria ha messo tutto questo in secondo piano, e sulla ribalta c’è finita, ancora una volta, la coda lunga delle polemiche, delle smentite, delle proteste.

(Il Mattino, 31 marzo 2017)

Adesso facce pulite e nuove competenze

origini-di-napoli

Il Pd deve riflettere, aveva detto ieri Renzi a «Repubblica». E non è una riflessione semplice: non solo per lui, a livello nazionale, ma anche per il partito, a livello locale. Non solo non è semplice la riflessione, ma non è neppure facile farla uscire fuori. E farla diventare un nuovo punto di coagulo per una formazione politica che, dopo la tremenda botta del referendum, continua a sembrare incerta sulle sue ragioni di fondo. La Direzione provinciale del Pd napoletano ha provato ieri a indicare un percorso: coordinamento cittadino e congresso straordinario in primavera. Eventuali elezioni politiche a giugno potrebbero rendere difficile rispettare questo calendario, ma la più grande difficoltà sta nel portare questi appuntamenti all’attenzione della città, sta nel coinvolgere le energie più vitali, sta nell’immettere forze e facce nuove, sta nel superare le logiche correntizie, sta nel ricostruire un vero senso di appartenenza e la condivisione di un destino comune. È abbastanza singolare, infatti, quel che sta capitando: alle primarie per Napoli Bassolino si avvicinò per una strada tutta sua, accettando di stare ben dentro il perimetro indicato dalle regole del partito ma decidendo di fare comunque a modo proprio, con un accentuato senso personale della sua candidatura e della sua possibile leadership. Ieri, invece, è tornato a frequentare un organismo collegiale, la Direzione provinciale, e si è detto pronto a dare una mano «purché le correnti non pensino di dividersi le spoglie del Pd». Dall’altro lato, l’uomo forte a cui il partito democratico aveva affidato la sua rivincita alle regionali dello scorso anno, Vincenzo De Luca, ieri invece non c’era, e intervenendo ad Afragola spiegava il senso di un’altra cosa, che col Pd c’entra assai poco: «Campania libera», il «movimento di volontariato politico e civile» pronto ad accogliere persone anche di altri schieramenti, in una chiave di rafforzamento tutta personale del governatore, anzitutto nel consiglio regionale e poi chissà, nelle urne.

Ora, che cosa indicano questi movimenti pendolari, queste oscillazioni sempre più ampie un po’ dentro un po’ fuori i confini del partito, se non una debolezza profonda, e una scarsa attrattività del Pd anzitutto sulle personalità che pure appartengono da decenni alla sua storia, come De Luca e Bassolino?

Naturalmente, in questi moti alternati hanno un peso sostanziale i risultati elettorali non proprio incoraggianti conseguiti dai democratici, a Napoli e nel referendum. La vittoria di De Magistris ha permesso a Bassolino di tornare nel partito mostrando una nuova magnanimità, di fronte a un gruppo dirigente indebolito di cui non ha avuto bisogno di chiedere la testa; la sconfitta del referendum costituzionale, in cui il presidente della Campania si era parecchio esposto, costringe invece De Luca a costruirsi altri spazi fuori del partito, dove i suoi avversari hanno subito rialzato la testa.

In fondo è sempre stato così: le vittorie hanno molti padri, le sconfitte nessuno. Se il sì avesse vinto, lo scorso 4 dicembre, questa volta di padri ne avremmo avuto, in realtà, uno solo, Matteo Renzi. Ma così non è andata, e la condizione di orfanezza – lo spiegava l’altra sera Paolo Sorrentino in tv – «predispone ad abbracciare tutti i vizi». Certo, Renzi è ancora il segretario del Pd, ma siccome ha esercitato la sua presa da Palazzo Chigi, trascurando palesemente le stanze del Nazareno (forse non credendo fino in fondo neppure lui allo strumento del partito), ora che è meno presente, o forse meno temuto, i vizi del partito democratico rischiano di ripresentarsi tutti. Come se la rottamazione fosse già finita; o come se, in Campania, non fosse mai arrivata.

C’era evidentemente molta semplificazione nell’idea originaria, che bastasse disfarsi del vecchio per far nascere il nuovo. Ma che vi sia un problema di rinnovamento della classe dirigente rimane drammaticamente vero, come Renzi ha ampiamente riconosciuto. Oggi il Pd appare, nelle realtà locali, quasi un corpo estraneo alla società: non riesce a appassionare le migliori intelligenze, non riesce a servirsi di nuove competenze, non riesce a coinvolgere figure autorevoli e specchiate, non riesce a raggiungere le giovani generazioni. Questo limite mette in pericolo l’idea stessa della rappresentanza: non a caso i grillini vorrebbero farne semplicemente a meno. Perché la rappresentanza comporta l’affidamento delle proprie ragioni e della propria volontà a qualcuno in grado di interpretarle al meglio.

Ma questo “meglio” è oggi molto difficile trovarlo nelle cerchie di partito, e a volte è anche peggio: sembra che non lo si voglia cercare neppure. Forse il lanciafiamme promesso da Renzi all’indomani dei ballottaggi dello scorso anno non era lo strumento migliore per fare spazio, ma pure bisognerà che qualcuno, dalle parti del Pd campano, getti un fascio di luce nuova.

(Il Mattino, 17 gennaio 2017)

Un sindaco a Santa Lucia. La solitudine di De Luca

mimmo-jodice

Era chiaro, fin dalla tarda sera del 4 dicembre, che lo scenario politico del Paese si sarebbe parecchio complicato, e non solo a livello nazionale, per effetto della vittoria del No al referendum costituzionale. Renzi è (temporaneamente) uscito di scena, ma non solo lui: tutti gli uomini che si sono più o meno identificati con la sua battaglia per la riforma della costituzione hanno riportato ammaccature più o meno grandi. Così anche Vincenzo De Luca. Il governatore della Campania, che si è molto speso in quella sfida, si è anzi trovato al centro di una bufera mediatica (la frittura di pesce e l’elogio del voto clientelare) che, abbia avuto o no conseguenze sull’esito del referendum, ne ha sicuramente danneggiato l’immagine, aumentando la distanza con i vertici nazionali del partito (e una certa voga alla caricatura). La coda giudiziaria di quella vicenda è francamente risibile, e sembra rientrare soltanto nel bruttissimo vezzo italico di criminalizzazione della politica (che dura da quel dì). Ma anche quella è la spia di un momento non felice.

De Luca pensa ora di superare i nodi politici aggrovigliatisi dopo il 4 dicembre proponendosi non come un presidente della Regione, eletto direttamente dai cittadini ma legato a un rapporto di fiducia con il consiglio regionale e le forze politiche che nel consiglio lo sostengono, ma come sindaco della Campania, uomo solo al comando In grado di rivendicare per sé la massima autonomia decisionale possibile. È la risposta giusta? Si vedrà. Di sicuro è la risposta che ha sempre fatto parte del suo stile di governo, legato a un esercizio vigorosissimo della carica di primo cittadino (a Salerno, per circa un ventennio), un esercizio che ha ristretto ai minimi termini la dialettica politica.

Il banco di prova è adesso la sanità, sicuramente la parte più corposa del bilancio di una Regione (e del lavoro di un governatore). De Luca ha chiesto di poter entrare nel ruolo di commissario, per rimediare allo sfacelo in cui, dopo quasi un decennio di commissari di nomina governativa, la sanità campana è precipitata, finendo di gran lunga ultima nella graduatoria che ogni anno stila il Ministero della Salute. Ieri questo giornale ha presentato i dati da brivido sui livelli di assistenza sanitaria in Campania: che vi sia assoluta necessità di cambiare modalità di gestione della sanità regionale è, dunque, fuor di dubbio. Ma la nomina, che il giorno prima del referendum sembrava assolutamente scontata, ora non lo è più: esitazioni vi sono sia a Roma – dove il ministro Lorenzin sembra molto riluttante a firmare il relativo decreto –, che a Napoli, in seno alla maggioranza e dentro il partito democratico, dove si registrano non pochi malumori e perplessità dinanzi alla prospettiva di mettere tutto il comparto sanitario nelle mani di un solo uomo, abituato peraltro a lasciare soltanto le briciole agli altri.

De Luca naturalmente si propone come uomo determinato, deciso, che bada al sodo e punta al risultato, insofferente non solo della «palude burocratica» che continua a indicare come il nemico numero uno da battere e in cui teme invece di rimanere invischiato, ma pure delle liturgie politiche, dei faticosi confronti in consiglio e nel partito. Resta il fatto però che la via di chiudere il proprio ruolo in una dimensione tutta gestionale e amministrativa, senza una reale interlocuzione politica con i diversi livelli di governo e con gli altri protagonisti della vicenda campana rischia di aggravare l’isolamento di De Luca. Certo, lui preferisce in realtà mantenersi in una simile condizione, proprio per non dare conto a nessuno delle proprie scelte. Ma quello che nei momenti di fortuna è sicuramente un punto di forza del governatore, può rivelarsi in futuro una debolezza, se il vento continuerà a cambiare.

E in realtà, dopo il 4 dicembre, il vento è già, almeno in parte, cambiato. De Luca però procede senza reti di solidarietà politica fra gli esponenti del suo stesso partito: rinuncia per esempio a chiamarli ad una discussione sul significato politico del voto, che è stata dunque semplicemente bypassata, come se non riguardasse la Campania nemmeno di striscio, e di fatto rinuncia a rilanciare l’azione del partito democratico. Continua anzi a preferire non identificarvisi e tenerlo quasi da parte. Non è detto che, a tempo debito, questa posizione non gli verrà imputata. E rinuncia anche a parlare ai cittadini campani in forme diverse da quelle dei monologhi su radio e televisioni private, dove dà di sé l’immagine di un uomo affaticato dal grande peso del lavoro svolto ma poco aperto a un confronto reale con i cittadini.

Ci sono dei momenti in cui tocca alzare lo sguardo ed essere inclusivi. Questo lo è certamente. Non solo per il partito, che pure è da tempo allo sbando e non può essere né commissariato, né sbaragliato, ma ricostruito in tutte le sue articolazioni, convogliando le migliori energie rimaste finora fuori. Ma anche per la Campania, il cui rilancio non potrà mai essere il frutto di una efficiente azione amministrativa condotta da un unico centro, ma la sintesi di tutte le forze politiche, sociali e imprenditoriali del territorio. Per le quali non basta un pur bravo sindaco.

(Il Mattino, 29 dicembre 2016)

La sconfitta del partito personalizzato

img_20161211_125805

E ora cosa succederà, nel Pd? Oggi è giorno di Direzione nazionale, e i riflettori sono tutti puntati sulle scelte di Renzi, e sugli smarcamenti più o meno grandi che si registrano nella maggioranza. Perché è più facile seguire il leader nel trionfo, molto più difficile abbracciarne le sorti nella sconfitta. È un tema che si pone anche a Napoli, e in Campania. Vincenzo De Luca non è abituato a perdere le elezioni: non gli è mai capitato. Questa volta però è accaduto: persino a Salerno, dove il Sì si aspettava di vincere a mani basse.

La spiegazione che il governatore ha fornito è la seguente: la sfida era difficile, bisognava giocarla fino in fondo per lealtà a Renzi, ma le scelte del governo – sul lavoro, sulla scuola, sulla pubblica amministrazione –  ci hanno penalizzato. Il voto non ha dunque un significato locale, ma nazionale.

Ora, è chiaro che una simile analisi lascia quasi per intero a Renzi il peso della sconfitta. E probabilmente c’è del vero, dal momento che il No ha prevalso su tutto il territorio nazionale (anche se un’analisi di grana più fine farebbe rilevare differenze fra le diverse aree del Paese, e collocherebbe il Mezzogiorno più distante dall’area di governo).

Ma il fatto è che De Luca si è comunque speso a fondo, esponendosi mediaticamente per certe intemperanze verbali che, a detta di molti centro il Pd, non hanno affatto aiutato il Sì alla riforma.

Così i fronti aperti sono due: uno è quello fra De Luca e Renzi, lungo il quale corrono sempre più pronunciate certe linee di tensione. Per ora in forma di dinstinguo, di accenti e sottolineature diverse, ma in futuro chissà. Un altro fronte è invece interno al Pd campano, perché un De Luca che è costretto a spiegare le ragioni della sconfitta permette al resto del partito di riprendere voce, e coraggio.

Dici Pd campano ma in realtà dici Napoli, perché è con i democratici napoletani che il feeling non si è ancora stabilito. Il Pd vorrebbe guadagnare un’autonomia e marcare una presenza in giunta regionale che finora non si è vista. Come ai tempi della prima Repubblica, si ricomincia dunque a parlare di rimpasto. Le scelte fatte da De Luca nella composizione della giunta non sono mai state digerite. Il governatore ha puntato su una squadra nuova, dal profilo politico molto contenuto, proprio per non dare spazio e potere a nessuno che potesse fare ombra alla sua leadership. Per non consumarsi in estenuanti mediazioni, ma anche per non dare conti a nessuno delle scelte di governo. Sul territorio, del resto, un partito non c’è: c’è un insieme di cordate, legate ai micronotabilati in cui si è polverizzato oggi il Pd.

Ma qualunque discorso sul partito, in quest’ultimo scorcio d’anno che dà sulla prossima assise congressuale del 2017, in tanto può essere fatto in quanto la presa di De Luca si è allentata. Ed è quello che è successo dopo il referendum di domenica.

Fin qui la descrizione della vicenda interna. Ma ovunque si fermerà il pendolo che in queste ore sta oscillando – più o meno vicino alle ambizioni di De Luca, oppure a quelle di chi prova a frenarne il passo – resta il dato elettorale. Certo: ha perso Renzi, ha perso l’idea che si potesse indicare nella riforma costituzionale il cambiamento che il Paese chiede, ma è certo anche che l’interpretazione che ne viene offerta dal Pd campano, in termini di gestione del potere, di intermediazione politica fondata su un rapporto di tipo notabilare, è molto lontana dal costituire un possibile terreno di risposta. Se la domanda fosse: cosa significa l’appartenenza al partito democratico in questa regione, la risposta ben difficilmente là si potrebbe dare  in termini di proposte, progetti, visioni, storie. C’è un deficit di cultura politica evidente. Del resto, la personalizzazione impressa alla vicenda campana dalla vittoria di De Luca nelle elezioni regionali fa il paio con quella di Renzi a livello nazionale, ma è sempre più dubbio che da sola basti. Che basti cioè essere non democratici, ma deluchiani o anti deluchiani. Eppure, per un verso o per l’altro, le ultime mosse dentro il Pd sembrano correre ancora lungo questa faglia. Che l’esito del referendum rischia non di correggere, ma anzi di approfondire.

E poiché non solo nel presente, in città, ma anche in futuro, a livello regionale, la sfida è rappresentata dalla retorica populista di De Magistris, forse è bene che il partito democratico cominci da subito a rinnovare modi, forme e contenuti della sua azione politica, e a imbastire uno spettacolo diverso da quello che rischia di prendere corpo in queste ore.

(Il Mattino, 7 dicembre 2016)

La lotta politica sulla pelle dei malati

monopoli

È civile un Paese in cui un esponente politico chiede l’arresto di un altro esponente politico? È civile un Paese nel quale  il primo – poniamo: un vice presidente della Camera dei Deputati – chiede l’arresto di un altro – per esempio: il Presidente di una importante Regione del Paese –? È civile un Paese nel quale il primo chiede l’arresto del secondo non sulla base di provvedimenti dell’autorità giudiziaria, non previo accertamento della commissione di reati, ma perché ha lui stesso individuato il reato? Perché così va, in questo Paese: il vicepresidente della Camera dei Deputati, Luigi Di Maio, afferma che in un Paese civile il governatore campano, Vincenzo De Luca, dovrebbe essere agli arresti. In carcere. In gattabuia. Forse è l’effetto Trump: in campagna elettorale il candidato repubblicano aveva detto infatti che avrebbe nominato un procuratore speciale per mettere sotto inchiesta la Clinton e farla arrestare. Di Maio è solo un po’ più sbrigativo: direttamente in galera, senza passare per la nomina di un procuratore.

Questa, naturalmente, è soltanto la sua idea di civiltà. Ed è un’idea molto lontana dal livello di civiltà giuridica che i paesi europei hanno raggiunto, più o meno da un paio di secoli. Però Di Maio ci fa il piacere di lasciarci immaginare cosa sarebbe il Paese civile che avesse lui alla sua guida: dopo tutto non è nemmeno un’ipotesi così peregrina, visto che è pur sempre il più papabile candidato premier dei Cinquestelle. Sarebbe un Paese in cui uscite sopra le righe come quelle di De Luca costerebbero la detenzione.

Ma intanto il Paese che abbiamo è questo: un Paese in cui Luigi Di Maio si scandalizza per il linguaggio del governatore campano, e tutto infervorato, e tutto consumato dal sacro fuoco dell’indignazione, ne spara una di gran lunga più grossa. Era infelice la battuta di De Luca sulla Bindi? Certo, lo era. Ed era spudorato il comizio di De Luca agli amministratori locali, con il suo elogio iperbolico del perfetto sindaco clientelare? Sì, lo era. Ma è frutto di una incultura giuridica molto più pericolosa, e di una mentalità intrisa di estremismo giacobino, la più lontana possibile da ogni idea liberale della politica e del diritto, l’incitazione all’arresto di De Luca, da parte di Di Maio? Sì, lo è.

Dopodiché cosa succede? Che in commissione tutto si ferma, e quel provvedimento che doveva modificare le regole del commissariamento straordinario, consentendo di riportare la sanità campana (e quella calabrese) sotto la responsabilità politica del governatore, viene sospeso. Chi se la sente infatti di difendere De Luca, mentre il tribunale dei Cinquestelle ne chiede l’arresto per voto di scambio? Non parlano già di schifezza ed abominio (come se la gestione commissariale di questi anni avesse regalato servizi migliori in qualità e quantità)? È chiaro che ora la materia scotta, ed è perlomeno inopportuno, politicamente parlando, mettersi per questa strada. A pochi giorni dal voto referendario, era difficile sfuggire a questa considerazione. Così anche il ministero della Salute ha cominciato a frenare. E addio emendamento.

Ora che quel che succederà dopo il 4 dicembre nessuno lo sa. Bisogna spiegarlo però ai cittadini campani. E spiegarlo bene, perché la sanità è la gran parte del bilancio regionale, oltre ad essere insieme al lavoro, in cima alla preoccupazione delle persone. Senza l’emendamento, la sanità continua a rimanere al di fuori della conduzione del governo regionale. Ospedali, farmaci, prestazioni: tutto. In un Paese civile, questo non accadrebbe se non in via del tutto eccezionale, e per un tempo molto limitato. In un Paese civile, ci si dovrebbe preoccupare piuttosto di come fare perché i politici rispondano del loro operato dinanzi alla pubblica opinione e, in occasione del voto, all’elettorato. Nel nostro Paese, invece, si risponde a Luigi Di Maio.

(Il Mattino, 23 novembre 2016)

Sì alla riforma contro i furti al Sud

home_polloLa regione più giovane d’Italia, la Campania, perde 200 milioni di euro l’anno perché nella ripartizione dei fondi per la sanità si tiene conto solo dell’età: lo ha ricordato ieri il governatore De Luca, e ha ricordato una cosa vera. Il proverbio dice: a buon intenditor poche parole, ma per De Luca, evidentemente, in giro di buoni intenditori non ce ne sono, e perciò l’ha messa giù così: noi del Sud siamo polli e quelli del Nord sono magliari.

Il dato però è già abbastanza vistoso di per sé, perché i termini coloriti possano aggiungere qualcosa: è un fatto che la maniera in cui avviene il riparto penalizza sistematicamente il Mezzogiorno, e la Campania in particolare. Ora, uno potrebbe dire che è comprensibile che vadano più risorse dove ci sono più anziani, i quali hanno bisogno di più medicine e di più cure. Ma la letteratura scientifica ha dimostrato da tempo che l’età è solo uno dei fattori che incide sullo stato di salute di una popolazione, e ha evidenziato come esista una correlazione precisa fra la salute e l’indice di deprivazione sociale, cioè in primo luogo il tasso di reddito e il tasso di istruzione.  Che al Sud sono più bassi che al Nord.

Le basi per mantenere gli attuali criteri di ripartizione del fondo sanitario sono dunque assai discutibili. E lo sarebbero ancora di più, se si considerasse che la salute ha rapporto con le condizioni generali dell’ambiente, che la Campania ha un elevato tasso di mortalità infantile, o che da noi i malati di tumore hanno un tasso di sopravvivenza più basso.

De Luca ha insomma tutte le ragioni per fare la voce grossa, e infatti la fa. C’è però una così scarsa considerazione di quel senso di appartenenza alla medesima comunità nazionale, che le rivendicazioni del governatore campano vengono derubricate a rumore di fondo, oppure classificate come l’abituale lamentela che viene dal solito meridionalismo accattone.

La questione della sanità è però solo una delle molte questioni che si accumulano lungo una medesima linea di faglia, che riguarda il rapporto fra le diverse aree del Paese. Ebbene, siamo ad un passaggio essenziale: di riscrittura della Carta costituzionale. Nella riforma c’è, fra l’altro, il tentativo di ridefinire i termini del rapporto fra lo Stato e le Regioni. Ridisegnando il profilo della Camera alta – dove siederanno i rappresentanti degli organismi regionali – e delimitando le competenze rispettive, statali e regionali. Il giudizio che ciascuno vorrà dare su questa complessa materia può essere ovviamente positivo o negativo, e anche molto positivo o molto negativo. Pure i critici della riforma, però, dovranno ammettere che è difficile far peggio di oggi, a giudicare almeno dalla quantità di conflitti sollevati in materia innanzi alla Corte costituzionale.

Ma non è nemmeno questo il nocciolo del problema, quanto piuttosto il fatto che qualunque riforma è poi affidata a un certo iter attuativo, e alle interpretazioni che delle norme offriranno gli attori politici e istituzionali. Tocca, insomma, alla politica. E bisogna augurarsi che tocchi a una politica nuovamente compresa della sua funzione nazionale, disponibile a ragionare in termini unitari, e a far prevalere i fondamentali elementi di solidarietà da cui dipende la coesione del Paese.

La riforma contiene fra l’altro – ed è un’innovazione di non poco conto – la cosiddetta clausola di supremazia, in forza della quale la legge dello Stato può intervenire anche su materie che sarebbero di competenza delle regioni: si tratta di una riforma – per alcuni di una controriforma – di stampo centralista, e però (o perciò) probabilmente di un buon punto di riforma. Ma anche l’esercizio di questa clausola non riposa su un semplice automatismo, e dipenderà quindi da equilibri politici, da rapporti di forza, da interessi e spinte contrapposte. Nessuno può cioè illudersi che la riforma costituzionale possa surrogare responsabilità che sono sempre e solo legate alla direzione politica della nazione.

Se gli anni della seconda repubblica sono stati dominati da una retorica nordista, leghista, separatista, e da un appello alle identità dei territori in chiave localistica ed egoistica, ciò non è dipeso da uno stallo istituzionale, ma dal collasso di quel sistema di partiti a cui era stata affidata per decenni una essenziale funzione di integrazione sociale e politica. Ora quella funzione di fatto non è più svolta, e diviene quindi fondamentale iniettare nuova legittimazione politica attraverso l’ammodernamento istituzionale. Ma i polli ed i magliari non scompariranno il giorno dopo il referendum: da quel giorno comincerà casomai una nuova partita, con un nuovo campo di gioco e nuove regole. È bene, allora, che cominci ad esistere e a farsi sentire un nuovo meridionalismo in grado, questa volta, di giocare quella partita e, magari, di vincerla.

(Il Mattino, 14 luglio 2016)

Voi, nei Panni del Presidente

Maschera

Stai per cominciare a leggere, caro lettore, la cronaca di un fatto mai accaduto. Rilassati, Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisioni accesa e tu devi disporti a diventare il Presidente della regione Campania, dopo avere vissuto mesi intensissimi, a colpi di polemiche, primarie mille volte rinviate e poi infine celebrate, colpi bassi e carte bollate, sentenze che ti inseguono e la strada stretta e impervia fra ineleggibilità e incandidabilità che la legge Severino ti ha lasciato: di lì sei passato, respingendo sdegnato accuse infamanti – tipo Gomorra nelle liste – fino all’ultimo assalto della Commissione antimafia, che ti ha bollato come impresentabile. Però ora sei stato eletto, hai dribblato la cerimonia di insediamento, hai nominato la giunta.

Un bel giorno, nell’ufficio o al telefono del tuo più stretto collaboratore si fa vedere o sentire qualcuno, che mostra di conoscere sin troppo bene la tua vicenda giudiziaria. Sa che sei in attesa di un giudizio sulla sospensione degli effetti della legge Severino, da cui può venire tanto la possibilità di rimanere alla guida della Regione, quanto una sospensione per diciotto mesi: in politica, un’eternità. Questa persona non dice di sapere come stanno le cose: dice di poterle determinare, quelle cose. E mentre fa capire di avere questa influenza sul giudice, perché del giudice è il marito, ti chiede un importante incarico in qualche azienda sanitaria campana. La nomina, si capisce,  dipende da te. Ebbene, non è mai accaduto che il tuo più stretto collaboratore sia venuto da te per riferirti della vicenda, ma se fosse venuto tu cosa avresti fatto, caro lettore? Avresti avuto diverse possibilità. Una possibilità è denunciare subito il fatto alla magistratura. Un’altra è prendere tempo. Un’altra ancora è concludere l’affare: nomina in cambio di sentenza. Quest’ultima è di sicuro la scelta più drastica, ma è anche quella che comporta la più turpe violazione della legge. Sotto la pressione enorme in cui ti trovi, comunque, non è semplice scegliere. Avresti anche un’altra scelta, altrettanto netta, ma di segno opposto: metterlo alla porta, e non perdere un minuto di più. Oppure, si diceva, andare dal magistrato. È la cosa più giusta, la più lineare: denunci la cosa e tagli di netto ogni relazione pericolosa. Ma forse temi la canea mediatica che si potrebbe scatenare. Magari l’uomo che denunci dirà che sei stato tu ad avvicinarlo e a cercare un modo per influenzare il giudizio, e sui giornali la vicenda potrebbe durare a lungo. Sei vulnerabile, i tuoi modi piacciono ai cittadini campani ma molto meno a certi editorialisti, forse non hai nemmeno tutta questa fiducia nella magistratura e non vedi chiaro in fondo a questa storia. Prendi allora in considerazione l’ipotesi rimanente: dire al tuo collaboratore di prendere tempo, di rimandare, di rassicurare ma insieme di rinviare, e intanto cercare di capirci meglio. Naturalmente tutto questo, caro lettore, non è mai avvenuto.

Il tempo passa. Viene settembre. Il caso pende ora dinanzi alla Corte costituzionale ma il nodo non è ancora sciolto. L’uomo che diceva, o millantava, di poter orientare la decisione del giudice non ha ricevuto alcun incarico. Perciò si fa sotto di nuovo, telefona, dice che se lui non diverrà manager, la regione avrà un altro Presidente. Ora però mettiti in altri panni, caro lettore, e in questa storia mai accaduta immagina di essere un magistrato. Sulla tua scrivania arrivano le intercettazioni da cui puoi capire cosa bolle in pentola: qualcuno chiede con insistenza una nomina, sostenendo di aver fatto la sua parte e di aspettarsi la dovuta ricompensa. Che però non arriva, che non è ancora arrivata. Che cosa fai, caro lettore? Quella nomina interessa la sanità campana, e il presidente della regione sta annunciando una piccola rivoluzione: azzeramento della struttura tecnica dell’azienda sanitaria regionale, e nuove nomine. Cosa fai, dunque? Anche a te tocca scegliere. Forse, se hai una radicata cultura della prova, se consideri che il «pactum sceleris», l’accordo delittuoso, risalterà in tutta la sua evidenza quando la nomina sarà sopravvenuta, aspetti di verificare se il presidente della regione procederà, dunque, alla nomina. Tu non sai ancora se egli sia vittima, oppure correo, o magari l’una e l’altra cosa insieme. Non sai, non hai nelle intercettazioni nulla che ti permetta di dare il patto per concluso. Ti manca la prova regina, il colpo del ko. Però sai anche che puoi procedere in altro modo.

Puoi rinunciare a verificare se l’uomo che vendeva (o millantava di vendere) sentenze avrebbe avuto davvero l’utile richiesto. Puoi dare tutto in pasto all’opinione pubblica, e lasciare che la vicenda rimbalzi dal piano processuale a quello mediatico. La prova regina si allontana definitivamente, ma l’eco è garantita. Ma può darsi anche che in questa storia mai esistita tu ritieni di avere già in mano quello che ti serve per procedere. E agisci secondo uno schema consolidato: intercettazione, perquisizione, avviso di garanzia. In fondo, ora che, secondo l’ordinamento vigente, l’acquiescenza alla pressione corruttrice basta a configurare il reato, puoi ritenere del tutto legittimo muoverti subito – certo per l’urgenza del momento e il grande agitarsi di mediatori, faccendieri e factotum – senza dover aspettare che dalle intenzioni si passi ai fatti, dalle promesse alla loro realizzazione. La recente giurisprudenza, e pure un certo clima nel paese, è con te. Anche così la cosa deflagrerà sui giornali, e dentro ci finiranno tutti: quelli che hanno agito, quelli che hanno promesso di agire, quelli che hanno detto che altri avrebbero agito. Dentro – s’intende – il gran polverone di storie vere, meno vere, probabili o mai accadute che da quel momento in poi i giornali non potranno non raccontare. Tu cosa faresti, caro lettore? Ora che hai finito, quel che è certo è che aprirai la porta, e accenderai la tv.

(Il Mattino, 14 novembre 2015)

Quel che manca è una vera proposta politica

elezioni

Ma l’avete mai fatta una campagna elettorale? Marco Tullio Cicerone, a suo tempo, la fece. E si conserva la lettera che Quinto Tullio, suo fratello, gli scrisse per consigliargli il modo di ingraziarsi gli amici e procacciarsi i voti. La lettera risale, a quanto ci dicono gli studiosi, al 64 a.C: la bellezza di duemilasettantanove anni fa, se non ho fatto male i conti. Beh: andatevelo a leggere. Le circostanze storiche e politiche generali erano a quel tempo un po’ diverse da ora, ma si votava anche allora, eppure i consigli di Quinto temo funzionerebbero benissimo anche oggi. Basti solo questo piccolo inciso, che si trova nell’epistola: «di questi comportamenti [non importa quali] il primo è tipico dell’uomo onesto, il secondo del buon candidato». Non serve commento.

Orbene, che lezione vogliamo trarre, a proposito della campagna elettorale che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, della formazione delle liste, dei comizi e delle strette di mano? Forse nessuna. O forse questa, che siccome il suffragio l’abbiamo dai tempi di Quinto e Marco reso (faticosamente) universale e non lo possiamo certo abolire, i «petitores» (così si chiamavano i candidati: quelli che ti chiedono il voto) si troveranno immancabilmente di fronte al dilemma di Quinto: vedi tu se vuoi essere solo un uomo onesto, o piuttosto un buon candidato. Se è così, c’è purtroppo ben poco da sperare dal candidato, e molto più dal contesto in cui è chiamato ad operare, e dunque dal numero di volte in cui si presenterà innanzi a lui il fatidico dilemma.

Questo contesto è fatto di tre cose: di leggi, di partiti, di opinione pubblica e società civile, cioè del corpo elettorale. Ieri su questo giornale Raffaele Cantone si è preoccupato anzitutto di chiedere leggi più severe: nuovi interventi normativi, rafforzamento delle misure attualmente in vigore.  Che il tema ci sia, come ha detto Saviano e come ha ripetuto Cantone, è assolutamente indubbio. C’è a tal punto che quasi non si parla d’altro. In particolare, non si parla di programmi, ma in verità i sondaggisti assicurano che gli elettori non votano certo in base ai programmi, e temo che la pensassero così anche i fratelli Cicerone, pur senza disporre dei sondaggi d’opinione.

Poi però ci sono i partiti. E qui la prospettiva deve essere, io credo, un po’ diversa. Non può bastare cioè l’appello ai codici etici. Non però perché questi codici siano solo carta straccia, o peggio una foglia di fico, buona solo per brillanti esercizi di ipocrisia; ma perché non s’è mai visto un partito che ripulisce le liste a colpi di applicazioni del codice etico, e non lo si vedrebbe neanche se li si trasformasse in più vincolanti norme statutarie, come Cantone propone. Se un partito non ha la forza di buttare fuori qualcuno per indegnità, difficile che gliela dia il codice di autoregolamentazione. È la stessa differenza che passa tra un leader di partito e gli oscuri (nel senso che nessuno li conosce) probi viri: non si può certo lasciare a questi ultimi il peso di decisioni, che competono a candidati e segretari. I quali mettono la loro firma sotto le candidature e si assumono così la responsabilità politica della scelta. E il punto diviene allora se e innanzi a cosa essi rispondono effettivamente.

Arriviamo così all’ultimo pezzo del problema: l’elettorato. L’elettorato, certo, non lo si può cambiare, come invece si possono cambiare i candidati: è comprensibile perciò che si chieda di agire sulla selezione di questi ultimi, e che ci si rammarichi di scelte discutibili, a tal punto che in questi giorni è lo stesso candidato governatore, De Luca, che finisce con l’ammettere qualche imbarazzo. Ma alla fine tocca all’elettore. Certo, non si fa una bella figura ad appellarsi all’elettore solo per lavarsene pilatescamente le mani. Purtuttavia, ripetiamolo: alla fine è all’elettore che tocca la scelta.

Così torniamo al dilemma di prima, più crudamente di prima: se un buon candidato non è necessariamente, almeno per Quinto Tullio Cicerone, una persona onesta, è perché l’elettore non sa che farsene di una persona onesta. Una simile proposizione è certo inaccettabile, e bisogna confutarla. E tuttavia la confutazione non è una roba che si possa affidare semplicemente al ragionamento, come se ci fossimo imbrogliati da qualche parte: sul piano del ragionamento, anzi, lo spazio per una smentita è molto piccolo. Dobbiamo invece e necessariamente affidarlo alla politica, e ai comportamenti effettivi. Forse è un problema culturale, e forse è più ampiamente ancora un problema sociale: poiché ci vuole una diversa coscienza politica ma anche una diversa struttura di interessi economici che debbono trovare il modo di convergere su una proposta politica di altra qualità. Ma allora non esistono scorciatoie, e quel che è da fare è costruire proposte politiche, non scomuniche morali.

(Il Mattino, 11 maggio 2015)

La breccia di Lecce sul muro della leadership

mura crepate

È mai accaduto, nel centrodestra, che la leadership di Silvio Berlusconi fosse contestata al punto che la sua direzione politica ne venisse apertamente sconfessata? È mai accaduto che qualcuno, posto dinanzi alla scelta fra il Cavaliere e il capo dell’opposizione interna, preferisse quest’ultimo? No, non era mai accaduto fino ad ora. Ma ora è accaduto, ora che Francesco Schittulli, candidato di Forza Italia alla guida della regione Puglia, ha mollato il partito al suo destino per ottenere il sostegno di Raffaele Fitto, contro le tassative indicazioni di segno opposto provenienti da Arcore. Il veto su Fitto è caduto, e sono adesso i berlusconiani a dover casomai andare al seguito e rimanere aggrappati.
Conta ovviamente il peso elettorale di Fitto nella regione: senza il suo appoggio Schittulli non ha chance di vittoria. Ma è arduo trovare un segnale più fragoroso della profonda crisi che attraversa oggi il centrodestra. All’inizio, cioè nel 1994, era il Verbo, e il Verbo era stato assai ben accolto: di opposizione interne non aveva neppure senso parlare. Nel corso di un ventennio Berlusconi ha perso e ritrovato alleati, e ha attratto a sé forze e personalità anche distanti, culturalmente e ideologicamente, dall’area moderata e di destra che è riuscito per lungo tempo a coagulare attorno a sé, riunendo in un’unica alleanza perfino la Lega secessionista e la Destra nazionale, spingendo al voto azzurro uomini molto diversi: ex filosofi marxisti e illustri professori liberali, democristiani di lungo corso e socialisti di provata fede, perfino repubblicani e repubblichini. E nessuna di queste componenti ha mai potuto disegnare un’area di minoranza, un’opposizione interna, un dissenso organizzato. Malumori e disaccordi rientravano, e se proprio non potevano essere ricomposti, non producevano molto di più di qualche solitaria rinuncia, o di qualche lenta ma inesorabile emarginazione politica.
In un partito univocamente caratterizzato dal carisma del Cavaliere, una normale dialettica interna non ha mai potuto stabilirsi. Ci hanno provato, esplicitamente o implicitamente, in molti – da Fini a Tremonti, da Casini a Follini -: non ha mai funzionato. E non poteva funzionare, perché il partito di Berlusconi esisteva nell’elettorato solo grazie a Berlusconi. Naturalmente, in tanti anni, non pochi dei quali trascorsi a Palazzo Chigi (e alla guida di amministrazioni periferiche), si sono formati e sono esistiti anche un partito nel governo e un partito nell’organizzazione, con gruppi dirigenti fedeli al Cavaliere ma legati anche a cordate locale e ai plenipotenziari della macchina di partito: Scajola prima, Denis Verdini poi. Ma quel che conta sono i voti e il progetto politico, e l’uno e l’altro sono sempre rimasti intestati al Cavaliere, il che scongiurava ogni pericolo di disarticolazione.
Ormai, però, non è più così: più che le disavventure giudiziarie, hanno potuto la caduta del governo nel 2011, le deludenti elezioni del 2013, l’ascesa di Renzi nel 2014. Succede così che non vi sia più nulla – né la linea politica né il consenso – per spegnere i conflitti che scoppiano dentro il partito. E mentre prima poteva bastare a Berlusconi isolare o cacciare il dissidente di turno, ora succede che all’angolo ci finisce lui. Schittulli forse lo sa, forse no, ma si è assunto la parte che nella favola è del bambino il quale dice a voce alta ciò che tutti fingono di non vedere: che il Re è nudo.
Berlusconi è nudo: i sondaggi danno Forza Italia al suo punto più basso; figure storiche come Sandro Bondi lasciano il partito e contestano apertamente gli uomini e le donne più vicine al Cavaliere; né, infine, Alfano né Salvini ragionano più come Fini o Bossi, come se cioè Berlusconi potesse ancora essere il loro trait d’union. E, oltre a tutto ciò, Fitto gli dimostra che può avere più forza attrattiva di lui, o anche solo più facilità di movimento di lui. Accusano Fitto di «sete di potere», ma il punto è proprio questo: prima, chi aveva sete di potere stava con Berlusconi, non contro di lui.
In Campania, l’altra grande regione del Mezzogiorno che va al voto, le cose sono un po’ diverse. Non però perché Forza Italia abbia molte più carte da spendere, ma perché ne ha ancora qualcuna Caldoro. Se infatti Area popolare sembra propensa a rimanere nell’area di centrodestra, è in virtù della forza del governatore uscente. Che in verità può esercitarsi su due terreni: uno è quello del sottogoverno locale, delle residue promesse di fine mandato; l’altro è riconducibile all’«incumbency factor», alla tendenza dell’elettorato a premiare la continuità amministrativa, quando può dare un giudizio positivo sull’esperienza conclusa, ma soprattutto quando giudica che essa ha bisogno, per compiersi, di continuare per un altro mandato. Ora è chiaro che non potranno essere le ultime, frettolose nomine a decidere in questo senso. I tre profili di partito prima descritti – il partito nell’organizzazione, il partito nel governo, il partito nell’elettorato – possono comporsi in modo diverso. E se, invece di guardare all’elettorato con un progetto di governo, Caldoro si adagerà sul primo profilo, lasciando che prevalgano gli accordi fra notabili e conventicole, forse qualcosa rimarrà insieme, e una più rumorosa conflagrazione del centrodestra sarà evitata, ma in un senso non dinamico, non espansivo, bensì puramente difensivo. E, prima o poi, succederà così che altre nudità verranno allo scoperto.
Il Mattino, 5 aprile 2015

La scelta del sindaco che divide la sinistra

votoAll’indomani delle primarie, il Pd ha in Campania un candidato Presidente, Vincenzo De Luca, ma non ha, stando almeno alle intenzioni espresse, un bel po’ dei voti raccolti alle europee un anno fa. È una situazione in cui il Pd non si era ancora trovato: accusare un calo consistente di consensi, e avere nel suo candidato Presidente non più un punto di forza, ma un punto interrogativo. Naturalmente, il sondaggio che al Pd deve procurare qualche supplemento di riflessione fotografa una situazione ancora in movimento. E in tempi di alta volatilità del voto, nessun numero può ritenersi acquisito. La fotografia, per giunta, è scattata ad una considerevole distanza dal traguardo, fissato a fine maggio, e non può quindi includere alcuni elementi della sfida elettorale ancora in corso di definizione. Resta però il fatto che il Pd si trova per la prima volta a dover recuperare il terreno perduto – cosa, da Renzi in poi, mai capitata – e che il Sindaco di Salerno non riesce a trasferire la sua popolarità in percentuali più lusinghiere di quelle della coalizione che lo sostiene. Nel 2010, quando De Luca perse, ottenne comunque un risultato personale di tutto rispetto, finendo quasi cinque punti sopra la sua coalizione. Stavolta quell’effetto-leader non è visibile: coalizione e candidato presidente sono quasi appaiati.

È un problema che De Luca per primo sa di dover affrontare. Chi infatti conosce la storia dell’istituto che il partito democratico ha introdotto in Italia, mutuandolo dall’esperienza americana, sa che la prima e principale conseguenza delle competizioni primarie consiste nello spostamento del peso politico dal partito al candidato: si indebolisce il primo, si rafforza il secondo. Conta dunque, per il Pd, la capacità di ricostruire attorno al vincitore del primo marzo unità di intenti e di liste, dopo le inevitabili divisioni della campagna elettorale (e l’appello al non voto di Saviano, e i polemici addii di alcuni parlamentari, e i tentativi disordinati di evitare la competizione), ma conta anche di più la fisionomia del candidato prescelto. Il quale non ha un problema soltanto: ne ha due. Il primo problema è rappresentato, come tutti sanno, dalla condanna in primo grado che, per effetto della Severino, gli impedirà, salvo ricorsi o sospensive o pronunce di incostituzionalità, di andare ad occupare il posto di Presidente di Regione, in caso di vittoria. De Luca, ovviamente, non lascia trapelare la minima esitazione: se ha corso le primarie, è per correre anche dopo, contro Caldoro, e quindi ripete come un mantra che lui non ha alcun problema con la legge, e che il Tar metterà le cose a posto un minuto dopo il voto. Ma rimane il fatto che una porzione almeno dell’elettorato di centrosinistra (fuori dalla cinta muraria salernitana) continua a nutrire forti perplessità: vuoi per il complesso profilo giuridico della vicenda, vuoi per un atteggiamento legalitario, e cioè per l’indisponibilità a «fregarsene della legge», come dice De Luca, sbagliata o no che la legge sia. La domanda sull’opportunità della candidatura di De Luca spacca infatti l’elettorato di centrosinistra in due metà quasi eguali.

C’è poi il secondo problema, che non è ancora esploso ma che comunque rischia di creare a De Luca qualche inciampo, se non troverà la soluzione. Lui infatti tira dritto: ma il Pd? Anzi, più precisamente: Matteo Renzi? Renzi darà una mano? Metterà le cose per il giusto verso anche qui? Perché non sarebbe per De Luca auspicabile portare da solo tutto il peso della campagna elettorale, che andrà anzi crescendo col passare dei giorni, e difficilmente si schioderà dal problema rappresentato dalla Severino. Cosa farà allora Renzi? Potrà accontentarsi di girare alla larga da Napoli? Al voto di maggio mancano circa ottanta giorni: Renzi pensa di fare il giro d’Italia in ottanta giorni senza passare per la Campania? Si possono prendere alcune contromisure: il voto regionale è un voto amministrativo, più che politico, quindi – si può dire – Renzi non c’entra; De Luca, poi, mostra una capacità di attrazione su pezzi dell’elettorato moderato che può compensare quello che forse, per via della condanna, non riuscirà a raccogliere alla sinistra del Pd. Ma la latitanza di Renzi dalla sfida nella più importante regione meridionale difficilmente passerebbe inosservata. Una simile condotta imbarazzata non priverebbe solo De Luca della popolarità del leader nazionale, ma rischierebbe di rafforzare, invece di dissipare, i dubbi dell’elettorato sulla sua candidatura.

Proprio quello che De Luca, forse, non si può permettere. A due mesi dal voto, e soprattutto tre punti percentuali dietro Caldoro.

(Il Mattino, 14 marzo 2015)

C’erano una volta i partiti

altan (1)

In Liguria, Cofferati sbatte la porta e se ne va: dopo l’inascoltata denuncia di gravi irregolarità, proclamati i risultati e sancita la vittoria di Raffaella Paita, uno dei fondatori del Pd saluta tutti e lascia la politica. In Campania, invece, non c’è due senza tre: alta è infatti la probabilità che il partito democratico si risolva per il terzo rinvio delle primarie, o addirittura per l’annullamento, dopo la strombazzata disponibilità di Gennaro Migliore a parteciparvi. Anche perché la data già fissata, il primo febbraio, cade nel bel mezzo delle elezioni del presidente della Repubblica, e così c’è un ottimo motivo per infilarsi nuovamente nel tunnel di mortificazioni che il Pd campano ama infliggersi da quel dì.

Ora, è vero che l’esperienza delle primarie è recente: il Pd vi si dedica da meno di dieci anni, che per una forza politica sono un tempo relativamente breve. Ma un caso come quello campano non si era ancora verificato: e dire che non ci sono stati terremoti, alluvioni o altri cataclismi. Che cosa allora impedisce al partito democratico di celebrare le primarie? Che cosa impedisce di osservare quel minimo rispetto che si deve al corpo elettorale, che consiste nello stabilire un appuntamento e, poi, nell’osservarlo? Dopo tutto, le primarie liguri sono state convalidate: non si può dire dunque che, agli occhi della direzione romana, disordini o manipolazioni non possano essere circoscritti in modo che non inficino il risultato finale. Né d’altra parte si capisce perché eventuali timori di brogli non abbiano allora impedito di indirle, visto che c’erano già precedenti. Cosa, allora? Vi è una sola risposta possibile: il profilo politico che il partito democratico campano assumerebbe dopo lo svolgimento delle primarie e la vittoria di uno dei due competitor più accreditati, De Luca o Cozzolino. È una preoccupazione legittima – da parte ovviamente dei loro avversari – se fosse però tenuta nel rispetto delle regole: per esempio attraverso la candidatura di un altro esponente politico che provasse a batterli. In effetti, con la discesa in campo di Migliore, pare che stia per accadere proprio questo: salvo che, per giungere a un tale esito, c’è stato bisogno di un paio di rinvii, forse tre, e di calpestare le decisioni fin qui prese. Che prevedevano un allargamento delle primarie a esponenti di altre forze politiche, e una raccolta di firme entro date stabilite. Ma ormai di stabilito non c’è più niente: c’è un processo politico al quale le labili regole del Pd campano si piegano volta per volta, per rendere possibile il difficile parto del nuovo, nuovo che sarebbe infine rappresentato da Gennaro Migliore.

Ma allora si faranno, queste benedette primarie? Non il primo febbraio ma magari due settimane dopo, non con le vecchie regole ma magari con regole nuove, non con i soli esponenti del Pd ma anche con l’apporto di altri (minuscoli) partiti, e non solo con i candidati della prima ora ma con candidati freschi, freschissimi, praticamente di giornata? Calma e gesso: non è affatto sicuro. Non si trova infatti un solo dirigente democratico disposto a giurarlo, nessuno per il quale basti l’argomento: sono previste, dunque si faranno. Lo stesso Migliore, mentre tende una mano agli altri contendenti, dichiarandosi pronto a entrare in lizza, usa l’altra per vestire i panni del candidato unitario, cioè del candidato che sta in campo per superare, non per partecipare alla contesa.

Migliore, bontà sua, si dichiara da sempre favorevole alle primarie, ma, aggiunge, «non se queste dissolvono i partiti». Ora, come facciano le primarie a dissolvere i partiti non è chiaro: è vero, ne cambiano la natura, riducendo il peso di iscritti, apparati, organismi dirigenti. Ma questo lo si sa dal 2007 (e doveva saperlo pure Cofferati, che lo scopre forse con qualche ritardo), cioè da quando il Pd è nato grazie alla liturgia delle primarie come suo «elemento fondativo». Quanto invece alla temuta dissoluzione, il sospetto è che ci si vada molto più vicini coi brogli, certo, ma pure con questo continuo stop and go, con questo sorta di «coitus interruptus» (e più volte interrotto), con questa incertezza che regna sovrana: con le primarie sì, ma solo fino ad avviso contrario; oppure primarie sì, ma solo se ci piacciono i candidati; o infine sì, ma solo se non c’è partita.

Nel corso della prima Repubblica, non si è data attuazione all’articolo 49 della Costituzione per il timore che, irrigidendo i partiti con norme, regolamenti e statuti e favorendo così, in caso di violazioni e ricorsi, le intrusioni della giustizia ordinaria, se ne sarebbe limitata fortemente l’autonomia. Una concezione tutta politica, tipica dei grandi partiti del Novecento e in particolare del partito comunista, che dall’opposizione aveva qualche timore in più. Ma quei partiti avevano collanti ben altrimenti potenti: in termini di ideologia, di disciplina, di partecipazione di massa. Tutto questo è scomparso, o quasi. L’articolo della Costituzione è rimasto inattuato, gli iscritti calano vistosamente: senza un minimo di certezza e legittimità delle procedure chiamarlo partito, francamente, è fargli un complimento.

(Il Mattino, 18 gennaio 2015)

Leibniz tra i rifiut: li incenerirebbe?

Immagine

Comprensibilmente, la questione dei rifiuti campani non riceve alcun trattamento nei Saggi di teodicea di Wilhelm Gottfried Leibniz. E non perché i Saggi siano stati scritti ai primi del Settecento (che pure sarebbe un buon motivo), ma perché nel migliore dei mondi possibili, di cui parlano i Saggi, rifiuti da incenerire non ce ne sono. Una frazione di rifiuti indifferenziati non c’è, né piccola né grande. In Campania invece c’è. Ergo: ben lungi dall’essere il «luogo virtuoso» di cui parla il Sindaco De Magistris, la Campania non è il migliore dei mondi possibili. Non ancora, almeno. Delle due l’una, allora: o la Campania trasforma in fretta e furia il suo territorio nel migliore dei territori possibili, e allora di inceneritori non ne avrà alcun bisogno, oppure si prende atto di quel che c’è adesso – le ecoballe, il trasporto dei rifiuti fuori Regione, l’inquinamento del terreno, i roghi, i limiti dell’attuale impiantistica – e si procede con il piano presentato all’Unione europea, se necessario anche con poteri commissariali. Quello che sicuramente non si può fare, è andare fieri del trasferimento dei rifiuti per mare in Olanda o per terra in Puglia, e considerare razionale che quel che non si brucia in Regione, perché inquina e avvelena, si possa però bruciare fuori Regione, a patto ovviamente che fumi e ceneri non arrivino fin qui.

Quello che, per conseguenza, non si può dire è che un inceneritore non ci sarà mai, a nessun costo e per nessuna ragione. Eppure Luigi De Magistris è tornato a ripeterlo: come se l’infrazione e la multa che ne verrà non gravasse sulle tasche dei cittadini; come se la raccolta differenziata in Campania avesse già raggiunto livelli californiani; come se la gestione dei rifiuti non presentasse più criticità; come se infine la filosofia del «not in my back yard» (non nel mio cortile, ma sì in quello del vicino) fosse una politica ambientale moderna e degna di questo nome. Eppure il Sindaco di Napoli ha detto proprio così, nessun inceneritore in nessun caso, pur non essendo sostenuto da una metafisica paragonabile a quella sviluppata da Leibniz nei Saggi. Per il filosofo tedesco, infatti, il migliore dei mondi possibili è proprio questo: con tutti i suoi mali e le sue brutture, i suoi delitti e, quindi, pure la sua spazzatura. Voltaire prese in giro un così cieco ottimismo, ma è chiaro che non aveva davvero capito quello che solo l’applicazione della dottrina leibniziana ai rifiuti campani poteva chiarire: che se questo è il migliore dei mondi, figuriamoci gli altri che il buon Dio ha scartato!

Fuor di metafora: migliore o peggiore che sia, quello che conta è lo stato attuale delle cose.  E, allo stato, la Campania non è autosufficiente nello smaltimento dei rifiuti, come invece viene richiesto dalla Commissione e dalla legislazione nazionale. Questo è il dato. Prima che il Sindaco procomberà da solo, come diceva il poeta, per impedire che si faccia l’inceneritore, bisognerebbe misurarsi con i fatti, che sono coriacei e poco inclini alla retorica: con le percentuali alle quali è ancora ferma la differenziata in Campania, con le discariche e gli incendi abusivi, le mancate bonifiche e la necessità ancora inevasa di intervenire sugli impianti per il compostaggio.

Dinanzi al Commissario europeo Potocnik, Il Ministro dell’Ambiente Orlando ha formulato l’ipotesi che la Campania possa produrre meno delle 2 milioni e 700mila tonnellate di rifiuti indicate nel Piano regionale: se così fosse, è evidente che anche la necessità di incenerire dovrebbe essere ridimensionata in base alle quantità effettive. Avere poi ottenuto che l’entità della multa sarà stabilita al momento in cui verrà irrogata, in considerazione dei progressi eventualmente compiuti nel rispetto degli obiettivi contenuti nel Piano, è un buon risultato e può rappresentare un motivo per migliorare l’intera filiera dei rifiuti: dalla qualità e quantità di differenziata alla realizzazione di una efficiente gestione integrata. Ma questo non c’entra nulla con il rifiuto a priori dell’inceneritore, o con le rodomontate del tipo «noi non ci facciamo commissariare», e insomma con l’innalzare insulse bandiere ideologiche, salvo continuare a smerciare i rifiuti nel cortile del vicino, pagando per giunta assai profumatamente trasporto e smaltimento.

Ma, si sa, nel bene e nel male, un intero ciclo politico si è consumato in Campania e a Napoli sulla monnezza, e l’apertura di un nuovo ciclo non sarà un parto indolore.

Il Mattino, 20 giugno 2013

 

Prescrizioni

Immagine

«Per colpa di un accento/ un tale di Santhià/ credeva d’essere alla meta/ ed era appena a metà». Ma magari fosse arrivato almeno a metà! Non quel tale della poesia di Gianni Rodari, dico, ma il processo sui rifiuti, su cui ieri è stata messa una pietra tombale. Nessuno in verità si era illuso che sarebbe arrivato alla meta: già lo scorso anno era a tutti chiaro che le udienze sarebbero continuate, il dibattimento sarebbe proseguito, ma – altro che metà! – il processo non sarebbe arrivato nemmeno alla sentenza di primo grado.

E così è stato. E però, ora che la prescrizione è intervenuta, non si può non rimanere amareggiati e indignati. Anche perché non si trattava certo di un processo qualunque (come se poi, per le parti in causa, i processi potessero mai essere processi qualunque), bensì di un giudizio portato sulla vicenda che più ha influito sulla vita pubblica della Regione Campania, e di riflesso persino sulla vita nazionale: trovarsi ora dinanzi non ad un verdetto, ma ad una prescrizione, appare come la riprova, l’ennesima, del fallimento clamoroso della giustizia nel nostro Paese.

Perciò, se anche disporremo in un’unica filastrocca e diremo tutto d’un fiato che Roma è stata la culla del diritto e l’Italia la patria della prima scuola giuridica al mondo ed è stata ed è ancora il paese degli Azzeccagarbugli ma è pur sempre il paese che ha dato i natali a Cesare Beccaria – ecco: quand’anche volessimo provare a consolarci così, non avremo attenuato di una virgola lo scandalo per vicende processuali di enorme significato politico che finiscono, però, nel nulla. Tra soldi spesi inutilmente, tempo ed energie sprecate e, inevitabilmente, diritti calpestati.

Non senza però che si producano effetti. Non effetti di giustizia, ma effetti politici e mediatici che della giustizia non conservano neanche l’ombra. Le parole che sono state pronunciate ieri in aula dall’accusa, circa le gravi responsabilità della struttura commissariale negli anni in cui fu guidata da Antonio Bassolino, benché non approdino a nulla e non siano recepite (né peraltro respinte) in una sentenza, non cadono infatti nel vuoto, ma finiscono sui taccuini dei cronisti, e rimbalzano nei servizi televisivi. È il sacrosanto principio della pubblicità del processo (in questo caso, peraltro, assicurato con molta fatica): guai a toccarlo. Ma esso si traduce, di fatto, nella seguente maniera: siccome i processi non si riescono più a chiudere, siccome non terminano più dove dovrebbero, cioè nelle aule, vediamo allora di pronunciare sonore requisitorie a beneficio, almeno, dell’opinione pubblica. Così però non è un beneficio, bensì un maleficio, un avvelenamento del dibattito pubblico. La penalizzazione diviene infatti una stigmatizzazione mediatica, in mancanza di meglio. Il processo non ha più come possibile esito la pena, ma costituisce esso stesso la pena. E la prescrizione, che un altro elementare principio di civiltà giuridica richiede a tutela degli imputati, perché nessuno può essere sottoposto a processo vita natural durante, diviene invece orrendo motivo di biasimo per chi ne fruisce. Ancora un sacrosanto principio rovesciato: se io devo rinunciare alla prescrizione per dimostrare la mia innocenza – altrimenti è come se ammettessi implicitamente di essere un farabutto -, vuol dire che non si tratta più di dimostrare, a processo, la colpevolezza, come il diritto invece richiede.

Ma quale vita economica, quale vita politica, quale vita civile può fiorire in simili condizioni? Con la prescrizione di ieri, è come se la materia del processo percolasse un’altra volta, e questa volta non nel martoriato territorio campano, ma direttamente nel tessuto sociale del paese.

«Il mondo sarebbe bellissimo, se ci fossero solo i bambini a sbagliare», annotava Rodari nel suo libro degli errori. Ma non si illudeva: sapeva ben che non basta correggere i dettati, gli accenti o le doppie: bisognerebbe correggere il mondo. Solo che dei luoghi a ciò deputati da noi non ce n’è uno che funzioni, e quelli che si ergono a correttori del mondo parlano ormai da altre, più comode tribune, dove non si perde tempo con notifiche, collegi e terze parti. Meglio allora sorridere di quel tale di Santhià, o di quell’altro che voleva correggere addirittura la Torre di Pisa, perché altri motivi di sorridere, purtroppo, dopo l’udienza di ieri non ce ne sono.

Il Mattino, 11 giugno 2013

Democrazia, società partecipazione

Per chi muore dalla voglia di sapere cosa mai potrò aver detto lo scorso 6 febbraio, il link è questo