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Di Persia, il pm che non deve pentirsi mai

Acquisizione a schermo intero 05072014 165705.bmpA distanza di trent’anni dai fatti, Diego Marmo, il pubblico ministero del processo di primo grado, ha ammesso di aver chiesto la condanna di un uomo innocente, e ha chiesto scusa ai familiari di Enzo Tortora. Felice Di Persia, uno dei titolari dell’inchiesta che di Tortora chiese l’arresto, non ha apprezzato per nulla. In sede di requisitoria, Marmo aveva detto che l’assoluzione di Tortora avrebbe screditato tutta l’istruttoria. Dopo la condanna a dieci anni in primo grado, Tortora fu assolto in appello, ma Felice Di Persia non vuole che neppure un’ombra di discredito cada su di lui e sulla sua inchiesta. Non lo volle allora e non lo vuole ora. E perciò reagisce con sfrontata sicumera: Marmo? Il primo magistrato pentito della storia. Marmo c’entra come il cavolo a merenda. Marmo? Lui si limitò a seguire meccanicamente il mio lavoro e quello del collega Di Pietro; non fece altro: di cosa si pente, allora? (Sottinteso: se c’è qualcuno che dovrebbe pentirsi sono io, ed io non ci penso nemmeno). Se proprio voleva, Marmo avrebbe dovuto chiedere scusa non a uno solo, ma a tutti gli altri imputati assolti, solo che per buona parte erano camorristi per davvero. Che altro? Ah, sì: che un innocente finisca in carcere – è successo, anche Di Persia deve ammetterlo, c’è una sentenza passata in giudicato – beh: fa parte del gioco, rientra nella fisiologia del processo. Niente scuse, quindi. E tanti saluti ai familiari.

In trent’anni alcune cose sono cambiate. L’Italia si è lasciata alle spalle il processo inquisitorio, ridimensionando almeno in parte lo squilibrio a favore dell’accusa. La Cassazione ha riveduto le modalità di utilizzo delle dichiarazione dei pentiti, figura che nell’83 – l’anno del processo – era stata da poco introdotta nell’ordinamento, con un po’ troppa disinvoltura. Rispetto a trent’anni fa, sono diminuiti anche i numeri degli affiliati ai clan camorristici, così come il numero degli omicidi. C’è stato anche un referendum sulla responsabilità civile dei giudici, promosso dai radicali sull’onda del caso Tortora, vinto e poi di fatto disatteso. E infine il giudice Di Persia, già membro del Csm, è andato in pensione, con sua personale soddisfazione e di noi tutti. Tutto ciò però non permette di dire che oggi le cose funzionano, ma permette di guardare alla maxi-inchiesta dell’83 con sufficiente distanza storica. E però si rimane ugualmente strabiliati nel sentire il magistrato Felice Di Persia deridere il collega che ammette l’errore, che si scusa per la foga con cui definì Tortora «cinico mercante di morte», che confessa un rimorso che lui, evidentemente, non prova. Ma dopo la meraviglia subentra l’amarezza. Perché si apprende che un alto magistrato ritiene ancora che la correttezza della sua inchiesta sia provata non da conferme probatorie, dal vaglio dei giudici e dalle eventuali successive condanne, ma dal fatto che, condanne o no, quanti furono scarcerati allora erano comunque camorristi, come dimostra il fatto che in molti finirono ammazzati. Un disprezzo più aperto della forma e una concezione più grevemente sostanzialista del diritto non potrebbe esprimersi. E infine l’innocente, Tortora: per lui Di Persia non pensa a scuse o risarcimenti, e neanche ha il buon gusto di tacere, ma bada al sodo: in ogni inchiesta ci può sempre essere qualcuno che non ha colpe però ci va di mezzo. E così che funziona, bellezza. È così che non funziona, invece, se l’innocente ci va di mezzo per le accuse infondate e mai verificate di un pentito con personalità schizoide, e di compari degni di lui che gli tengono bordone, incastrato per uno scambio di nomi ma soprattutto dal rifiuto protervo di trovare uno straccio di riscontro. Così funziona, caro Di Persia, solo una giustizia spettacolo o forse meglio: lo spettacolo dell’ingiustizia. E se non ti sono piaciute le parole di Diego Marmo valga almeno il ricordo di quelle dell’innocente che tu ancora presenti, dopo trent’anni, come un «non condannato» perché nel processo non si trovarono «prove idonee». Disse Tortora in appello: «Io sono innocente, spero con tutto il cuore che lo siate anche voi». Di tutto cuore, ci uniamo anche noi alla sua speranza.

(Il Mattino, 5 luglio 2014)