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Nel castello ideologico di Tronti non c’è posto per la democrazia

ImmagineUna condanna senza appello nei confronti dell’homo democraticus: l’ultimo libro di Tronti (Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Il Saggiatore, pp. 316, € 20), costruito come una sorta di confessione intellettuale per frammenti, è un libro duramente polemico:  «nessun intimismo, nessun redire in se ipsum, nessun autobiografismo».

Al suo centro sta la convinzione che oggetto di critica debba essere oggi non il capitalismo, ma «la declinazione borghese della modernità». Se però quella borghese – con i diritti soggettivi, la democrazia rappresentativa, il mito del progresso e tutto il resto – è solo una «declinazione» della modernità, vuol dire che un’altra sua versione dev’essere possibile. Se così non fosse, la critica trontiana potrebbe senz’altro essere ascritta a un pensiero schiettamente reazionario («non mi piace l’età dell’illuminismo, e non vorrei ripeterla»). Che cosa però sarebbe moderno, una volta rimosse l’abusiva occupazione borghese della modernità, è impossibile dire: Tronti non offre alcun indizio. A meno che non si possa dir tale un unico, fugacissimo cenno alla «concrescita», diversa dalla più abusata «decrescita», felice o infelice che sia. Troppo poco, per distinguersi davvero.

Ma il cuore del problema non è qui: di economia, infatti, il libro non parla. Il cuore è nella «servitù volontaria» della maggioranza, farcita di un insopportabile buon senso democratico, che smussa ogni spigolo, scansa ogni contraddizione, evita ogni acredine. Così, la «grande politica» deve fuggire i luoghi in cui è regina l’opinione dei molti – la tv, i giornali, ma anche i parlamenti – per ritrovarsi nell’amicizia «stellare» di pochi spiriti liberi. Cioè nel pensiero, e gran parte del saggio trontiano è infatti dedicata ad abitare una sorta di castello intellettuale tetragono ai tempi moderni, costruito con una scrittura sempre categorica, lapidaria, battente, tra lunghe citazioni e brevi, folgoranti frasi dal sapore quasi aforistico. Dove si incontrano Hölderlin e Nietzsche, Walter Benjamin e Aby Warburg, il pensiero novecentesco della crisi e il profetismo biblico.

Tutti i frammenti raccolti stanno insieme sotto una libertà dello spirito che è opposizione al mondo. E che solo chi ha attraversato il Novecento da comunista può esperire veramente, secondo l’Autore. Che i comunisti siano recentemente costretti al tono apocalittico (Vattimo) o profetico (Tronti) dovrebbe parlare perciò contro il cattivo tempo presente, non contro di loro. Qui sta peraltro il punto di coerenza del libro: il comunismo non è riciclato ipocritamente come la brutta crisalide da cui doveva un giorno finalmente uscire la farfalla del pensiero democratico e progressista.

Cosa però ne viene, da una simile complessione di idee? Ad esempio: che ieri la Rivoluzione d’Ottobre somigliava a una rivoluzione conservatrice e, oggi, Obama rappresenta solo «un passo indietro». Che la civilizzazione borghese è stata «barbarie», e il presente è, oggi, un cupo «universo concentrazionario». Che tra il nobile slancio rivoluzionario russo di ieri e il volgare spirito pratico americano di oggi, «la libertà sta nel primo, non nel secondo».

In tanta radicalità di giudizio è impossibile ogni accomodamento pratico. Pure, Tronti lo trova: «si può fare, opportunamente, oggi, critica della democrazia politica, accettando, difendendo, sviluppando, riformando, i sistemi politici democratici».

Difficile però farsene convinti, entro le coordinate del saggio trontiano. Forse, per vincere, il comunismo avrebbe davvero dovuto produrre un uomo nuovo, come Tronti dice. Ci è riuscita invece la democrazia, la società dell’intrattenimento, il mercato dell’opinione. Ma politica non può essere scegliersi nel pensiero altri uomini rispetto agli uomini che abbiamo. Se non altro perché sono anche gli uomini che noi stessi siamo.

(Il Messaggero, 8 novembre 2015)

Dalla A alla Z. Le parole della rivolta globale

È  possibile compilare un alfabeto dell’indignazione? Noi ci proviamo, anche se non è facile riassumere in ventitre parole le tante facce della protesta.

Acampada. Da Gerusalemme a Roma a New York, le tende  in piazza sono il simbolo della precarietà (ma anche dell’ostinazione) dei giovani manifestanti.

Beni comuni. La nuova frontiera della lotta per un’economia più giusta passa per la difesa dei beni collettivi: come l’acqua o la conoscenza, il software libero e la scuola come diritto fondamentale.

Chomsky, Noam. La Cassandra della filosofia contemporanea, critico feroce del capitalismo yankee, è fin dall’inizio a fianco della protesta contro gli gnomi di Wall Street.

Default, ovvero fallimento. Ma anche D come debiti sovrani: quelli che gli Stati debbono pagare, ma anche quelli che le nuove generazioni si rifiutano di sobbarcarsi, imputandoli (con molta approssimazione) ai padri, alle classi dirigenti, all’1% della popolazione.

Elio Germano. Uno degli attori italiani fra i più amati dai giovani, ha messo il suo volto e il suo nome (e anche un paio di citazioni hegeliane fuori posto) a fianco dei manifestanti italiani.

Forchette rotte. Sono il simbolo degli indignados siciliani. Vogliono dire che col futuro non deve mangiarci più nessuno, spiegano, e confermano così che il vero sogno di ogni rivoluzionario è sempre la fantasia al potere.

Genova. Ad ogni manifestazione di piazza torna la memoria dei fatti di Genova. Il timore di disordini, ma anche la paura di una repressione insensata. Per alcuni, Genova ’01 è addirittura la forma più compiuta e lugubre della politica contempoanea, asserragliata nella difesa dei propri privilegi.

Hashtag. È il cancelletto sulla tastiera dei PC, usato per marcare una parola e consentire di ritrovarne tutte le occorrenze in rete. Il mezzo più veloce per linkare e citare su Twitter.

Indignados. La nuova ondata di proteste è partita dalla Spagna e la parola ha preso il volo: sono indignados anche israeliani e greci, francesi e italiani. Per una volta, lo spagnolo l’ha spuntata sull’inglese: sta davvero cambiando il mondo?

Juventud. La protesta ha un forte tratto generazionale. Un tempo erano studenti. adesso sono giovani. Non è più la posizione sociale o di classe, ma la questione generazionale a fare la differenza.

Koch, Palazzo. È la sede di Bankitalia. L’indignazione investe anzitutto la finanziarizzazione dell’economia, un modello di capitalismo fatto di salvataggi bancari e fallimenti imprenditoriali, ripianamento dei debiti e tanta disoccupazione giovanile.

Labbé, Christian. È il nome del sindaco di Providencia, Cile. Funzionario della polizia segreta, sospetto torturatore sotto Pinochet, Labbè sta perdendo i nervi perché non riesce a liberare le scuole della sua città. I carabineros le sgomberano e i ragazzi le rioccupano, divenendo così loro il simbolo della resistenza, lui dell’ottusità del potere.

Moltitudine. Il concetto coniato da Toni Negri. Quello che si muove non è un popolo ma sono moltitudini: difficile trovare un denominatore comune per ogni ‘causa’, difficile costruire egemonie; meglio elogiare allora la ricchezza plurale del molteplice (quanto all’unità, si vedrà).

No global. Che fine hanno fatto? Hanno cambiato nome (e logo)? In effetti, qualcuno deve essersi accosto che mettere sotto l’insegna del rifiuto della globalizzazione movimenti iper-globalizzati non era l’idea più brillante.

Occupy Wall Street. Lo slogan dei manifestanti che passeggiano davanti al tempio della finanza mondiale. Non è ancora un’adunata oceanica, ma crescono di numero, sono determinati e, come dice Krugman, hanno perfettamente ragione.

Puerta del Sol. La piazza di Madrid occupata da mesi, simbolo di tutte le piazze delle centinaia di città in queste settimane teatro di manifestazioni sempre più numerse.

Que no, que no queremos. Questi qui non sono Papa Boys. Quando Benedetto XVI è andato in Spagna lo hanno accolto così. C’entra sicuramente l’anticlericalismo della Spagna di Zapatero, ma pure la consapevolezza che i problemi sociali sono più pressanti di quelli valoriali.

Rivolta. Rivolta o rivoluzione? Qual è la R del movimento? Che sbocco avrà? O alla fine prevarrà la R che tutti i rivoluzionari temono, quella di riflusso?

Spinoza. Il filosofo olandese insegnava che l’indignazione è il sentimento in cui si muta il timore quando proprio non se ne può più. Il che però accade solo quando il sentimento dell’ingiustizia diviene generale: allora si vince la solitudine e si manifesta tutti insieme.

Tahrir. La piazza del Cairo che ha cacciato Hosni Mubarak. In maniera un po’ spericolata, gli indignados la mettono tra i propri luoghi simbolo. Quello di Mubarak era un regime autoritario, le nostre son democrazie, ma la differenza non viene sempre in primo piano.

United for Global Change. È il nome della manifestazione. Mette insieme la voglia di cambiamento e il carattere globale della rivendicazione. Vedremo oggi quanto imponente sarà.

V for Vendetta. Il brand del movimento. Anche la ribellione vuole la sua parte di spettacolo. Nel film. l’eroe ha il volto anonimo di una maschera, come anonimi sono i nuovi eroi contemporanei, gli hacker.

Zhengzhou. Capoluogo della provincia centrale cinese dell’Henan: lì anziani e giovani hanno manifestato in favore degli indignados americani e protestato contro il capitalismo. Forse, è una buona notizia

 

Steve Jobs e l’estetizzazione dell’economia

La grandezza di Steve Jobs è fuori discussione – a condizione che sia chiaro quale sia la discussione da cui è fuori. Sarebbe sciocco non riconoscere il talento di un uomo che ha rivoluzionato la tecnologia e il costume, cambiato con i suoi prodotti il paesaggio di cinema e negozi, studi e uffici, scrivanie e automobili, creato nuovi, enormi mercati inventando le corrispondenti abitudini di consumo e portato un marchio, la Apple, in cima al mondo (o più precisamente: in cima alla classifica della capitalizzazione di borsa). Molti sarebbero pronti a sottoscrivere il giudizio dell’_Inquirer_: “Nel campo dell’_information technology_, Steve Jobs ha avuto lo stesso effetto che hanno avuto, nei loro rispettivi campi, Shakespeare o Einstein“. Ma se l’effetto è stato lo stesso, forse non è inutile tenere ben fermo che i campi restano differenti. E dunque: se la grandezza dell’uomo è fuori discussione, non è affatto fuori discussione cosa una società giudichi grande.

(continua su Left Wing)

Quella finanza che non cambia.

Interrompo un lungo silenzio, confidando di tornare a scrivere sul blog, prima o poi. Ma il silenzio lo interrompo con un articolo di Muchetti, che cito integralmente. Una cosa che non ho fatto quasi mai:

Quella finanza che non cambia
L’India scambia dollari contro oro ceduto dal Fondo moneta rio internazionale e il prezzo del metallo giallo vola al massimo storico. In 6 anni, la Cina ha raddoppiato in si lenzio le riserve auree, altri emergenti fanno incetta di lingotti. Numeri piccoli, certo: l’India compra 200 tonnellate per 6,7 miliardi di dollari, la merce è rara. Non torneremo al vecchio gold standard , ma la nuova febbre dell’oro segnala la tendenza diffusa all’investimento delle riserve non più in valute occidentali ma in materie prime: quasi che i beni reali stiano diventando la moneta di ultima istanza di fronte alla carta di cui Federal Reserve e Bce hanno inondato il mondo sulla base di un patto fiduciario ormai traballante. Dice il ministro delle finanze indiano, Pranab Mukherjee: «Le economie americana ed europea sono collassate». Le economie dove la finanza da serva si è fatta padrona per consentire a pochi di guadagnare tantissimo indebitando i più.

Molti banchieri occidentali sono invece ottimisti. Le Borse si sono un po’ riprese e l’investment banking ma cina di nuovo profitti e bonus. Non importa quanto a lungo l’economia reale debba faticare per tornare ai li velli, anche occupazionali, del 2007. E nemmeno se il debito degli Stati e delle fa miglie sia ancora tutto lì, nella sua immane grandezza. Nouriel Roubini parla di una nuova bolla? E’ la solita Cassandra. Come l’oste del proverbio, i banchieri tornano a dirci che il loro vino è buono. La grande dimensio ne è segno di modernità: al massimo, è sbagliata quella del vicino. La banca universale resta il modello: prestare al cliente, costruirci derivati come prima, assumere partecipazioni, metterselo in casa come socio amico, organizzarne le obbligazioni, speculare con i denari dei depositanti, tutto «crea valore per l’azionista». Sì, ci sono conflitti d’interesse, ma basta la corporate governance .

I governi, le banche centrali e le authority sembrano impotenti. Avevano promesso di voltare pagina, ma si sono infilati in negoziati inconcludenti su quanto capitale in più serva all’esercizio del credito e su come si debbano pesare i ri schi. E i banchieri inglesi, nonostante i fallimenti, resistono perfino alle blande idee della Financial Services Authority . La rinascita degli anni Trenta, dice Gui­do Rossi nell’intervista di ieri a Daniele Manca, fu se gnata dal Glass Steagall Act, che separava il credito commerciale dalla finanza, e dalla costituzione della Sec, l’Autorità di controllo di Wall Street. Il giurista in voca — e a ragione — il ritorno del diritto nel deserto creato dalla deregulation, il primato della politica alta in luogo delle alchimie tra regolati potenti e regolatori timidi se non complici. Ma le regole rooseveltiane ebbero un senso in tanto e in quanto si accompagnarono a una politica economica che determinò una gigantesca redistribuzione del reddito dai ricchissimi alla clas se media: il fondamento di una nuova cittadinanza. Alla vigilia della crisi, l’Occidente era tornato a concentrare la ricchezza nelle ma ni degli happy few, pochi eletti, come negli anni Venti del Novecento. Pensare alle banche senza invertire il pendolo della distribuzione come strada maestra del ritorno all’economia reale, rischia di essere una battaglia persa.

Godi! (l'imperativo del '68)

Gli interventi di Zizek sono sempre molto interessanti. Chiamato a riflettere sul ’68, Zizek fa alcune osservazioni degne di nota. Sostiene per esempio che il socialismo ha cominciato ad apparire vecchio, “conservatore, gerarchico, amministrativo” a partire da allora; che il capitalismo “digitale” costituisce “la verità del ’68” (e i capitalisti alla Bill Gates, vestiti in modo informale, ne sono l’icona), e Toni Negri si illude se pensa che generi da sé “i germi della futura forma di una vita nuova”; che il tollerante edonismo ereditato dal ’68 è stato “facilmente incorporato nella nostra ideologia egemonica”, facendo proprio l’imperativo consumistico del nostro tempo, perfetto rovesciamento di quello kantiano: “puoi, quindi devi!”; che le risposte post-sessantottine – forme estreme di jouissance sessuale, terrorismo, misticismo, sono figlie di una stessa sconfitta, e in fondo la perpetuano; che l’alternativa radicale rappresentata dal ’68 sta nel rifiuto del “capitalismo egemonico democratico parlamentare”.
Breve commento a rovescio. Siccome Zizek rifiuta il capitalismo egemonico democratico parlamentare, la liberazione sessuale del ’68 gli pare che sia tutta quanta finita nel consumismo edonistico degli anni seguenti.