Archivi tag: Cassazione

Le inchieste ridimensionate dai tribunali

Hamilton

R. Hamilton, The Critic Laughs (1971)

Investito dalla Cassazione, il Tribunale del Riesame di Roma è tornato a decidere sulle misure di restrizione della libertà a carico di Alfredo Romeo, e questa volta ha mandato libero l’imprenditore napoletano. A marzo dentro, ad agosto fuori. Non c’è nulla che non sia andato secondo le procedure: il gip firma gli arresti, la difesa ricorre e il Tribunale conferma; la difesa ricorre ancora e la Cassazione rinvia al riesame, che questa volta accoglie la richiesta dei legali di Romeo. Tutto regolare, salvo che nel frattempo Romeo ha trascorso quasi sei mesi agli arresti: prima in carcere, poi, nell’ultimo mese e mezzo, ai domiciliari.

C’era, comunque, da aspettarselo: quando, nel luglio scorso, si era pronunciata la Cassazione, era saltato fuori che, a giudizio della Suprema Corte, il Tribunale aveva motivato in maniera largamente insoddisfacente la propria decisione. Ritornando sui propri passi, il Tribunale dà ragione al massimo vertice giurisdizionale. Ma nelle pieghe di quella sentenza si trovava anche affermato un giudizio non proprio lusinghiero sul modo in cui si era proceduto sin lì: la Cassazione non riusciva a capire dove diavolo fosse il «sistema Romeo», o il «metodo Romeo», di cui gli inquirenti erano andati a caccia, e avanzava dubbi anche sul modo in cui gli inquirenti avevano fatto ricorso, per le intercettazioni, ai famigerati trojan informatici: supponendo legami con la criminalità organizzata al solo scopo di vedersi autorizzati gli strumenti investigativi più invasivi. Infine, provava a dare un senso preciso alla previsione del carcere come «extrema ratio», così come richiesto dalla legge, e come invece disinvoltamente troppo spesso ci si dimentica.

Ora la situazione è questa, che l’ipotesi accusatoria da cui tutto era partito, con gli appalti all’ospedale Cardarelli in odore di camorra (secondo la Procura di Napoli), di colpo si rivela costruita male, grazie a qualche forzatura di troppo (secondo la Suprema Corte), mentre sull’altro versante delle indagini, che puntava su Roma e sulla centrale acquisti della pubblica amministrazione, la Consip, sono venute fuori addirittura manipolazioni di prove da parte del capitano dei carabinieri Giampaolo Scafarto, insieme a fughe di notizie a ripetizione che forse hanno intralciato le indagini ma che di sicuro hanno costruito una enorme cassa di risonanza mediatica per il lavoro della magistratura inquirente.

Naturalmente, non siamo dinanzi a sentenze definitive e la vicenda non è chiusa. L’accusa farà la sua parte, così come cerca di farlo la difesa (possibilmente, su un piede di parità). Ma se uno riavvolge il film di questi mesi si accorge di quale enorme distorsione si sia prodotta. E si produca ogni volta. Con indagini, arresti e intercettazioni il quadro accusatorio si fa subito chiarissimo, lampante, praticamente certo, mentre le controdeduzioni della difesa devono aspettare mesi e mesi perché riescano a farsi strada prima nei tribunali e poi sui giornali. Con imputazioni e incriminazioni accade l’esatto opposto: prima le accuse arrivano sui giornali; poi, in tribunale, si vedrà (se si vedrà).

Uno potrebbe dire: come però la carcerazione preventiva non significava colpevolezza, così il ritorno alla libertà non vuol dire che l’accusa sia stata smontata. Il che è vero, ma è vero pure che di mezzo ci sono messi in carcere e ai domiciliari, e c’è una campagna di stampa che di fatto trasforma indagati e imputati in colpevoli ben prima di qualunque verdetto. E tanti saluti ai diritti e alle garanzie.

In questa inchiesta, poi, qualcosa non è stato chiaro persino nel metodo. Non dico solo delle gravissime alterazioni del contenuto delle intercettazioni, con cui si è cercato di mettere nei guai il padre di Matteo Renzi, Tiziano, ma dico proprio del modo in cui l’indagine ha potuto estendersi. Invece di andare in profondità, è sembrato fin da subito che si volesse solo andare in lungo e in largo. In giro, insomma, a tirar dentro di tutto e di più: una volta è la camorra, un’altra sono le fughe di notizie, un’altra ancora sono opportuni “aggiustamenti” delle carte. Una volta è un’ipotesi accusatoria, un’altra sono i trojan, un’altra ancora sono intercettazioni a strascico. Inchieste dal raggio sempre più grande – dal Cardarelli a Consip, da Napoli a Roma – purtroppo affette da un’inesorabile proporzione inversa: più allarghi e meno vai a fondo; più gonfi, enfatizzi e ingrandisci e meno il tutto si fa distinto e regge alla prova del processo.

Che però è ancora di là da venire, e chissà se e quando arriverà. Quel che però si capisce, è che non vi arriverà come era stato annunciato, ma solo dopo una robusta tosatura. Come quella a cui gli antichi prìncipi sottoponevano le monete, riducendone progressivamente il contenuto aureo, così va con l’ipotesi di processo che continua a circolare sui giornali, che ad ogni nuova notizia vale, lentamente ma inesorabilmente, ogni giorno di meno.

(Il Mattino, 17 agosto 2017)

Una lezione di diritto e di storia

 

Banchetto

Mannuel Blasco, Banchetto offerto da Picasso in onore di H. Rousseau, Il Doganiere (1960)

La sentenza della Cassazione di accoglimento del ricorso di Alfredo Romeo contro l’ordinanza di custodia cautelare a suo carico contiene una piccola lezione di diritto, che conviene seguire nei suoi snodi principali. Romeo – lo si ricorderà – è finito in carcere accusato di condotte corruttive nell’ambito di un’attività investigativa che, partita dagli appalti all’ospedale Cardarelli, si è poi estesa ai rapporti con la centrale di acquisti pubblici Consip. La rete delle intercettazioni è stata gettata per pescare di tutto e di più, e nell’indagine è finito dentro anche il padre di Matteo Renzi, Tiziano, su cui si indaga per traffico di influenze illecite. Nel corso degli ultimi sei o sette mesi se ne sono però viste di tutti i colori: la Procura di Roma – per competenza divenuta titolare della parte dell’inchiesta che riguarda Consip – ha di fatto sconfessato il lavoro svolto dal Noe dei Carabinieri a cui la Procura napoletana aveva affidato le indagini; clamorose fughe di notizie si sono moltiplicate, intrecciate, accavallate; il pm napoletano John Henry Woodcock è finito sotto indagine disciplinare; infine, e soprattutto, il lavoro dei pm romani ha portato alla luce gravi manipolazioni del contenuto delle intercettazioni allegate all’inchiesta, opera del capitano Scafarto, con livelli di responsabilità tutti però ancora da chiarire.

Cosa c’è ora di nuovo nel pronunciamento della Cassazione? Una gragnuola di dubbi sul modo in cui si è proceduto sin qui. La Cassazione si rivolge al Tribunale del riesame, invitandola a riconsiderare i motivi del ricorso. E già qui c’è una prima lezione: contro un certo andazzo a motivare “in fotocopia” i provvedimenti, la Suprema Corte ricorda che l’apprezzamento del Tribunale deve essere «autonomo». Ciò in breve significa che se in fase di indagini preliminari sono state autorizzate intercettazioni (il cuore dell’indagine, per non dire il suo intero contenuto), non basta che il Tribunale faccia in seguito propria quell’autorizzazione: in presenza di eccezioni della difesa deve prendersi il disturbo di riconsiderare la materia per offrire una «autonoma valutazione» della legittimità delle captazioni effettuate.

Non basta. La Corte trova necessario ricordare che le intercettazioni non si autorizzano ex post, sulla base di quello che risulta dall’acquisizione del loro contenuto. Quindi, anche se l’ipotesi accusatoria dovesse in seguito cadere o essere riformulata, non per questo verrebbe meno il fondamento di legittimità di quegli atti. Si tratta di un principio di elementare buon senso, oltre che di diritto, che però viene sistematicamente utilizzato in modo furbesco. E la Cassazione non lo manda a dire. Spiega anzi in modo del tutto esplicito che soprattutto nell’impiego di strumenti di captazione particolarmente invasivi (i cosiddetti trojan informatici),  ci vuole un «onere motivazionale rafforzato». Non va bene – dice insomma la Cassazione: e meno male che lo dice! – che certi fatti si inquadrino sbrigativamente come fatti di criminalità organizzata allo scopo non di perseguire davvero l’ipotesi accusatoria, ma di vedersi autorizzare le intercettazioni. Questo è un altro, cattivo andazzo a cui la sentenza di ieri cerca per fortuna di mettere uno stop. Lo fa naturalmente affermando «un quadro di principi», ma non è ovviamente un caso che lo faccia proprio in questa circostanza, a proposito del caso Consip.

L’ultima lezione riguarda la custodia cautelare. Qui il giudizio della Corte è particolarmente severo, e colpisce ancor più in quanto vi è stata di recente, nel 2015, una riforma legislativa volta a rendere più stringenti e più rigorosi i motivi che rendono possibile l’adozione della misura. Se in materia di intercettazioni la politica fatica maledettamente a mettere paletti, in materia di custodia cautelare la politica i paletti ha cercato di metterli, ma a quanto pare ci pensa la magistratura a dribblarli. Evidentemente la riforma non è entrata nella cultura e nella prassi dei giudici italiani. La Cassazione infatti è costretta a ricordare che si può mandare in carcere qualcuno prima del processo se il pericolo di inquinamento delle prove è «concreto». Poi però aggiunge che non bisogna nemmeno che questo concreto pericolo si risolva in una mera «clausola di stile» priva di significato, come invece troppo spesso accade, ad esempio quando ci si limita a richiamare i molteplici fronti investigativi in cui l’indagato è coinvolto per desumerne una qualche pericolosità.

Qui, però, in maniera niente affatto accidentale, arriva anche un’ultima, forte critica all’inchiesta napoletana: la Corte infatti dichiara di non comprendere dall’ordinanza impugnata «di quali contenuti operativi consista ed in quali forme e modalità concrete s’inveri il “metodo”, o il “sistema” di gestione dell’attività imprenditoriale da parte del Romeo». Se non si vede il metodo, non si scorge il sistema, c’è il rischio – questo sì concreto – che gran parte delle accuse costruite per tirar dentro un’unica trama di aderenze connivenze e influenze l’imprenditore e il pubblico funzionario, il politico e il faccendiere, il parente e il generale, e insomma Napoli e Roma, gli affari e la politica, sia destinato a cadere come un castello di carte. Quest’ultima però non è una lezione di diritto, ma se mai una desolante lezione di storia. La storia politica e giudiziaria di questi anni, che ancora deve essere scritta.

(Il Mattino, 26 luglio 2017)

La tiotimolina risublimata

Immagine

È probabile che di quanti si affannano intorno alle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi nessuno o quasi conosca le proprietà endocroniche della tiotimolina risublimata. Eppure, gli esperti ricorderanno che nel 1948, tra le tante cose, non ci fu solo la vittoria della Dc, ma anche la pubblicazione di un racconto di Isaac Asimov, che torna utile rileggere oggi, per capire a quale punto siano giunte le contorsioni sempre più scomposte della seconda repubblica. La tiotimolina, spiegava il notissimo scrittore di fantascienza, è una molecola talmente solubile, ma talmente solubile,  da sciogliersi ancora prima di essere immersa nell’acqua. A quel lontano racconto deve essersi ispirato chi ha cominciato a ragionare in queste ore di concessione della grazia al Cavaliere, ancora prima che la Cassazione si pronunci e giunga (se mai giungerà) ad una condanna definitiva. Sulla scia di una simile proposta, si potrebbe aprire un filone di iniziative assai interessante. Per esempio: promuovere o bocciare prima dello svolgimento di un esame, oppure dare i risultati del voto ancor prima dello svolgimento della consultazione elettorale (i sondaggisti in realtà ci provano, con alterne fortune). Resta che però, in taluni casi, possono presentarsi serie controindicazioni, se per esempio qualcuno decidesse di attraversare un incrocio ancor prima della comparsa della luce verde.

Gli ambienti del Quirinale, che in via ufficiosa stigmatizzano  duramente «l’analfabetismo» e la «sguaiatezza istituzionale» di chi lascia scoppiare nel dibattito pubblico simili, avventurosissime proposte, autorizzano una buona dose di ironia. In realtà, tirare la Presidenza della Repubblica per la giacchetta, cercare di precostituire soluzioni in un ambito di esclusiva competenza del Capo dello Stato, o più semplicemente mettere le mani avanti per paura di finire male non giova anzitutto al Cavaliere, perché sembra denunciarne una preoccupata insicurezza e suona come una sorta di «excusatio non petita» (cioè di «accusatio manifesta»); non giova in secondo luogo all’istituto della grazia, che non è certo la valvola di sicurezza per i problemi giudiziari di nessuno; e non giova neppure, in terzo luogo, ai rapporti politici presi nel loro insieme, di cui si dovrebbe favorire il rasserenamento, piuttosto che la complicazione. Una proposta del genere, infatti, sbagliata nei modi e nei tempi, non può avere il proposito di trovare una soluzione alla crisi politica in cui il Paese rischia di precipitare in caso di condanna, ma solo quello di rendere più difficile la coabitazione di Pd e Pdl in seno alla maggioranza, dal momento che non è certo cosa di cui i due partiti maggiori possano realmente ragionare. Non lo è perché non spetta loro farlo, e non lo è perché i rispettivi elettorati non ne comprenderebbero il senso, l’opportunità, il merito.

Non sorprende perciò il fatto che, non contento del contributo dato alla scienza, Isaac Asimov sia tornato altre volte sulle proprietà della tiotimolina, per indagare ad esempio le sue «applicazioni micropsichiatriche». Ecco, non vorremmo che la seconda Repubblica stesse ormai sconfinando nella micro o macropsichiatria e avesse perciò bisogno di interessarsi di simili applicazioni. La molecola di Asimov suppone peraltro una capacità di incursione nel futuro di cui quasi nessuno, nella politica di oggi, è capace. È per questo, e solo per questo, che non riesce a tirarci fuori dai problemi del presente. Non ha un orizzonte, una visione, ma è per lo più un’affannosa rincorsa giorno per giorno, e arriva purtroppo un attimo dopo molto più spesso che un attimo prima.

Lo scrittore americano non pensò di affiancare a quel capolavoro di satira scientifica che fu il suo racconto un capolavoro analogo nel campo della satira politica, ma la proposta di grazia avanzata per conto terzi prima della condanna meriterebbe comunque, io temo, tutta la sua considerazione.

(Il Mattino, 13 luglio 2013)