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La rinuncia ad eleggere i migliori

20101005105013-8d9cbeba-864x400_cLa scadenza è stamane: fra poche ore si saprà quanti sono i candidati al consiglio comunale, e quanti quelli che puntano a entrare invece nei consigli circoscrizionali. Ma se il numero esatto non lo si conosce ancora, si conosce invece l’ordine di grandezza: sono tanti. Più di quanti siano mai stati in passato. E non solo a Napoli, ma un po’ dappertutto in giro per l’Italia proliferano le liste, neanche fosse rivolto proprio a loro l’antico precetto biblico: crescete e moltiplicatevi.

Perché si moltiplicano davvero, secondo un’esigenza che si direbbe però topografica o toponomastica, più che politica. Il principio sembra essere infatti: non vi sia un solo quartiere, isolato, condominio che non abbia il suo candidato. Il poliziotto di quartiere non lo si riesce a trovare, per quante volte sia stato istituito; di candidatidi quartiere invece sì, ormai ne abbiamo in gran quantità.

Non è un paradosso. È la risposta in termini di quantità ad una perdita di qualità. Ma è dubbio che sia la risposta giusta, quella che rimette in sesto i partiti, migliora la rappresentanza, avvicina i cittadini alle istituzioni. Sembra anzi il contrario: un sintomo grave della mancata tenuta del sistema dei partiti. Che non riescono a rivolgere all’elettorato una proposta politico-programmatica chiara, forte e riconoscibile. Una proposta, cioè, che per essere votata non debba essere sostenuta in maniera palesemente surrettizia dalla pletora dei candidati. Se infatti il rapporto fra costoro e il numero di posti disponibili nei vari consigli cresce in maniera esponenziale, di elezione in elezione, è perché diminuisce inversamente il numero delle motivazioni alle quali attingere, per dare il proprio voto a un partito o a una coalizione. Rimane il rapporto personale, fondato sulla conoscenza diretta di qualcuno che sia in lista, e che ti chiede il voto sol perché lo conosci, perché è un amico o l’amico di un amico che te lo ha presentato, o semplicemente perché vive nella stessa strada dove vivi tu. E per nessun’altra ragione.

Si potrebbe dire: è la via con cui i partiti tradizionali, in tempi di disintermediazione e perdita di autorevolezza, rispondono all’«uno vale uno» che i grillini sbandierano da che sono entrati in Parlamento. Si dovrebbe dire piuttosto: è un’altra maniera di dimostrare, per li rami, che la rappresentanza è azzerata, non rafforzata da quel principio. Si potrebbe dire: è la via per eleggere dei candidati che finalmente siano proprio come noi, proprio uguali a noi, che così li votiamo più volentieri. Si dovrebbe dire invece: è la rinuncia ad un’ambizione che anche in democrazia dovrebbe essere tenacemente coltivata, che quelli che ci rappresentano siano eletti non perché uguali, ma perché migliori di noi (nel senso almeno di essere più adeguati ai compiti che li aspettano).

Ma il fenomeno che esplode nella corsa al consiglio comunale riproduce in piccolo quanto peraltro la storia politica del Paese dimostra in più grande formato. Perché nel corso della prima Repubblica, quando pure vigeva un sistema elettorale proporzionale, il numero dei partiti era contenuto entro limiti fisiologici, e così anche il numero di liste confezionate in vista delle elezioni amministrative. Il declino dei partiti tradizionali, che è stato insieme declino della loro base ideologica e del loro personale politico, si è tradotto in un incremento impressionante di formazioni politiche, con conseguente espansione delle possibilità di cambiare casacca, utilizzando spesso formazioni minori, liste e altre aggregazioni costituite ad hoc. Da questo punto di vista, può molto poco il correttivo maggioritario introdotto ai diversi livelli istituzionali, con leggi più o meno fortunate. In particolare, l’elezione diretta del sindaco è considerata la miglior legge elettorale che sia stata introdotta da vent’anni o poco più a questa parte, e forse lo è davvero. Ma anche la migliore ingegneria elettorale può poco, se i partiti non riescono più a raccogliere voti. Il meccanismo elettorale può assicurare governabilità, rafforzando i poteri del primo cittadino, ma non può sostituirsi a quello che una volta si chiamava il lavoro politico, e che non si capisce più come, da chi e perché debba essere fatto.

Prima ho detto che non è un paradosso, ma l’espressione più lampante della crisi e della difficoltà della politica di articolare ragioni per conquistare consenso. Ora però aggiungo che un paradosso c’è, dal momento che facciamo tutti i giorni la critica della casta politica in nome della società civile, e al dunque ci accorgiamo che rovesciare l’una nell’altra, come avviene massicciamente con la carica dei candidati, non dà affatto i risultati sperati. E, a giudicare dagli ultimi turni elettorale, non li dà nemmeno in termini di affluenza. Rischia anzi di finire come in «Le vie del signore sono finite», con Massimo Troisi che rinuncia a leggere perché lui è uno, mentre a scrivere sono in milioni. La scena sembra la stessa: migliaia di candidati, e l’elettore votante che nemmeno lui, da solo, ce la può fare.

(Il Mattino– Napoli ed., 7 maggio 2016)

Gli USA e le primarie dei populisti

2010-06_cartoon.jpgNell’aprile dello scorso anno, quando Hillary Clinton annunciò la sua candidatura alla Casa Bianca, si aprirono i giochi. Letteralmente. La SNAI lanciò le scommesse sulle presidenziali americane: Hillary Clinton stava a 2, Jeb Bush a 5. I favoriti erano loro. Bernie Sanders e Donald Trump non erano nemmeno quotati.

Alla vigilia del voto nello Iowa, con cui il rutilante circo delle primarie comincia a attraversare l’America, la situazione è molto diversa. Sono i due outsiders a tenere il banco nei rispettivi campi. Da una parte il socialista Sanders; dall’altra il miliardario Trump.

Le primarie, in America, sono una roba vera. E soprattutto una storia lunga molti mesi. Non si contano i candidati che, partiti con il vento in poppa, hanno dovuto ben presto ripiegare le ali e uscire di scena.

Evitiamo dunque di fare previsioni sulle sorprese che la politica americana ci riserverà nei prossimi mesi, e limitiamoci a guardare con occhi europei quello che sta accadendo.

Un paio di cose si fanno subito evidenti, nonostante le diversità di sistemi elettorali, politici e istituzionali. I favoriti della vigilia si prestavano ad essere descritti come espressione dell’establishment. Di più: una è moglie di un ex Presidente, l’altro è figlio e fratello di ex Presidenti, Hillary Clinton e Jeb Bush sono i rappresentanti delle due principali «case regnanti» degli ultimi trent’anni. L’una e l’altro possono inoltre contare sul sostegno delle rispettive macchine di partito.

I candidati che rubano loro la scena si lasciano invece rappresentare come candidati «radicali», «estremisti», «populisti». Il significato delle parole è abbastanza fluido perché un termine slitti sull’altro e mantenga contorni piuttosto vaghi. Populismo, in particolare, è una sorta di parola-baule, dentro cui ci finisce un po’ di tutto: e dunque sia le piazzate di Trump contro gli immigrati, sia le intemerate di Sanders contro i ricchi vengono catalogate sotto la voce populismo. Ma un filo comune denominatore c’è: è l’avversione contro quelli di Washington. Noi diremmo: contro il Palazzo, poco importa se a tuonare contro il Palazzo sia un miliardario che i palazzi li costruisce, oppure un politico navigato, con alle spalle una trentina d’anni di incarichi istituzionali.

Il fatto però che entrambi, almeno a giudicare dai sondaggi, abbiano fatto breccia nell’opinione pubblica indica chiaramente che l’affanno delle tradizioni politiche nazionali – la consunzione, quasi, del lessico politico-intellettuale del Novecento – non è un problema solo europeo. Qualche segnale, in fondo, era già venuto nel 2008, quando Barack Obama, primo afroamericano, sbaragliò il campo da outsiders, i favori del pronostico essendo anche quella volta di Hillary. Nell’altra metà del campo i repubblicani puntarono invece su un uomo di apparato, Mitt Romney, che evidentemente non suscitava gli entusiasmi di un elettorato già radicalizzatosi. E persero.

L’ondata populista che sta scuotendo l’Occidente – ecco un punto di differenza  – in America si riversa però dentro i partiti, mentre da noi – come in Grecia, o in Spagna – sceglie altre vie. Se l’ex sindaco di New York, Bloomberg, dovesse davvero candidarsi da indipendente, preoccupato dalle figure estreme che tengono il campo, il rovesciamento sarebbe completo: in Europa nascono nuove formazioni politiche anti-sistema; in America, sarebbe invece la risposta di sistema a doversi inventare una strada nuova.

Il confronto con l’America è però istruttivo per un’altra ragione. Gli Stati Uniti sono un Paese in salute. Obama lascia un’economia in crescita. Qualche mese fa, l’economista James Galbraith spiegava il successo di Syriza o di Podemos, con le politiche di austerità adottate dall’Unione europea in piena recessione. Al contrario, aggiungeva, Obama ha praticato una strategia keynesiana, con imponenti iniezioni di denaro pubblico e programmi di sviluppo da miliardi di dollari. Ora, la spiegazione di Galbraith può darsi funzioni in economia, ma evidentemente non funziona in politica, visto che nonostante i successi della politica economica obamiana, democratici e repubblicani faticano ad esprimere candidati in linea con le tradizioni più moderate e centriste dei rispettivi partiti. L’elettorato sembra chiedere segnali di discontinuità, e persino gesti di rottura. Li chiede in America non meno che in Europa: il che vuol dire che ce la possiamo prendere con l’euro, con la crisi o con la Merkel finché vogliamo, ma un malessere più profondo sta forse cominciando a manifestarsi. Se così fosse, vorrebbe dire che in gioco non è solo il futuro di tradizioni e ceti politici, ma il destino stesso della democrazia.

(Il Mattino, 30 gennaio 2016)