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La sola tattica non porta i voti

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A Piazza Santi Apostoli, alla manifestazione promossa ieri da Campo progressista di Giuliano Pisapia e da Articolo 1 – Mdp di Pierluigi Bersani (e altri), non c’era «né rancore, né nostalgia né antipatia». Però di tattica ce n’era fin troppa. Perché se uno avesse voluto capire quale direzione prenderebbe il centrosinistra come lo immaginano da quelle parti, avrebbe capito una cosa soltanto: non con Matteo Renzi. Lo ha spiegato con molta chiarezza proprio l’ex segretario democratico, Bersani: non si può costruire nessun centrosinistra se si pensa che «il centrosinistra si riassuma nel Pd, e che il Pd si riassuma nel suo capo». Ovvero: togli Renzi, e la linfa riprenderà a circolare salubre e balsamica per tutti i rami del partito democratico e del centrosinistra, che tornerà ad essere «largo e plurale, politico e civico».

Ora: si può realisticamente immaginare che il Pd, cortesemente invitato dalla nuova «soggettività politica» a detronizzare il segretario, accetti la gentile proposta, metta da parte Renzi e consegni le chiavi del centrosinistra a Giuliano Pisapia? No, non si può. E allora come diavolo dovrebbe nascere questo centrosinistra «largo e plurale, politico e civico»? Quello che ieri ha manifestato a Roma era uno strano ircocervo: erano infatti in piazza quelli che vogliono il centrosinistra ma non vogliono Renzi (un’impossibilità), quelli che appoggiano il governo attuale ma respingono la direzione presa dal Pd durante tutta la legislatura, da Renzi a Gentiloni (una contraddizione), quelli che esigono una discontinuità radicale rispetto alle politiche praticate in questi anni (un’incoerenza, perché – tanto per dirne una – Pisapia ha votato sì a quel referendum che per Bersani rispondeva invece a un disegno autoritario: più potere con meno consenso).

Un’impossibilità, una contraddizione, e un’incoerenza. Tutte cose che però si scioglierebbero come neve al sole, se solo Renzi non ci fosse. Ma Renzi c’era, era a Milano alla festa dei circoli Pd, e stava lì a riaffermare la sua leadership sulla base del voto delle primarie che né i «leader senza voti» di fuori, né i capicorrente di dentro possono mettere in discussione.

Nessuna meraviglia, dunque, se nel discorso di Bersani tutte le ironie erano riservate al segretario del Pd: non abbiamo fatto il vaccino obbligatorio contro l’anti-renzismo, non è che tutto il mondo gira intorno alla Leopolda, il comizio di Renzi è acqua sul marmo, e per finire: il cuore del renzismo è «la predicazione del bel tempo».

Ancora più impressionante è il modo in cui Bersani, dovendo reclamare «discontinuità radicale», ma al tempo stesso salvare tutto quello che il centrosinistra ha fatto con i governi Prodi-D’Alema-Amato, negli anni dell’Ulivo, e poi con Monti e Letta, quando ormai c’era già il Pd, s’inventa che le politiche del centrosinistra sono diventate «sbagliate, fuori fase, e distoniche», giusto nel 2014, quando Renzi si prende prima il partito e poi il governo: proprio allora, a quanto pare, la fase storica sarebbe cambiata e Renzi non se ne sarebbe accorto. Inutile dire che Renzi, a Milano, ha rivendicato esattamente tutto quello che a Roma gli veniva contestato: «C’è un sacco di gente che sta riscrivendo il passato – ha detto – noi siamo qui a scrivere il futuro».

Lo spettacolo al quale si assiste è dunque quello di una (aspra) competizione a sinistra. Com’è inevitabile che sia, con un sistema proporzionale che spinge ciascuno – come ha detto senza infingimenti Massimo D’Alema – «a presentarsi con la propria piattaforma», dovendo anzitutto rendersi distinguibili dalle forze più vicine. Perciò è tutta tattica: dire che si vuol fare il centrosinistra largo e plurale per accusare Renzi e il Pd di essere isolato, di aver reciso i rapporti con il mondo della sinistra, e, nel frattempo, marcare le differenze, non certo i motivi di unità. E siccome c’è sempre qualcuno più a sinistra di te che ti rinfaccia di aver tradito gli ideali, stessa sorte è toccata pure alla piazza di Pisapia e Bersani. Perché ieri con loro non c’erano quelli del teatro Brancaccio, Tomaso Montanari e Anna Falcone: non sono stati invitati a parlare, e loro non hanno voluto interpretare «il ruolo del popolo che legittima, con la sua plaudente presenza, la consacrazione di un leader».

Il leader riluttante – così lo ha presentato Lerner alla folla titubante –  di legittimazione ha davvero bisogno. Pisapia ha lanciato l’idea di un progressismo moderno e rivoluzionario, ha parlato di casa comune e di buona politica (cioè di buone idee e buonissime intenzioni), ma diciamo la verità: a giudicare dalla tiepidezza degli applausi, dai suoi toni impacciati e dalla sua stessa pacatezza. è parsa pure quella tattica. Non sua, s’intende, ma dei fuoriusciti del Pd, cioè di Bersani e D’Alema, bisognosi di trovare un front man a cui appendere il nuovo soggetto politico per tutto il tempo della campagna elettorale, e finché Renzi non si sarà tolto dalle scatole.

Ma come? Con una congiura di partito? Con una nuova legge elettorale? Con primarie di coalizione? Tutte ipotesi che non reggono, che alimenteranno forse le polemiche dei prossimi mesi, ma che al centrosinistra difficilmente aggiungeranno un solo voto. Se mai, gliene toglieranno qualcuno.

(Il Mattino, 2 luglio 2017)