Se fosse possibile mantenere un filo di leggerezza, si potrebbe scomodare una massima evangelica: «oportet ut scandala eveniant». E cioè: un bello scandalo è proprio quel che ci voleva. Non però per tirar su gli ascolti, o per inaugurare con il botto la nuova stagione televisiva, ma per avviare una riflessione più generale sul giornalismo televisivo. Che s’è seduto sulle poltrone e i divanetti dei talk show, e di lì si schioda sempre più faticosamente, sempre più difficilmente.
Naturalmente, la riflessione deve andare oltre l’indignazione o l’amarezza per la trasmissione di Porta a Porta dell’altra sera, quando sono stati ospiti di Bruno Vespa la figlia ed il nipote del patriarca del clan dei Casamonica, già omaggiato nei giorni scorsi a Roma di uno sfarzoso funerale. Lì dove si sono seduti nelle passate stagioni, e ancora si siederanno, le più alte cariche dello Stato, nonché personaggi celebri del mondo della cultura, della politica, dello spettacolo, proprio lì erano accomodati Vera e Vittorino Casamonica, a raccontare quanto fosse grande il «re di Roma».
La trasmissione ha sollevato un’ondata robustissima di critiche. Al cui centro però non può trovarsi il semplice fatto che Vespa ha dato la parola ai familiari del boss deceduto. Il giornalismo dà la parola a chiunque abbia qualcosa da raccontare, a chiunque permetta di comprendere fatti e circostanze meritevoli di attenzione, a chiunque consenta di avvicinare e conoscere pezzi del nostro Paese, per gradevoli o sgradevoli che siano. Ci si regola in base alla notizia: se la notizia c’è, la si dà. Ed è una notizia ascoltare chi fosse Vittorio Casamonica secondo i suoi familiari. Del resto, è evidente: quale giornale non ospiterebbe un sevizio, un’inchiesta, un reportage che aiutasse a capire i mondi-di-mezzo da cui, lo si voglia o no, sono lambite anche le nostre esistenze? Quello dei Casamonica è uno di questi mondi: nei codici di comportamento, nelle abitudini di consumo, persino nei gusti musicali, e naturalmente nel coacervo di interessi e nelle dinamiche sociali intrise di violenza che lo attraversano.
Il motivo di riflessione, dunque, è un altro. E cioè non se queste cose si devono vedere, sapere, raccontare, ma come lo si possa fare. Come, e dove. Lo studio televisivo con le poltroncine sul proscenio – da molti anni signore incontrastato dell’approfondimento giornalistico nella televisione italiana – è il mezzo, è il luogo adatto? Funziona allo scopo?
Di sicuro è funzionale ai costi. Per fare uno share di tutto rispetto, infatti, di soldi ce ne vogliono pochi. Ci vuole senz’altro un buon conduttore e una buona redazione, ma poco altro.
O meglio, quell’altro che ci vuole è l’Ospite. Il quale ospite rientra necessariamente in una di queste due categorie: o è una personalità di riconosciuta autorevolezza, o è persona che dall’apparire in trasmissione ricava una autorevolezza, se non riconosciuta, riconoscibile dal pubblico. E dunque ci va, anzi: smania per andarci,.
Con quali effetti, però? Un effetto di omaggio. Lo ricevono il politico e l’esperto, il cantante e il cardinale, il professore ed il campione sportivo, il testimone e il «caso umano». Tutti, indistintamente. Tutti si siedono sulle stesse poltroncine, tutti sono incorniciati dalle stesse telecamere. Tutti sono nello stesso spazio: in studio. Così, per quanto ficcanti siano le domande o energico il contraddittorio, tutto si muove dentro lo stesso acquario, e su tutto prevale quell’unica logica di rappresentazione.
Un grande antropologo britannico, Tim Ingold, dice che per studiare gli uomini ci vuole osservazione, non oggettivazione. La prima entra dentro le cose e gli uomini e si fa insieme a loro; la seconda li tiene a distanza, li immobilizza ed anzi li raggela. Possiamo fare un passo ulteriore. Seduti nel salotto televisivo, intronizzati nella figura dell’Ospite, non solo gli uomini non vengono osservati, ma vengono soltanto esibiti.
Questa esibizione è in sé spudorata, ed è infatti la televisione il regno della più assoluta spudoratezza.
Ma allora la domanda è: cosa vediamo davvero di quel mondo di mezzo, che vive in una zona grigia, più o meno nascosta, una zona ambigua, torbida, sfuggente, quando non proviamo ad entrarci dentro, magari con un’inchiesta d’altri tempi, ma lo invitiamo nel salotto televisivo, lo portiamo sotto le luci dei riflettori? Quando ai Casamonica togliamo la musica che loro avevano scelto per il funerale del capofamiglia, e ci mettiamo quella della sigla del programma?
La domanda non suoni retorica. Perché il problema di scoprire che paese l’Italia sia diventata, cosa sono i quartieri delle grande città, chi comanda nei circuiti dell’economia legale e di quella illegale, chi controlla il territorio e con quali mezzi, quali modelli sociali e culturali si impongono, cosa succede nei luoghi reali di vita delle persone esiste. Dentro tutto ciò ci sono pure i Casamonica. Ed esiste pure, aggiungiamolo, la necessità di raccontare le ginestre che sorgono in mezzo al deserto, o i pezzi di paese che cambiano, le cose nuove che si inventano e quelle vecchie che vanno a morire. Ma c’è la voglia di raccontarle davvero queste cose? E come, e da dove la Rai pensa di farlo? Forse tutta la levata di scudi più o meno moralistica di queste ore non vale la più banale richiesta che si può rivolgere al servizio pubblico, di provare a fare, insieme allo spettacolo e alle sue pur legittime esigenze, anche un’altra non piccola opera, che è opera di conoscenza.
(Il Mattino, 12 settembre 2015)