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Il mito degli outsider

Meno di due mesi al voto e già un vincitore annunciato: il Movimento Cinque Stelle. Almeno al Sud. I sondaggi che i partiti hanno tra le mani sono infatti unanimi nel diagnosticare il successo dei grillini. Possono differenziarsi nel misurarne l’entità, ma sono concordi nel ritenere che, allo stato, il M5S è davanti a tutti gli altri partiti, con percentuali che superano il 30% e che in Campania arrivano addirittura a lambire il 35%. Se questi numeri fossero confermati nelle urne, si produrrebbe un terremoto politico persino superiore a quello che nel ’94 segnò la fine della prima Repubblica e l’avvento di Silvio Berlusconi. Il tema del governo possibile del Paese dominerà le settimane successive al voto ma, riescano o meno i pentastellati a costruire una maggioranza parlamentare, rimarrà comunque il dato di un partito che alla sua seconda legislatura avrà toccato cifre da grande partito di massa.

Se raggiungeranno effettivamente queste dimensioni, vorrà dire che i Cinque Stelle non avranno raccolto solo un generico voto qualunquista e protestatario. Bisognerà invece che ampi strati sociali si saranno riconosciuti in una proposta politica e in un leader, Luigi Di Maio, la cui immagine non appare affatto scalfita dalle critiche di inesperienza o impreparazione, oppure da beffardi commenti sul suo scarno curriculum. C’è un’Italia che vota Cinque Stelle: perché?

La risposta più ovvia viene proprio dalla composizione del ceto politico pentastellato. Che si presenta quasi completamente privo di esperienza politica o sindacale. Tra le prime regole dettate da Grillo nella selezione dei “portavoce” stava infatti il prerequisito essenziale dell’assenza di esperienze di militanza in altri partiti. Tutta la polemica nei confronti dell’incompetenza dei grillini dipende non dalla mancanza di adeguati titoli di studio, o dall’assenza di esponenti delle libere professioni, ma dal rifiuto della professionalizzazione politica. Questo tratto è stato funzionale alla rappresentazione di una totale alterità rispetto alle liturgie della politica, ma è oggi anche motivo di attrazione per quanti aspirano a soppiantare la “casta” formata dal vecchio ceto politico. Che tanto vecchio non è, se si guarda al dato anagrafico (il Parlamento che chiude oggi i battenti è molto più giovane di quelli delle passate legislature), ma lo è molto di più, se si guarda invece alla composizione sociale. Tra le file dei grillini, sono infatti molto più rappresentati figure del lavoro precarie, nuove professioni, e anche un ceto impiegatizio legato a nuove mansioni. Il candidato premier Luigi Di Maio, che ha lavorato come steward allo stadio San Paolo, poi come webmaster, non è affatto il fallito di cui parla Berlusconi: è invece il punto di emergenza di nuovi mondi e di nuove istanze che non scorrono più dentro i canali tradizionali, e che dunque si riversano altrove. Da questo punto di vista, il grillismo può persino essere considerato come la naturale prosecuzione (di un lato) del berlusconismo con altri, più poveri mezzi. O forse la sua radicalizzazione: non era forse Berlusconi quello che si compiaceva di apparire come un’altra cosa rispetto alla politica, come uno che ce l’ha fatta da solo, uno che mitizzava i suoi inizi come cantante sulle navi da crociera? Al fondo, non vi era forse già con il Cavaliere l’idea per cui rappresentare vuol dire non essere diversi o migliori, ma proprio uguali, l’idea insomma – esiziale per il principio stesso della democrazia indiretta, parlamentare – per cui la politica non può essere più una cosa separata, ma deve somigliare in tutto e per tutto al cittadino elettore?

Quello che oggi accade è che per questa via si è ormai messo un pezzo di mondo che sente più forte l’esigenza di scrollarsi di dosso la politica e di sostituirsi ad essa, che non quella di affidarle una delega in bianco. E ciò è tanto più vero al Sud, dove non funziona più, o funziona sempre meno, il tradizionale riflesso filo-governativo di cercare nello Stato una forma di protezione perché in questi anni, complice la crisi, essa è venuta drammaticamente riducendosi.

Se questo è il clima, quanta difficoltà in più incontrano i partiti nella selezione del personale politico-parlamentare! Sono ancora costretti dentro la logica della politica come professione, e hanno un problema di ricandidature che ne ingolfa le liste, essendo ridotti gli spazi (e i seggi) a disposizione, ma d’altra parte sentono salire la richiesta di aprire alla società civile, che per la classe politica è un’ammissione quasi suicidaria.

Rimane allora da percorrere un sottilissimo crinale, fra l’abdicazione definitiva ai propri compiti e la più tetragona chiusura: due modi di accelerare la sconfitta, e di favorire un passaggio non privo di pesanti incognite. Lungo quel crinale ci si potrà forse muovere, senza precipitare da un lato o dall’altro, solo riuscendo ad individuare nuove sfide politiche, ideali e valoriali in base alle quali chiamare gli italiani a compiere le loro scelte. Altrimenti, non riuscendo a cambiare il gioco, l’unica scelta veramente dirimente apparirà quella di cambiare i giocatori. E in questo tutti i sondaggi confermano che il primato spetta ai Cinque Stelle.

(Il Mattino, 16 gennaio 2018)

Partiti al voto, ecco i programmi

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(Il 4 marzo si andrà alle urne per il rinnovo del Parlamento. Ma per quale politica voteremo? Il Mattino ha spulciato tra i programmi, ancora in bozze e in via di definizione, dei tre sfidanti diretti: dal lavoro al fisco, dalla giustizia ai migranti ecco le differenze fra M5S, Pd e Centrodestra. Mentre i Cinquestelle sfidano la casta e puntano allo sforamento del deficit, per i dem la campagna elettorale va centrata su occupazione e welfare. Collaudato lo schema di FI e Lega che fanno di fisco, giustizia e migranti i loro cavalli di battaglia. Intanto, si complica la corsa alla presidenza della Regione Lombardia dove Liberi e Uguali dice no al candidato del Pd Gori e acclama Rosati)

I programmi non sono il miglior viatico per le campagne elettorali, e nemmeno il modo migliore per riempire le urne, però qualche indicazione di fondo sull’impianto politico e culturale di una forza o di una coalizione politica possono darla.

Se quegli impianti esistono. Nel caso dell’attuale centrodestra, che pure sembra godere dei favori del pronostico, è piuttosto difficile dire dove abbia la sua impronta fondamentale. Non mancano certo alcune idee portanti, che sembrano tutte provenire dalle precedenti esperienze di governo (salvo essere mancate sul fronte dei risultati effettivi di governo), ma è ben poco chiaro quanto siano condivise dai due partiti principali, Forza Italia e Lega. A sentire Salvini, bisogna togliere di mezzo la legge Fornero. A sentire Berlusconi no. A sentire Salvini, bisogna uscire dall’euro. A sentire Berlusconi no. Più che un vero denominatore comune, il centrodestra sembra cercare la residua area di intersezione fra due insiemi di idee che si sono separati dopo la crisi del 2011 e la fine dell’ultimo governo Berlusconi. La Forza Italia ha una matrice liberale moderata; la Lega di Salvini una caratterizzazione populista e sovranista: mettere insieme questi diversi universi ideologici non è semplice. Al Cavaliere riuscì di farlo nel ’94, quando le distanze fra i partner erano ancora maggiori, in nome di un cambiamento radicale di scena politica e di una profonda rivoluzione fiscale. La prima fiche non può essere puntata un’altra volta, dopo quasi un quarto di secolo; la seconda invece sì, e Berlusconi sta infatti lanciando con forza l’idea, davvero dirompente, di una flat tax (al 15, al 20 o al 23%: ancora non si sa). Che sia una strada veramente praticabile, non una trovata estemporanea ma il perno di una ridefinizione del rapporto fra Stato e cittadini, beh: questa è tutt’altra faccenda.

I Cinque Stelle hanno due direttrici di fondo, lungo le quali viene formandosi la loro identità nero-verde: da un lato, il tema ambientale; dall’altro, la lotta alla speculazione finanziaria. Gli ambiti in cui infatti provano a costruire proposte di intervento incisivi sono questi due: la conversione ecologica dell’economia; la riforma in senso ‘nazionale’ del sistema bancario. Certo, la campagna elettorale Di Maio e i grillini la giocano su altre proposte: il reddito di cittadinanza (che costa un pacco di miliardi), l’abolizione della legge Fornero, la guerra senza quartiere alla casta della politica. Ma se si cerca qualche tratto ideologico più marcato, nei giri di frase dei Cinque Stelle, si trova questo: la finanza è cattiva, l’euro – così com’è – è cattivo, petrolio e carbone sono cattivi. Cattivi sono poi, oltre ai politici, anche i giornalisti (niente più finanziamento pubblico all’editoria), e cattivi infine gli sbarchi illegali di immigrati sulle nostre coste. In una mescolanza con cui si prova a rappresentare i diffusi umori antipolitici ma anche a intercettare quel che c’è di nuovo nel modo di organizzarsi dell’economia e della società (vedi l’attenzione al web, oltre all’ecologismo spinto), il Movimento Cinque Stelle non è più un’incognita completamente indeterminata. Ha anzi una base sociale sempre più riconoscibile nei giovani e nel ceto piccolo e medio, che Luigi Di Maio incarna perfettamente.

Quanto al partito democratico, ha un problema tutto diverso. Perché per un verso si sforza di dimostrare che merita il voto della sinistra – nonostante la spina nel fianco di Liberi e Uguali sia lì all’unico scopo di contestargliene il diritto – per altro verso però non può certo farlo rinnegando il lavoro svolto in questa legislatura. Che indubbiamente ha ricevuto il suo timbro dal governo Renzi. Ora: in nome di cosa Renzi ha governato? Della rottamazione della vecchia politica, delle riforme costituzionali, di una definitiva acquisizione di un solido impianto riformista. Paradossalmente, è però la parte più “politica” di questa eredità che il Pd non è in grado di rivendicare. È il suo significato politico-culturale che sembra essere andato perduto. Perché il Pd ha i suoi punti programmatici da segnare: sul fronte dell’economia, sul versante dei diritti civili. Manca però il collante ideologico. C’è la difesa del jobs act, c’è l’ancoraggio europeo, c’è lo ius soli nel programma: ma non c’è ancora la forza di convincere l’elettorato di centrosinistra che è quella la linea lungo la quale proseguire, se non vuole tornare indietro. E questa, alle soglie di un voto, non è certo la situazione più comoda.

(Il Mattino, 13 gennaio 2018)

L’Europa à la carte dei 5 Stelle

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Ora Luigi Di Maio pensa che non sia più il momento di uscire dall’euro. Non è ultimo dei repentini mutamenti di rotta del Movimento Cinque Stelle, e non sarà certo l’ultimo. Semplicemente, sta accadendo che per il Movimento la possibilità di andare al governo del Paese si avvicina, e le posizioni più dirompenti si mutano in più realistiche valutazioni di opportunità. Ieri bisognava lasciare l’euro, oggi non più. Ieri bisognava indire un referendum per far decidere gli italiani, oggi il referendum viene derubricato a “extrema ratio”: non una cosa che bisogna fare per rispettare religiosamente la sovranità del popolo – anzi: l’espressione diretta della sua volontà –, ma l’ultima delle strade che a malincuore un governo pentastellato percorrerebbe, se proprio nulla in Europa dovesse cambiare.

Si può leggere questo evidente cambiamento di linea politica in due modi: come una prova della definitiva maturazione del Movimento, della progressiva marcia di avvicinamento alle istituzioni e dello stemperarsi dei più accesi ardori populisti e antisistema, oppure come ennesima dimostrazione dell’inaffidabilità di una formazione politica, che riesce a dire tutto e il contrario di tutto, a giocare più di una parte in commedia, a mutare il proprio profilo a seconda delle circostanze, delle conveniente, dei sondaggi.

Di Maio giustifica questa svolta così: l’Europa del 2013 non è l’Europa del 2018. Il che è vero, naturalmente. Si può però ipotizzare che anche l’Europa del 2023 sarà diversa da quella di oggi. Oppure, senza aspettare tanto, che l’Europa del 2021, quella che dovrà dotarsi di un nuovo bilancio, sia ancora ben lungi dall’avere un profilo, e non è detto affatto che, quando l’avrà, somiglierà all’Europa che oggi Di Maio vede cambiata. Oppure ancora che l’Europa delle prossime elezioni europee, quelle del 2019, sarà diversa sia da quella delle precedenti elezioni del 2014, che, di nuovo, dall’Europa odierna. Cosa dobbiamo attenderci allora, dai Cinque Stelle, dinanzi a tutte queste scadenze? Quante svolte ci saranno ancora?

Il fatto è che l’ancoraggio europeo non può non costituire una scelta strategica fondamentale, durevole e di lungo periodo. In grado di reggere dinanzi ai cambiamenti di ciclo politico. Oggi Di Maio scopre una Germania più debole, per via delle difficoltà della Merkel nel formare un governo. Ma se, dopo il congresso dei socialdemocratici, le trattative in corso sfoceranno nella riedizione della Grosse Koalition fra Cdu e Spd, Di Maio cosa farebbe: tornerebbe a ventilare la possibilità di un’uscita dalla moneta unica? Mentre nota l’impasse politico in Germania, Di Maio, peraltro, non mostra affatto di accorgersi che in Francia è stato eletto Macron, sulla base di una forte vocazione europeista, rilanciata con accenti ispirati nello scorso settembre, con l’ormai celebre discorso alla Sorbona: su questo, il candidato premier dei Cinque Stelle non dice nulla, e dunque non fa capire se, referendum sull’euro a parte, ha in animo di condividere e sostenere l’impegno del Presidente francese per un rilancio del percorso di integrazione europeo.

In realtà, il referendum non è l’unica cosa che i Cinque Stelle dovrebbero mettere da parte, se volessero fare dell’ultima presa di posizione di Luigi Di Maio qualcosa di diverso da un furbesco appeasement con l’establishment, pronunciato per motivi principalmente elettorali.

Perché mentre Di Maio lascia scivolare molto sullo sfondo l’arma fine-di-mondo del referendum (che sarebbe solo consultivo, ma non consulti decine di milioni di persone se poi non vuoi fartene nulla di un tale consulto), i Cinque Stelle in Europa continuano a sedere nel gruppo politico guidato da un certo Nigel Farage, il leader dell’Ukip, fra gli attori principali della Brexit. Proprio la vicenda della collocazione nel Parlamento europeo è stata massimamente indicativa: prima corrispondenza di amorosi sensi con l’antieuropeista Farage, difeso a spada tratta contro la cattiva stampa di cui godrebbe immeritatamente; poi, per un attimo e con una giravolta davvero sorprendente, in realtà semplicemente opportunistica, con i liberali dell’ultraeuropeista Guy Verhofstadt: una posizione che più antipodale non si potrebbe. Quindi daccapo, come il figliuol prodigo, con il focoso leader britannico, insieme al quale i grillini continuano a votare, trovando nell’euroscetticismo il più ampio dei comuni denominatori disponibili a Strasburgo.

Forse l’unica cosa certa, in questo disinvolto ondeggiare, è che Di Maio non ha molta voglia di confrontarsi su questi temi, e preferisce sgombrare il terreno da insidie e polemiche, che distoglierebbero l’attenzione dell’opinione pubblica dai cavalli di battaglia del movimento. Col che però si dimostra che non è certo l’europeismo, e nemmeno l’antieuropeismo, la ragione per cui Di Maio vuole andare a Palazzo Chigi. Ma può la questione dell’integrazione europea rimanere ai margini del dibattito pubblico, o essere trattata.

(Il Mattino, 10 gennaio 2018)

Le necessità e i ricatti morali

Job 1944 by Francis Gruber 1912-1948

F. Gruber, Job (1944)

Forse le cose stanno proprio come le dice il senatore Falanga, che al ddl sull’abusivismo edilizio tiene molto e non vuol credere che si fermi proprio in dirittura d’arrivo: «È un provvedimento portato avanti da noi del centrodestra e dal Pd». Se è così, come non farsi venire il dubbio che a pochi mesi dalle elezioni non sia il miglior biglietto da visita, per i democratici, quello di approvare una legge sugli immobili abusivi insieme a Verdini e Berlusconi? Nel partito democratico – lo spiegava bene, l’altro giorno, Bruno Discepolo su questo giornale – è confluita, fin dalla sua nascita, una componente ambientalista che non si trova certo a suo agio con il provvedimento all’esame del Parlamento. Del resto, se tu, mentre adotti per legge criteri per stabilire un ordine di priorità negli abbattimenti, permetti anche che sfuggano alla demolizione le costruzioni già ultimate, sulle quali non sia già stata pronunziata una sentenza di primo grado, di fatto introduci un condono almeno parziale, e spingi anzi i proprietari a completare le opere in tutta fretta. In un Paese funestato dall’abusivismo edilizio, dal territorio fragilissimo e da rischi idrogeologici assai consistenti, non è proprio un bel segnale. Ma non lo è nemmeno lo “stop and go” di quest’ultima coda di legislatura, e i ripensamenti che si addensano attorno ad ogni singola mossa parlamentare. I democratici giocano sulla difensiva anche questa partita: se votiamo il ddl Falanga, dobbiamo spiegare al Paese perché riteniamo che sia un provvedimento ragionevole e di buon senso. Ma mentre faticosamente spieghiamo e ragioniamo, i Cinque Stelle grideranno che stiamo dalla parte dei furbi, che facciamo strame della legalità, che inciuciamo con il centrodestra. Loro faranno ancora una volta la figura degli onesti, a noi ci trasformeranno ancora una volta nel partito dei ladri e dei corrotti.

Ma la legge risponde effettivamente a un’esigenza di assoluto buon senso. Se le sentenze di demolizione si contano, in tutta Italia, a centinaia di migliaia (settantamila solo in Campania), se è da escludere realisticamente che a questa montagna di sentenze si possa dar seguito in tempi brevi, se di fatto gli abbattimenti procedono a singhiozzo, senza alcuna reale programmazione, secondo disponibilità di mezzi e risorse che variano da regione a regione, da comune a comune, ma che variano anche a seconda delle diverse sensibilità e volontà di magistrati, politici e pubblici ufficiali, non è ragionevole che il legislatore indichi almeno delle priorità, che si ponga il problema di stabilire cosa è più urgente? È davvero da mettere sullo stesso piano l’ecomostro sorto in un’area sottoposta a vincolo assoluto, e la prima casa tirata su da una famiglia a basso reddito? Io vedo, in realtà, una stretta analogia con un altro tema, che pure viene affrontato in maniera ideologica, e intorno al quale si è formato allo stesso modo un austero partito dell’intransigenza morale. Mi riferisco al tabù dell’obbligatorietà dell’azione penale, difeso con la nobile idea che tutti i reati, tutte le violazioni della legalità vanno ugualmente perseguite, ma che, nell’impossibilità di farlo effettivamente, consegna alle procure la più ampia discrezionalità, senza che la politica possa assumersi la responsabilità di indicare priorità.

In realtà, problemi sociali di così ampia portata come quello dell’abusivismo edilizio richiederebbero anzitutto che su di essi si esprimesse una chiara volontà politica. Pensare che tutto possa scaricarsi sui sindaci è illudersi, e non porta ad alcuna soluzione. L’ex sindaco di Licata, Cambiano, balzato mesi fa agli onori della cronaca per le minacce ricevute e le proteste dei suoi concittadini contro le demolizioni, ha mostrato bene il cappio che si stringe intorno agli amministratori: in certi territori, se dici che intendi demolire non prendi i voti e non sei eletto. Se invece mostri di voler riconoscere il problema della casa, passi subito dalla parte dell’illegalità. Per spezzare un simile circolo vizioso si può fare in due modi: tutti e due, però, richiedono una decisione politica, non un atteggiamento pilatesco. E dunque: o si dice che i voti non servono, si sospende la democrazia, si manda l’esercito e si procede manu militari; oppure si fa una legge che dia forza agli amministratori locali, che venga incontro almeno alle condizioni di maggiore difficoltà, se non proprio di necessità, e magari provi a cambiare gradualmente le cose, cominciando dai casi più macroscopici, e avviando al contempo una diversa politica della casa e del territorio. (E, certo, anche una diversa educazione alla legalità).

Il ddl sceglie questa seconda via. Il partito democratico l’aveva imboccata, lavorando ad aspetti migliorativi della legge (e, forse, si poteva lavorare di più). Ora però sembra prevalere nuovamente la paura di fare regali ai grillini, e il voto favorevole non è più scontato. Il merito del provvedimento si allontana, schiacciato dal peso di orientamenti puramente ideologici, e da considerazioni di politica politicienne: può il Pd votare questa legge con Forza Italia, oppure rischia di perdere la faccia di fronte a certi settori dell’opinione pubblica?  Domanda: ma il Pd non è nato per farla finita con questi insopportabili ricatti morali?

(Il Mattino, 3 ottobre 2017)

 

Se il voto spezza le vecchie identità

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F. Bacon, Three Studies of Lucian Freud (1969)

Vi sono due punti interrogativi dinanzi al sistema politico italiano, che proverà a misurarsi con essi nei prossimi mesi. Il primo riguarda la legge elettorale: quella che ci è stata consegnata dai pronunciamenti della Corte costituzionale e dal risultato del referendum del 4 dicembre non viene giudicata soddisfacente da nessuno degli attori politici in campo. Ma nessuno degli attori politici in campo sembra avere forza sufficiente per cambiare il sistema di voto. Sicché, al di là di piccoli aggiustamenti “tecnici”, è molto probabile che ci terremo un proporzionale con un premio di maggioranza fissato a un’altezza irraggiungibile (40%).

Il secondo interrogativo è rappresentato naturalmente dalle elezioni politiche della prossima primavera. Al confronto si recheranno forze politiche profondamente diverse da quelle che si sono misurate nel 2013. Le due principali forze politiche, di centrodestra e di centrosinistra, intorno alle quali è stato imperniato il confronto politico nel corso di tutta la seconda Repubblica hanno subito scissioni e lacerazioni che ne hanno mutato la fisionomia. L’appello che Berlusconi rivolge oggi ad Angelino Alfano ed a Giorgia Meloni non ha, nelle parole stesse del Cavaliere, il significato di una proposta politica pronta per affrontare il voto nazionale. Eppure Alfano e Meloni, nel 2013, stavano nella stessa coalizione, il Popolo della Libertà (si è persa memoria del nome). E in quella stessa coalizione c’era la Lega (però a guida Maroni, non ancora a guida Salvini), la cui traiettoria ha seguito tutt’altra linea da quella presa nel corso della legislatura dai centristi di governo.

Anche a sinistra le cose sono cambiate. Al tornante dei suoi dieci anni di vita, il Pd vede di nuovo spuntare alla sua sinistra quella molteplicità di formazioni che, nel progetto originario di Veltroni, dovevano essere superate dalla vocazione maggioritaria del nuovo partito. L’impresa non è riuscita. La forza centripeta di Renzi ha innescato spinte centrifughe anche fra i democratici, se persino il candidato premier del 2013, Pierluigi Bersani, milita oggi in un nuovo movimento, che galleggia fra il Pd e le altre piccole forze politiche che del Pd non vogliono più saperne. Grosso modo, si tratta di un’area che nel 2013 si raccoglieva sotto la bandiera della Rivoluzione civile di Antonio Ingroia: anche di questo nome si è persa memoria.

(L’unica cosa che non è cambiata è il Movimento Cinque Stelle. Il che si spiega ovviamente con il giudizio di estraneità, anzi di ripulsa, reso nei confronti degli altri, screditatissimi partiti e finanche della dialettica parlamentare. Ma anche lì qualcosa dovrà prima o poi cambiare, se i grillini vorranno tentare manovre di avvicinamento al governo del Paese).

Il secondo interrogativo è dunque: come è possibile ipotizzare che dopo il voto questo insieme di forze – così avventizio, frutto più della fortuna che di strategie precise – continuerà ad offrire la stessa fotografia che si presenterà agli italiani nella domenica elettorale? Certo, nei prossimi mesi, i tentativi di mettere mano al sistema elettorale – veri o fittizi che siano, soltanto declamati o anche praticati – proseguiranno. Non c’è solo la doverosa preoccupazione del Presidente della Repubblica per la tenuta del futuro Parlamento; c’è un evidente impasse in cui il Paese intero rischia di cacciarsi, per l’impossibilità di offrire una soluzione di governo all’indomani del voto. Ma guardiamo le cose in maniera rovesciata: se i partiti non sono in condizione di cambiare la legge elettorale, e se con questa legge ben difficilmente potranno assicurare stabilità e governabilità, non finirà con l’accadere il contrario, che cioè saranno i partiti a cambiare? Chi scommetterebbe, del resto, sulla resistenza nella lunga durata del quadro politico attuale, prodotto dal fallimento dei percorsi di riforma esperiti in questa legislatura, non certo dai suoi successi?

C’è però una differenza rispetto al passato. Tutte le legislature dell’ultimo quarto di secolo hanno conosciuto una stessa deriva verso la scomposizione di coalizioni faticosamente costruite per affrontare la prova del voto. La politica aveva le sue sistoli e le sue diastole, le fasi di avanzamento in cui l’accento era posto, per necessità elettorale, sull’unità, seguite dalle fasi di rilasciamento, in cui l’accento tornava indietro, verso la divisione. E tutti i capi di governo ne hanno fatto esperienza: Prodi e Berlusconi, ma anche, in tempi a noi più vicini, Letta e Monti. E infine Renzi, che in verità era riuscito a rimandare l’appuntamento con il Big Bang della frantumazione fino al giorno del referendum. Poi, liberi tutti.

Questi movimenti erano però gli spasmi di un sistema maggioritario rispetto ai quali i partiti riluttavano, e che quindi accettavano alla vigilia del voto solo per disfarlo il giorno dopo. Ora è il contrario: con una legge proporzionale, il moto avrà segno opposto, l’appuntamento con le urne esalterà le differenze, che il giorno dopo le elezioni bisognerà trovare il modo di superare. Ma per questo diverso andamento del ciclo politico nessuno dei partiti oggi in campo è preparato, e tutti tentano di allontanare da sé l’inconfessabile sospetto di voler “inciuciare” con gli altri (cosa invece richiesta dal sistema proporzionale). Bisognerà dunque farsi una nuova cultura politica, e non sarà semplice. E questo, a pensarci, è un terzo interrogativo, più grande ancora dei primi due: i partiti di centrodestra e di centrosinistra non vedranno ridisegnata in profondità la loro fisionomia, la loro identità e la loro stessa leadership da questa nuova necessità?

(Il Mattino, 13 agosto 2017)

Sud, no alla memoria inutile: il dialogo tra due intellettuali

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B. Newman, Who’s Afraid of Red, Yellow and Blue (1966)

[Quello che segue è il dialogo tra due intellettuali del Sud sulla proposta di istituire una Giornata della memoria sudista votata quasi a maggioranza dal consiglio regionale pugliese su proposta del movimento Cinque Stelle e con l’Ok del governatore Emiliano].

Massimo Adinolfi: «La proposta di istituzione di una giornata della memoria “atta a commemorare i meridionali morti in occasione dell’unificazione italiana” non sembra solo una boutade estiva. Non lo è perché da tempo è in atto un revival sudista, che si esprime nei modi più diversi: alcuni folcloristici, altri meno. Non lo è perché tocca i fondamenti di legittimazione della memoria pubblica nazionale. Non lo è perché agli inizi di luglio è stata avanzata in forma di mozione in seno al consiglio regionale della Puglia da una forza politica, il Movimento Cinque Stelle, che viene accreditata di consensi crescenti nel Paese. Non lo è, infine, perché, ben lungi dall’essere respinta,  è stata approvata a larga maggioranza, con il favore di quasi tutte le forze politiche, e anche quello del governatore Emiliano. Qual è la sua opinione, in merito?».

Gianfranco Viesti: «Mi sembra davvero un’idea infelice, presa con troppa leggerezza, forse stimolata dall’approssimarsi di un turno elettorale».

M. A.: «Io ho molte perplessità sulla sempre più frequente istituzione delle giornate della memoria, sulla proliferazione di leggi dal contenuto memoriale, spesso accompagnate dai relativi obblighi giuridici e morali, su certe modalità ufficiali di risarcimento delle vittime che sembrano voler trasformare il corso della storia in un triste seguito di pagine nere. Come se la storia non fosse altro che una macelleria di uomini e popoli. E come se l’unica posizione moralmente legittima fosse quella che si pone sempre solo dalla parte degli sconfitti.

Dietro a ciò vi sono, a parer mio, due tendenze culturali di fondo. Una l’ha individuata lo storico francese Hartog, nella sua riflessione sui regimi di storicità che corrispondono a modi diversi di vivere il rapporto col passato. Nella nostra epoca, affetta da “presentismo”, si ha sempre meno pazienza e disponibilità nei confronti della profondità storica, e sempre più la tendenza a trasformare la storia in un seguito di ricorrenze. A trasferire sul piano dei simboli ciò che andrebbe invece considerato sul piano dei processi storici effettivi. L’altra tendenza ha a che vedere con la fine dei grandi discorsi, delle grandi narrazioni, che comporta il venir meno di un’idea generale del senso dei processi storici. Prima con la storia si giustificava tutto. Ora siamo all’eccesso opposto, per cui nulla può essere più storicamente giustificato. Insomma, è come se fare l’unità d’Italia – uno dei più grandi risultati dell’età moderna – non rendesse oggi meno inaccettabili i fucili piemontesi puntati contro l’esercito borbonico.

Mi domando se vi sia ancora un terreno di legittimazione dell’unità italiana più ampio, più profondo e più forte di un mero bilancio economico, esprimibile in termini diversi da un computo delle vittime o delle perdite».

G. V.: «La ricerca storica sul processo di unificazione nazionale, così come sui tanti altri eventi del nostro passato, è certamente benvenuta. È bene portare alla luce anche gli eventi più controversi. Non sono uno storico e dunque ho una conoscenza di questi temi solo da lettore interessato. Non posso escludere che, specie nei primi decenni unitari, si sia proposta una lettura parziale degli eventi, anche nello sforzo di costruzione di un’identità nazionale in un paese in cui, per dirne una, erano ben pochi gli italiani in grado di capirsi parlando una lingua comune e non in dialetto. Bene, benissimo, quindi, ogni ricerca storica, e una discussione, su basi scientifiche, senza remore. Se il Consiglio avesse sollecitato questo, nessun problema: ma la giornata della memoria prende una posizione assai controversa. Tra l’altro, vi erano meridionali borbonici; ma tanti anti-borbonici. Per fortuna»

M.A.: «Se le pagine della storia sono tutte nere, e tutte grondano sangue, come si fa a distinguere le une dalle altre? Se ci fosse una giornata in memoria delle vittime dell’unificazione, proprio come vi è una giornata per le vittime della Shoah o per le vittime del terrorismo, non vorrebbe dire che tutte queste vittime sono state allo stesso modo offese da una stessa ingiustizia storica? Ora, francamente, non mi sembra che questo sia il caso. Un conto sono le ingiustizie o le violenze perpetrate in singoli episodi della vicenda (evidentemente: non più epopea) risorgimentale, che la storiografia ufficiale ha teso forse, in passato, a ridimensionare e che è giusto non dimenticare (ma esiste davvero una storiografia ufficiale? La ricerca storica, nel nostro paese, non è sufficientemente aperta, libera, plurale?). Ben altro conto è istituire una giornata della memoria al fine di presentare il processo di unificazione come un mito costruito dai vincitori per occultare una  forma di sopraffazione del Nord ai danni del Sud. Va bene che da tempo la storia non si fa più soltanto riunendosi attorno alle “urne dei forti”, ma questo vuol dire che dell’unità d’Italia il Mezzogiorno fu solamente vittima?».

G.V.: «L’ampia evidenza storica disponibile sul regno borbonico non giustifica particolari nostalgie. Non era l’inferno, comparato ad un paradiso sabaudo. Ma la ricerca converge ad esempio nel valutare come infimo, molto più basso che negli altri stati preunitari, fosse il livello di alfabetizzazione. Un divario, quello nell’istruzione elementare, che sará colmato solo dopo un secolo, e che peserà enormemente sul ritardo economico e civile del Sud. Lo stesso vale per la grande infrastrutturazione di trasporto.
Ancora, sia il processo di unificazione monetaria, sia la scelta del regime liberoscambista possono aver danneggiato l’economia del Sud. Così come alcune delle prime politiche unitarie. È giá all’inizio del Novecento che ne scrive uno dei più grandi italiani del secolo scorso, Francesco Saverio Nitti. Ma in lui non vi è alcuna nostalgia di un regno del Sud: ma la proposta di politiche nazionali, unitarie, più attente anche allo sviluppo del Mezzogiorno, in un quadro di crescita dell’intero paese. La ricerca storico-economica ha poi messo chiaramente in luce come il divario Nord-Sud sia, dopo l’unificazione, e ancora ai tempi di Nitti, relativamente limitato; e esploda invece ai tempi del fascismo, per non richiudersi se non lievemente fino ad oggi».

M.A.: «Terrei poi su un altro piano la discussione sui centocinquant’anni di storia unitaria, e sulle ragioni per cui l’Italia si presenta ancora come un Paese troppo lungo e diviso. Anche se fosse dimostrato – e io in verità credo lo sia – che le cause della arretratezza meridionale non sono tutte imputabili al Sud, questo non vorrebbe dire che dunque sarebbe stato meglio tenersi i Borboni, o che il Regno delle due Sicilie è stato un ineguagliato faro di civiltà. È su altre basi, del tutto diverse dal rivendicazionismo storico, che va riproposta la questione meridionale. Ed è vero, certamente, che accantonarla è servito a coltivare interessi politici ed economici precisi, durante tutto il corso degli ultimi venti-trent’anni. Ma a che serve soffiare sul fuoco separatista dei simboli anti-risorgimentali, o prendersi la soddisfazione di fare dei piemontesi dei brutti ceffi, e dei brutti ceffi dei briganti fare dei nobili Robin Hood?».

G.V.: «Non vi è dubbio che sia oggi diffuso e alimentato un forte pregiudizio antimeridionale. Una lettura a senso unico, aprioristica, della realtà italiana. Lettura pericolosissima sul piano civile. Ma che, ormai da almeno un ventennio, produce effetti concreti sulle politiche; a danno del Mezzogiorno. Lettura contro cui sono pochissime le voci che si levano, specie al di sopra del Po: come messo plasticamente in luce dai silenzi e dalle reticenze, se non dagli ammiccamenti, nei confronti del referendum lombardo-veneto del prossimo 22 ottobre, espressamente mirato contro i cittadini del Centro-Sud. Bene una reazione, anche forte. Ma personalmente non la baserei su mitologie di un passato felice, ma sulla concretezza dei diritti di tutti i cittadini italiani, qui e oggi. Sui fatti del presente e del futuro. Sarebbe stato auspicabile, ad esempio, un maggiore impegno dei consiglieri e dei vertici pugliesi, di centrodestra, pentastellati, del Pd proprio sui temi delle autonomie regionali e dei diritti di cittadinanza, piuttosto che per questa celebrazione. Il punto è che richiederebbe impegno, discussione severa all’interno del proprio schieramento, e non una facile passerella».

M.A.: «Infine, vorrei porre una domanda sul significato di una memoria condivisa. Questo tema è stato posto in Italia a proposito del discrimine fascismo-antifascismo, e a quel riguardo Giorgio Napolitano, da Presidente della Repubblica, ha più volte messo in guardia dalle “false equiparazioni e banali generalizzazioni”. Non è lo steso avviso che bisogna tenere nei confronti delle vittime meridionali dell’unificazione, per evitare di dare al 1861 il significato di una morte della patria meridionale?».

G.V.: «Gli stessi movimenti politici che vogliono il referendum lombardo, ci propongono invece una giornata della memoria pugliese, o inverosimili referendum campani e calabresi, inseguendosi a vicenda. È certamente ricerca di consenso spicciolo in un elettorato scettico e incerto, che si cerca di accarezzare con questi richiami. Spiace coinvolga alcune Istituzioni, e i loro vertici. Ma è anche spia pericolosa dell’incapacità di proporre agli italiani ragionevoli profezie, di sollecitare la loro fiducia su percorsi possibili, di chiamarli a scelte alternative. Finite le grandi narrazioni, si è precipitati nel giorno per giorno. Non sapendo parlare a tutti gli italiani, si solleticano egoismi o orgogli locali: un gioco molto pericoloso».

(Il Mattino, 8 agosto 2017)

La sfida tra i due mondi che rottamano il ‘900

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Che i sondaggi ci prendano o no, la sfida presidenziale di oggi, in Francia, ha giustamente l’attenzione di tutta Europa. Può darsi sia scontato l’esito; di sicuro non lo è il significato. Non lo è neanche se Macron dovesse vincere con largo margine la sfida e se, col senno di poi, potremmo dire di avere sovrastimato il pericolo lepenista. Con Macron vince infatti (se vince) una cosa nuova, che non c’era nel panorama politico francese fino a due anni fa. Basta questo, per lustrarsi bene gli occhi e domandarsi se non stiamo voltando definitivamente la pagina del ‘900, la pagina della grande politica, dei grandi partiti di massa, del grande movimento operaio. Dopo aver chiuso con il comunismo, l’Europa chiude anche con il socialismo democratico? Forse sì. È difficile trovare, nel panorama europeo, qualcosa di meno somigliante a Macron del Movimento Cinquestelle, in Italia. Eppure, alla domanda cosa siamo, Macron risponde sul suo sito: un popolo di marciatori, un movimento di cittadini. Zero onorevoli. Sembra grosso modo significare: non c’è bisogno di mettere i cittadini dentro la scatola di un partito. Del resto, la prima delle ragioni che sostengono la campagna per le presidenziali è così formulata: «Emmanuel Macron è diverso dai responsabili politici che lo hanno preceduto: in passato ha avuto un vero lavoro, nel settore privato e nel settore pubblico». È dunque un titolo di merito la discontinuità rispetto ai politici del passato e ai politici di professione: Macron non è né l’uno né l’altro. Quanto alle altre ragioni, sono di questo tenore: Macron propone di ridurre di un terzo il numero dei parlamentari (già sentita?), sa di cosa parla, non deve la sua fortuna politica a nessun’altro che non sia lui, sa riconoscere una buona idea anche se viene dal suo avversario politico, che non attacca mai sul piano personale. La competenza è evocata solo per dire che Macron saprà rimettere in sesto l’economia del Paese. Per il resto, c’è un riferimento non al mondo del lavoro, alle sue organizzazioni o alla sua rappresentanza ma ai salari: Macron promette di ridurre il cuneo fiscale e di pagare di più le ore di straordinario. Tradurre questo profilo nella figura di un politico di sinistra, di un socialista mitterandiano o dell’ultimo erede del Fronte popolare di Léon Blum è impossibile. Macron non rottama la vecchia sinistra soltanto, rottama il Novecento e i grandi quadri ideologici che lungo tutto il secolo scorso alimentavano lo scontro politico in Europa.

Non è un caso che proprio su questo terreno Macron ha cercato i punti deboli di Marine Le Pen. Certo: da un lato c’è il suo europeismo, dall’altro lato, c’è invece profonda diffidenza non solo verso l’Unione europea, ma verso tutto ciò che va oltre la dimensione dello Stato nazionale. Dal lato di Macron c’è una profonda fiducia nell’ordine economico internazionale e nella sua capacità di futuro; dal lato della Le Pen c’è invece una critica aspra nei confronti di quella specie di dittatura finanziaria che sarebbe il precipitato delle politiche neoliberali imposte da Berlino e Bruxelles. Dal lato di Macron resiste il vocabolario dell’accoglienza e della solidarietà nei confronti dei migranti; dal lato di Marine Le Pen c’è sciovinismo e islamofobia, per cui la Francia viene innanzi a tutto e gli stranieri, specie se musulmani, è meglio che non vengano proprio. Queste sono grandi linee di divisione lungo le quali si definisce con nettezza la differenza di identità politica e di proposta programmatica dei due candidati. Ma Macron ci aggiunge la differenza fra il nuovo e il vecchio, una carta che, quando è possibile (e lo sarà sempre, finché non si consoliderà un nuovo quadro politico), viene giocata con grande profitto. E così, mentre dietro Macron non c’è nulla, e  quello che lui promette e di cui discute è solo avanti a lui, dietro la Le Pen ci sono ancora le risorse simboliche della destra estrema, i fantasmi del passato, il radicamento nella Francia profonda, una certa cultura del risentimento, e insomma: quello che rappresentava il vecchio patriarca Jean Marie, fondatore del Front National, dal quale Marine Le Pen, l’erede politica, non si sarebbe mai staccata, nonostante la strategia di «dediabolizzazione» sventolata in questi anni.

Così, al dunque, rimangono due le France che vanno al voto: quella aperta al mondo, progressista, liberale, modernizzante, tendenzialmente cosmopolitica e dal vivace spirito urbano, e quella invece diffidente verso lo spirito di apertura, che agita sentimenti di rivalsa: dei «veri» francesi contro gli immigrati, delle periferie contro i palazzi del potere, dei perdenti della globalizzazione contro i pochi che se ne approfittano, delle persone in carne e ossa contro le gelide astrazioni del capitale, della tecnica e del denaro.

Ce n’è abbastanza per allestire nuovi conflitti e nuove linee di frattura. Ma il lessico della politica europea deve essere necessariamente reinventato.

(Il Mattino, 7 maggio 2017)

Due pesi due misure e un avviso

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Si è parlato di ultimatum, ma la situazione in cui si è infilato il Movimento Cinquestelle, a Roma, somiglia invece a un gioco «lose-lose»: comunque ti muovi, perdi. Perdi tu, e perde Virginia Raggi. Riuniti in un conclave che, per l’ennesima volta, non ha più nulla dello streaming delle origini, i capi del Movimento dovevano decidere se ritirare il simbolo che sei mesi fa aveva espugnato il Campidoglio, promettendo una rivoluzione che non è mai iniziata, o commissariare il sindaco, pazienza se questo avrebbe comportato il ridimensionamento della sua figura e una aperta sconfessione del suo operato.

La prima opzione equivaleva ad ammainare la bandiera a Cinquestelle dai colli fatali di Roma. Che se poi l’Amministrazione fosse caduta per l’indisponibilità dei consiglieri a proseguire fuori dall’orbita del Movimento (come invece è accaduto a Parma, con Pizzarotti), sarebbe stato persino meglio. I pentastellati avrebbero potuto dire, in tale ipotesi, che loro sono e rimangono diversi, che loro non accettano compromessi, che loro ci mettono un secondo a cacciare chi viola i principi del Movimento, che loro non guardano in faccia a nessuno. Tutto ben detto, salvo che la via d’uscita sarebbe stata la più clamorosa sconfitta per i Cinquestelle, che sulla Raggi alfiere del rinnovamento avevano puntato tutte le loro fiches. È illusorio, infatti, pensare che Grillo possa fare con la Raggi quello che maldestramente ha tentato di fare la Raggi con Marra: come lei ha detto che in fondo era solo uno dei dodicimila dipendenti del Comune, così Grillo e i suoi avrebbero dovuto provare a dire che in fondo la Raggi non è che uno degli ottomila sindaci d’Italia. La Raggi si è scusata per aver scelto Marra: sarebbe bastato che Grillo si scusasse per aver scelto la Raggi?

La seconda opzione, quella per la quale Grillo si è risolto, al termine di un vertice fiume, punta a debellare il virus che ha infettato il Movimento, – per usare l’espressione impiegata da una personalità di punta dei Cinquestelle romani, Roberta Lombardi –, allontanando, dopo l’arresto del fidatissimo Marra, anche gli altri uomini sui quali Virginia Raggi ha puntato: il vicesindaco Daniele Frongia e Salvatore Romeo, capo della segreteria politica. L’ipotesi è insomma che la via d’uscita sia spegnere il raggio magico, e mettere definitivamente il sindaco sotto stretta tutela. In realtà, avevano già provato a fare una cosa del genere: con il contratto che la candidata aveva dovuto firmare (con tanto di penale in caso di «danno d’immagine» al Movimento), e con la costituzione di un mini-direttorio sulle rive del Tevere, ben presto però sciolto per manifesta inutilità. La Raggi infatti aveva orgogliosamente rivendicato la propria autonomia. La quale però, com’è di tutta evidenza, si fondava proprio sugli uomini finiti nel mirino delle indagini. Dove, d’altra parte, avrebbe dovuto andare a prendere una classe dirigente pentastellata? I grillini non ce l’avevano, e forse aveva ragione un’altra esponente di peso, Paola Taverna, quando disse (per paradosso ma non troppo) che a Roma sarebbe stato molto meglio perdere: sta di fatto che il sindaco ha pescato nel giro delle sue amicizie, dei suoi rapporti personali, professionali, anche per mantenere un minimo di indipendenza. Partita col piede sbagliato, in mezzo a mille incertezze, tra assessori nominati e poi revocati, assessori dimessi e ora anche dirigenti arrestati, la possibilità che la Raggi continuasse a fare di testa sua e che il Movimento la seguisse compattamente era già del tutto tramontata. Ma ora commissariare il sindaco, chiedere e ottenere la testa dei suoi fedelissimi, non farle fare più un passo senza l’approvazione di Grillo (o del suo Staff, o di Casaleggio, o del direttorio nazionale, o dei parlamentari romani, o dei presidenti pentastellati dei municipi cittadini, oppure di tutti costoro messi insieme) significa comunque esporsi al rischio che, alla prossima tegola, se ne venga giù tutto il tetto del Campidoglio, e che il Movimento intero, non solo la Raggi, ci finisca sotto. Perché le procedure con le quali ha proceduto alle nomine sono tuttora sotto la lente dei magistrati: cosa succederà allora se domani arrivasse al primo cittadino un avviso di garanzia per abuso d’ufficio? Nel contratto, il «danno di immagine» è quantificato per la modica somma di 150.000 euro, e a quanto si sa la Raggi, al primo stormir delle fronde, avrebbe chiesto un parere legale circa l’esigibilità di quella cifra. Ma a parte la vile pecunia: il danno politico?

Stretto fra queste due opzioni, Grillo ha deciso: commissariamento. Romeo si dimette, Frongia non fa più il vicesindaco e mantiene solo le deleghe. E pure il fratello di Marra se ne va. Il tutto viene rubricato sotto la voce «segno di cambiamento», come se la giunta Raggi non fosse in piedi da soli sei mesi, e il problema non fosse casomai quello di durare, essendo cambiata la squadra di governo già troppo in così poco tempo. Ma tant’è: anche i grillini scoprono il politichese e la realpolitik.

E se poi la Procura notificasse davvero qualcosa, nei prossimi giorni o nelle prossime settimane? Ecco la risposta di Grillo, che merita di essere letta per intero, e, quasi, di essere lasciata senza commento: «A breve defineremo un codice etico che regola il comportamento degli eletti del MoVimento 5 Stelle in caso di procedimenti giudiziari. Ci stanno combattendo con tutte le armi comprese le denunce facili che comunque comportano atti dovuti come l’iscrizione nel registro degli indagati o gli avvisi di garanzia». Definiranno un codice etico. Tradotto: fino a ieri un avviso di garanzia comportava dimissioni; da oggi, per i nostri, cominceremo a parlare di atti dovuti e ci riscopriremo garantisti. Contro gli altri continuiamo a strillare in piazza «onestà! Onesta!», per i nostri gridiamo invece al complotto e ce la prendiamo con quelli che ci vogliono fermare. Due pesi, due misure, due morali. Se la contraddizione non esplode prima e arrivano presto le elezioni, magari Grillo la sfanga, ma Roma no.

(Il Mattino, 18 dicembre 2016)

 

 

Uno vale uno, ma il comico vale per tutti

immagineC’è una bella metafora di Aristotele, che viene in mente leggendo di queste giornate di passione del Movimento Cinque Stelle a Roma. Che continuano: stavolta l’amaro calice delle dimissioni devono berlo i componenti del mini-direttorio che avrebbero dovuto affiancare Virginia Raggi nelle scelte più rilevanti della nuova amministrazione capitolina. Sembra scritto in neo-lingua: tutto bene, compito svolto, mollate i pappafichi, noi restiamo a terra mentre la nave comincia la sua navigazione. In realtà, ancora nulla è tornato al suo posto. Il nuovo assessore al bilancio, De Dominicis, non ha nemmeno fatto in tempo a insediarsi che ha già dovuto rinunciare: risulta infatti indagato dalla procura per abuso d’ufficio, e così, per la Sindaca che poche ore fa lo ha nominato, non ha più i requisiti. La giunta, dunque, non è ancora al completo.

Intanto vacilla pure il gran Direttorio (in realtà un duumvirato) di Di Battista e Di Maio: non c’è solo il sindaco di Parma, Pizzarotti, che lo vorrebbe dimissionare; anche fra i parlamentari e nella base aumentano le perplessità e le critiche. Grillo e Casaleggio avevano rinunciato al sacro principio dell’«uno uguale uno», e del «siamo tutti portavoce» perché non è così che funziona in realtà, e perché anche un Movimento retto da un non-Statuto con una testa in Liguria (Grillo) e un’altra in Lombardia (Casaleggio), ha bisogno di un’ossatura organizzativa. Il peso dei big del Movimento è allora cresciuto, e di pari passo è venuto scemando il ruolo della Rete, ridotto a rumore di fondo che si ingrossa solo nelle giornate di tempesta. Ma l’infelice gestione del caso Roma sta mettendo a dura prova la struttura direttoriale, per la semplice ragione che essa è priva di un’autentica legittimazione: si fonda infatti sul principio della nomina, pur non essendo scritto da nessuna parte ed essendo anzi contrario allo spirito «dal basso» del Movimento che i dirigenti pentastellati debbano essere, tutt’al contrario, nominati «dall’alto».

Grande è dunque la confusione sotto il cielo. Se Grillo non si stuferà, se come un grande Timoniere non deciderà di bel bello di bombardare lui il quartiere generale, sarà difficile che il Movimento trovi presto un punto fermo.

Così viene in mente la metafora aristotelica dell’esercito in rotta: le fila che disordinatamente si rompono e il fuggi fuggi generale. A un certo punto, però, qualcuno si arresta, non indietreggia più. Qualcun altro allora gli si fa accosto e poco a poco si costruisce una nuova linea difensiva. Aristotele usava la metafora per spiegare la nascita del concetto, ossia: com’è che a un certo punto ci si raccapezzi un po’. Per i Cinquestelle è un po’ più dura che per l’esercito di Aristotele, perché la rotta avviene in una terra incognita: non solo o non tanto per l’inesperienza politica o amministrativa, ma perché mancano persino i luoghi dove questo debba avvenire: nella residenza genovese di Grillo o in quella al mare? Nell’albergo romano deciso all’ultimo minuto o nel retropalco di un comizio? In un ufficio di Montecitorio o negli uffici della Casaleggio e Associati? Il movimento ha casa in Rete, così una casa vera non ce l’ha. E non ha dei veri organi interni. Probabilmente nessuno rimpiange i congressi, le assemblee nazionali, i comitati centrali e gli uffici politici di una volta. Nessuno prova più un brivido se sente parlare dl dispositivo di una commissione regionale di controllo, o dei provvedimenti di una segreteria di federazione: i partiti sono stati liquidati da un pezzo. Ma lo svolgimento della vita interna non sembra proprio che ne abbia guadagnato. Può darsi che l’iniziativa presa dal Pd, di stendere una legge sui partiti in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione,non andrà in porto, ed è nota, peraltro,la ragione per cui quella legge non è mai stata scritta: per timore che, essendovi una legge, la lotta politica interna potesse essere decisa da qualche ricorso al magistrato di turno. Ma resta un impressionante deficit di democraticità in tutte le formazioni politiche (bisogna dirlo: proprio il Pd, che tiene ancora congressi e primarie, fa eccezione), l’assenza di chiare procedure di autorizzazione, e un’inconsistenza sul piano organizzativo e gestionale preoccupante. Naturalmente c’è stato e c’è ancora un modo per coprire tutti questi difetti, ed è il ricorso al leader. È così, dopo tutto, che il centrodestra tiene ancora botta: grazie a Berlusconi (pur essendo, in verità, molto più dell’esercito di Silvio), ed è così che il M5S ha sin qui funzionato: grazie a Grillo (pur essendo, senza di lui, molto meno di quello che appare nello schermo virtuale della Rete)

Ma allora ci vuole almeno che il comico genovese salga su un predellino, come il Cavaliere, e dica come si fa o non si fa, consumando così anche le ultime ambizioni di autonomia dei piccoli candidati in pectore che cercava di coltivare nel Direttorio: i Di Battista e i Di Maio, appunto.Un colpo, forse, finirà allora davvero per cadere sul quartier generale, e una bella rivoluzione culturale restituirà definitivamente al Movimento la sua vera natura anti-istituzionale.

(Il Mattino, 9 settembre 2016)

Quarto, la giravolta del sindaco

Acquisizione a schermo intero 10022016 204442.bmpLa storia dei 150.000 euro di multa per l’eletto che, violando le regole, procura un danno d’immagine al Movimento sembra uscita da una caricatura di Crozza. E invece è uscita dal codice di comportamento dei candidati a Cinque Stelle al Campidoglio. Difficile sapere, però, quando vi è entrata: prima o dopo il colpo di scena di Quarto, dove il sindaco Capuozzo ha ritirato le dimissioni decidendo di rimanere in sella con un’altra maggioranza, o semplicemente con chi ci sta? Forse la premiata ditta Grillo&Casaleggio deve aver pensato che, certo, se Rosa Capuozzo avesse dovuto sganciare un pacco di euro ci avrebbe pensato su mille volte di più, prima di contraddire il verbo grillino. Quindi è deciso: multe salatissime a chi disobbedisce, in vista di chissà quale altra pena – pecuniaria, fisica o spirituale – che metta ferrei vincoli là dove la Costituzione italiana non li prevede.

Per l’articolo 67 della nostra Carta, infatti, non c’è vincolo di mandato, e così, per dirla con le auree parole con le quali Beppe Grillo salutò l’inizio di questa legislatura, finisce che l’eletto fa «il c…che gli pare».

Ma quando queste idee hanno cominciato ad entrare in circolo? In realtà, dacché esistono i Parlamenti moderni e la democrazia rappresentativa. Non sorprenderà tuttavia scoprire che il più inflessibile propugnatore del vincolo di mandato è stato quel furente giacobino che rispose al nome di Maximilien de Robespierre. In testa (finché, almeno, la ebbe sulle spalle) Robespierre aveva un paio di idee fisse che si ritrovano pari pari nel nostrano Movimento a Cinque Stelle. La prima riguarda la rieleggibilità: per l’Incorruttibile (così era soprannominato), un mandato basta e avanza. Allo stesso modo, una delle prime battaglie di Grillo è stata quella relativa alla limitazione del numero dei mandati: due, non di più. Meno severità e rigore, ma stesso proposito: infragilire i processi politici e costituzionali, per decapitare (metaforicamente, ma non solo) la classe dirigente e proporne a furor di popolo il rinnovamento completo. L’altra idea meravigliosa, che produce gli stessi effetti, riguarda appunto il mandato imperativo: l’eletto deve essere ridotto a un semplice delegato, e non deve ricevere nessun affidamento di cui non sia chiamato a rispondere non già di fronte al corpo elettorale, ma dinanzi al Tribunale del popolo (nel caso di Robespierre) o allo Staff di Beppe Grillo (nel caso del recente regolamento romano).

Certo, i grillini hanno buon gioco nel fare il conto dei parlamentari che cambiano casacca. Effettivamente, moltiplicarne il numero per 150.000 farebbe un bel gruzzolo. Ma un simile ragionamento ha il torto di saltare a piè pari il problema, che riguarda non già la coerenza o la furfanteria personale, e neppure solo i costumi parlamentari nostrani ma, più in generale, la debolezza di partiti e culture politiche. Compresa quella grillina, qualunque essa sia, visto l’elevato numero di deputati e senatori che hanno lasciato il Movimento, nonostante il muro di carte bollate, codici e regolamenti costruito dal caro (nel senso di costoso) leader.

Altra cosa è la crisi del paradigma rappresentativo in sé e per sé, che regge le sorti della politica moderna da Thomas Hobbes in poi. Tema vasto, molto più vasto di meetup e streaming grillini (a proposito: che fine han fatto? Com’è che si è passato dalle dirette web ai gruppi chiusi sui social network?). Difficile però a dirsi come possa essere più democratico ricevere una lettera in cui un non meglio precisato «Staff» stabilisce chi è dentro e chi è fuori, oppure chi deve sganciare centinaia di migliaia di euro e chi no. La democrazia parlamentare senza vincoli di mandato ha molti difetti ma ha almeno un pregio: rafforza la posizione del parlamentare dinanzi al suo capo. È infatti il capo che annoda i vincoli, non il popolo. È il capo che giudica e manda (le lettere). Rispetto alla democrazia di rito grillino, la democrazia parlamentare senza vincoli di mandato è più difficile che si rovesci in autocrazia.

L’unico partito più o meno strutturato che c’è su piazza, il Pd, questa volta ha dunque ragione nel presentare in Parlamento una proposta di legge, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, che risponde all’esigenza di dettare pratiche democratiche trasparenti all’interno dei partiti. Con tutti i suoi difetti, e nonostante la forte presa personale di Renzi sul partito, non si può dire dei democratici meno che mandino lettere per espellere o multare questo o quello in base all’arbitrio di uno solo (o del suo “Staff”). Se mai, al  Pd si deve chiedere di avere più coraggio, e mettere mano anche alla materia dei rapporti con le lobbies. Le quali, quando operano nell’oscurità, hanno una capacità di corruzione di gran lunga superiore a quella che possono esercitare quando esercitano alla luce del sole la loro pressione. Se la pressione, infatti è visibile, il cittadino avrà un elemento in più per giudicare il comportamento partitico o parlamentare. Sarà più chiaro chi vuole cosa, e per chi vota sarà maggiore l’onere di indicare le ragioni del proprio voto.

L’onere politico, intendo, non quello finanziario che Grillo&Casaleggio si propongono di addossare ai voltagabbana. Ma, a pensarci, che razza di consiglieri si propongono di selezionare, se considerano che i loro comportamenti possano essere imbrigliati con una multa?

(Il Mattino, 10 febbraio 2016)

I diktat del comico e il silenzio dei Cinque Stelle

E così Beppe Grillo si è accorto che Stefano Rodotà ha ottant’anni. Nientemeno! Al tempo delle favolose quirinarie, quando il popolo della Rete (o per meglio dire una sua molto limitata sottosezione, visti i numeri) lo aveva scelto, dopo Milena Gabanelli e Gino Strada, come candidato del Movimento 5 Stelle, le ottanta primavere del giurista romano erano passate quasi inosservate. Indubbiamente Rodotà porta bene i suoi molti anni.  Così la Rete l’aveva «miracolato», come si esprime oggi Grillo, l’autore/attore di tutti i miracoli del Movimento. Era il profilo di giurista democratico, era la battaglia per il referendum sull’acqua, era la sensibilità civile e l’attenzione al tema dei diritti, era l’intransigenza morale  – erano tutte queste cose a contare allora, in quel tempo lontanissimo (lo scorso aprile) in cui i parlamentari grillini lo avevano volentieri adottato, chiedendosi stupiti come fosse possibile che il Pd, invece, non volesse votarlo. Dalle parti dei democratici nessuno rispose sprezzantemente che Rodotà altro non era che un «ottuagenario miracolato». Ci voleva Grillo, perché si usasse un simile tono. E ci voleva soprattutto l’intervista rilasciata da Rodotà al Corriere della sera ieri, perché il comico genovese mostrasse ancora una volta di che pasta sia fatta la dialettica politica e la discussione pubblica in seno al Movimento (o semplicemente sul suo blog): di colpo un illustre giurista, degnissimo candidato alla Presidenza della Repubblica, è divenuto il vecchietto fortunato che ha trovato per terra il biglietto vincente alla lotteria delle primarie.

I parlamentari grillini lo avevano adottato, ho scritto. E ho scritto male, perché i cittadini deputati del movimento 5 stelle si offendono se li si chiama «grillini». Loro non sono «grillini», perché hanno tale e tanta autonomia di pensiero e di azione, che non subiscono i diktat del capo, che ignorano le scomuniche che piovono sul blog, che discutono la linea e quando occorre mettono Grillo in minoranza. E, se credono, si rifiutano persino di mostrare gli scontrini agli occhiuti capigruppo. Perciò ora, dando mostra di feroce spirito critico e completa indipendenza di giudizio, diranno per esempio che al tempo delle votazioni Rodotà non aveva compiuto ancora ottant’anni, o che non si usano certe espressioni proprio nel giorno del suo compleanno, che non è affatto bello. Oppure che loro non credono per nulla ai miracoli. Quanto però al fatto di dire che Grillo sbaglia, e sbaglia gravemente, questo è proprio quello che nella turpe intervista ha detto Rodotà, e che dalle parti del movimento iperdemocratico di Grillo nessuno osa dire.

Rodotà invece ha dichiarato, con modi, peraltro, assolutamente garbati, che Grillo sbaglia quando dà la colpa agli elettori per la sconfitta alle amministrative, o quando sostiene addirittura che non è vero che il Movimento ha perso, hanno perso tutti gli altri e lui solo ha vinto. E sbaglia quando non comprende la differenza fra la Rete e il lavoro parlamentare, o quando dice ai deputati che non tocca elaborare strategie, bensì – si suppone – dare semplicemente esecuzione alle direttive del leader. Sbaglia pure quando nega loro l’esercizio della funzione parlamentare senza vincolo di mandato – come dice invece la Costituzione -, o quando rifiuta il confronto con le altre forze politiche. In effetti non c’è male, come sequenza di errori.

Ora. però, come può un movimento che si fonda esclusivamente sul verbo di Grillo, che espelle chi osa presentarsi davanti alle telecamere (ma al contempo si lamenta per la mancanza di attenzione da parte dei media tradizionali: è il caso del candidato romano del Cinque Stelle), o che manda mail per stanare la spia che si annida in seno al gruppo (è il caso, a quanto pare, della «portavoce» Lombardi), come può un movimento che offre questi modelli di comportamenti politici, sopportare l’intervista puntuta di un agguerrito ottuagenario? Semplicemente non può. Può invece deridere, disprezzare, insultare, rinnegare. E tutto questo può fare, come Grillo fa, in nome della democrazia diretta e della partecipazione (hai visto quanti sono i commenti sul blog?), che però si rovescia sistematicamente nel suo opposto: nella voce unica e solitaria del Capo, che nessuno può permettersi di contraddire, nella negazione di ogni accenno di critica, nella derisione come modalità di comunicazione quasi esclusiva, nel controllo totalitario esercitato su tutte le espressioni del movimento, a cominciare dal marchio del movimento per finire al mitico scontrino.

Ma chissà: forse, dopo questo ennesimo, sgangherato exploit, qualcuno comincerà a rendersi conto, tra i Cinque Stelle, che un insulto, anche reso in streaming, resta pur sempre un insulto.

Il filosofo grillino spara con le parole

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Non sarà l’ideologo del Movimento Cinque Stelle, però Paolo Becchi è perlomeno filosofo, e conosce quindi l’importanza delle parole. Sa perciò quel che dice, quando dice: «Se qualcuno tra qualche mese prende i fucili non lamentiamoci, abbiamo messo un altro banchiere all’Economia». Ora i deputati di Grillo hanno preso le distanze; Grillo stesso ha chiarito che Becchi non rappresenta il Movimento, perciò non proporremo alcuna interpretazione del rapporto che queste parole intrattengono con la retorica che il comico genovese ha messo in campo dal Vaffa Day in qua, a colpi di «Siete tutti morti!» e «Arrendetevi! Siete circondati!». Però prendiamo quelle parole esattamente per quel che dicono. Esse dicono che se il Presidente della Repubblica nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, un alto dirigente della Banca d’Italia al Ministero dell’Economia, è naturale, è nell’ordine delle cose che la gente si armi e spari. E quando accadrà, nessuno avrà il diritto di lamentarsi o di recriminare, perché l’una cosa è stretta conseguenza dell’altra. Questo dice Paolo Becchi, filosofo del diritto, il quale sa che la rivoluzione non è un pranzo di gala e che non si fa nessuna rivoluzione senza una buona razione di violenza armata.

Ovviamente, da un filosofo uno si aspetterebbe anche un briciolo di coerenza fra quel che dice e quel che fa. Ma il caso di Paolo Becchi è singolare: un ideologo della rivoluzione che, con la barba filosofica d’ordinanza, accetta volentieri comparsate in tv non s’era infatti visto ancora, sicché le velleità sovversive del professore finiscono facilmente per apparire semplici bizzarrie senili.

Le parole, però, restano di una gravità assoluta, anche se chi le ha pronunciate non finisse di coprirsi di ridicolo. Quelle parole suonano infatti minacciose per la democrazia stessa, non soltanto per il ministro Saccomanni o i suoi predecessori. La democrazia è, per essenza, il luogo della parola. Più precisamente è quel luogo in cui gli uomini accettano di regolare in forma pacifica, nel confronto verbale e nella forma rappresentativa della dialettica parlamentare, i conflitti di potere. Dopodiché essa concede a tutti il diritto di parola. Proprio a tutti, si potrebbe aggiungere: persino al professor Becchi e alle sue contundenti intemperanze, anche se queste si collocano sul suo bordo estremo, dal momento che si fanno interpreti, quando addirittura non caldeggiano, la violenza che è agli antipodi della politica come pratica delle parole.

Un altro filosofo un po’ più autorevole di Becchi, un certo Giorgio Federico Guglielmo Hegel, diceva che purtroppo al giorno d’oggi (e sotto questo aspetto la sua attualità – si badi – è la nostra stessa attualità, dal momento che noi come lui pensiamo la politica dopo l’esplosione rivoluzionaria del 1789 e la nascita della modernità politica), al giorno d’oggi ciascuno, come sta in piedi e cammina, così è convinto di poter intendersi di tutto e su tutto sentenziare. Così si spiega pure un Paolo Becchi che prende la parola per infiammare gli animi.

Ora, Hegel non era certo un campione di democrazia, e anzi la sua filosofia del diritto fu giudicata da qualcuno una giustificazione «scientificamente fondata» dello Stato di polizia. Ma Hegel in realtà ne sapeva dello Stato e delle forme di mediazione richieste dal suo funzionamento. E anche se non si può cercare in lui l’esaltazione della democrazia liberale e dei diritti dell’individuo, vi si può trovare il problema, di come cioè possa tenersi saldo un ordine politico nonostante l’inevitabile difficoltà che passi per pensare, e per libero pensare, pure quello del professor Becchi.

La democrazia deve quindi la sua legittimazione, come forma politica e non semplicemente come contenitore dei diritti fondamentali dell’individuo, alla capacità di «affermare il vero nelle pubbliche leggi». Così diceva Hegel, consegnandoci se non altro il compito di secernere verità nel dibattito pubblico e grazie ad esso, e di non accontentarci di un inerte e indifferente relativismo. Il compito, detto in altri termini, di mettere nelle parole di ogni spirito democratico tutto il peso e la gravità necessaria, per respingere con assoluta fermezza gli sputi rancorosi del professor Becchi.

Il mattino 3 maggio 2013

Il Conclave e l’Italia sospesa

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Lo spirito soffia dove vuole, ma se volesse pure dare una mano all’Italia, con l’elezione del nuovo Papa, agli italiani, laici o cattolici che siano, forse non dispiacerebbe. D’accordo: la Chiesa cattolica ha una missione universale, non soltanto nazionale, e i suoi fedeli sono sparsi in tutti i continenti, e l’Europa non è più così centrale come un tempo e l’Italia lo è ancora meno. E poi i tempi di un’istituzione bimillenaria non si misurano sul piede della cronaca o dell’attualità. E soprattutto la sua sola e unica domanda – la più angosciosa, la più drammatica – non può che essere la domanda del Vangelo: «quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra?». Un Papa lo si fa per quello, perché il Figlio dell’uomo possa trovare ancora servi fedeli al suo ritorno. Sulla terra, non solo in quella piccola, alquanto malandata penisoletta che è l’Italia.

Ma questa volta il Conclave cade anche in un altro contesto: nel bel mezzo di una grave crisi economica e sociale, che dura da anni, a cui si è sommata una ancora più acuta crisi politica da cui non sappiamo se e quando l’Italia saprà uscire. Per questo se un soffio dello Spirito lambisse anche l’altra sponda del Tevere neppure l’ateo più accanito, forse, potrebbe dispiacersene.

Non è facile. Quando Friedrich Nietzsche spiegò cosa mai fosse il nichilismo, l’ospite inquietante che secondo lui ci avrebbe tenuto compagnia per un paio di secoli almeno (Nietzsche scriveva alla fine dell’800, dunque pure col nichilismo siamo ancora a metà del guado), provò a descriverla come quella situazione nella quale «l’uomo rotola via dal centro verso la x». E in effetti, mai come in questi giorni  di questa caduta non si vede il punto di arresto. Mai come in questa fase l’Italia sembra aver perduto stabilità e centralità, tanto rispetto al contesto europeo e internazionale quanto rispetto al suo stesso destino storico, che non sa più decifrare. Mai come in questa congiuntura, mentre un settennato volge al termine, e una nuova legislatura fatica a incominciare, e non c’è nessuno che abbia qualcosa più di un’ipotesi arrischiata sul futuro prossimo venturo, si sente la mancanza di certezze, e forse anche il bisogno di qualche rassicurazione. Così si aspetta la fumata bianca per poter pensare: almeno questa è fatta, qualcosa finalmente comincia ad andare per il verso giusto.

Non si tratta solo di psicologismo spicciolo: c’è effettivamente nel Paese una sorta di sospensione, di finta calma, di surreale immobilità. Persino i mercati finanziari sembrano attendere gli eventi, invece di tentare di determinarli con la solita, frenetica aggressività. Forse al paese è accaduto veramente di ritrovarsi sospeso in quella grande bonaccia delle Antille che raccontò Italo Calvino: senza un alito di vento verso una qualunque direzione, la nave dei corsari che rimane ferma per mesi, a fronteggiare da lungi i galeoni dei Papisti, in un’asfissiante bonaccia. Il fatto è che se domani, se nei prossimi giorni (ma presto, per carità!) dal comignolo di San Pietro venisse fuori un filo di fumo bianco, vorrebbe dire che almeno la barca di San Pietro ha ritrovato il suo capitano ed ha ripreso il mare.

La parabola marinara di Calvino era rivolta anzitutto contro l’immobilismo del PCI di Togliatti (che infatti la prese a male). Questa volta si tratta però, più gravemente, dello stallo dell’intero sistema politico, finito in un pauroso buco di vento.

Intendiamoci: neanche per la Chiesa la navigazione potrà essere tranquilla. Quando l’allora cardinale Joseph Ratzinger tenne la sua ultima omelia, prima che si chiudessero le porte del Conclave che lo scelse papa, parlò con inusitata determinazione della «sporcizia della Chiesa», da cui bisognava liberarsi. Dopo sono venuti gli scandali, lo Ior, Vatileaks, la pedofilia, il maggiordomo infedele e la riapertura del caso Orlandi, l’acuirsi della crisi delle vocazioni e gli scontri all’interno della Curia: infine, le inaudite dimissioni del Papa. Anche Ratzinger aveva usato una parabola marinara: «spesso, Signore, la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti». Ma Bemedetto XVI ha lasciato, e mettere la barca in condizione di affrontare nuovamente il mare è il compito del futuro Papa: un nuovo Pontefice potrebbe averne la forza, essere il legno al quale i credenti potranno aggrapparsi.

E l’Italia? Quando l’Italia potrà salpare nuovamente, da dove potrà ripartire? Dalla saggezza di Napolitano? Sicuramente, ma ha soltanto un mese di mandato davanti a sé. Dai partiti? Ma sono investiti da un ciclone ancora più impetuoso di quello che li travolse con Tangentopoli. Dal Movimento 5 Stelle? Ma sembra lontanissimo da una qualunque idea di governo, e finanche dalle consuetudini parlamentari. Da un nuovo spirito pubblico, allora?

Ecco: se lo Spirito, che soffia dove vuole, dopo aver lasciato la Cappella Sistina mandasse qualche sbuffo pure dalle nostre parti e facesse circolare un po’ di aria nuova, di idee e di forze nuove, forse anche l’Italia potrebbe riprendere il vento.

Il Messaggero, 12.03.2013

Euro e democrazia. Allarme populismo

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Si può cominciare da dove la campagna elettorale è finita – dalla piazza San Giovanni di venerdì sera, gremita all’inverosimile per l’ultimo comizio-spettacolo di Grillo – per chiedersi quanto la politica italiana sia infettata dal populismo, e se le urne ci regaleranno davvero un Parlamento affollato di parlamentari che, però, non credono nella democrazia parlamentare. Che il populismo sia una sorta di febbre che innalza la temperatura politica di un paese mettendone a dura prova la fibra è giudizio largamente condiviso, anche se, almeno entro certi limiti, si tratta di una malattia fisiologica, da cui è impossibile immunizzarsi (a meno di non voler rinunciare al suffragio universale). Le ultime battute della campagna elettorale, ma forse l’intera stagione politica che volge con queste elezioni al termine, fanno però temere che siano stati raggiunti ormai i livelli di guardia: l’astensionismo è dato in aumento, non solo il Movimento 5 Stelle, ed è diffuso nel Paese il discredito nei confronti della politica tutta. Quanto poi alla sfiducia nei confronti delle istituzioni rappresentative, sono gli stessi grillini, alfieri della democrazia diretta e della partecipazione via web, a proclamarla ad ogni occasione, trascinando in un unico giudizio le istituzioni e gli uomini che le rappresentano. Questo, peraltro, è il primo dei tratti caratteristici del populismo: la profonda diffidenza, il fastidio e infine il rigetto per tutte le forme della mediazione politica, identificate senz’altro con il compromesso, l’inciucio, l’imbroglio. Quando Grillo dice che i suoi uomini andranno alla Camera per aprirla come una scatoletta di tonno, lascia intendere che il Parlamento è per lui tutto meno che il luogo della rappresentanza: è piuttosto il covo dove si consumano truffe e raggiri ai danni dei cittadini. La polemica contro la partitocrazia finisce col tracimare, e investe poi anche i più alti organi costituzionali, giudicati volta a volta responsabili o conniventi.

E a proposito del tonno e di immagini simili, altro tratto evidente della retorica populista sono le espressioni grevi e sguaiate, spesso violente, che in queste settimane non ci sono state risparmiate. Sono servite per opporre al politichese una lingua presuntamente genuina, che dica finalmente pane al pane e vino al vino. Su questo terreno in Italia s’era già messa la Lega, nei cui discorsi non è infrequente che compaiano il turpiloquio e il vilipendio, ma anche Berlusconi, che ha provato a ripetere il refrain contro lo spregevole teatrino della politica, o Di Pietro, con le sue sgrammaticature da finto Bertoldo della politica. Oggi c’è Grillo, che di suo ci mette il gusto della battuta spesso denigratoria.

Poi c’è la faccenda del leader, di partiti fortemente personali e carismatici, sorti lontano dalle tradizioni politiche nazionali, che anzi rifiutano e dileggiano (con la conseguenza però che non si riesce nemmeno a capire a quali famiglie politiche europee appartengano, e dove andranno a sedersi il prossimo anno, dopo le europee). La personalizzazione della politica è fenomeno di lunga data, che procede di pari passo con la destrutturazione del sistema politico tradizionale e la sempre più significativa incidenza dei mass media. Il voto di oggi e domani fornisce nuovi, fulgidi esempi, a destra come a sinistra. A parte il solito Grillo, a destra, l’emancipazione del PdL dal suo padre fondatore è terminata il giorno in cui Alfano e compagni si sono resi conto che la campagna elettorale poteva farla solo Berlusconi, e così è stato. Dall’altra parte, appannatosi il fascino tutto personale delle narrazioni vendoliane, è accaduto che l’arcipelago residuo della sinistra antagonista si mettesse, per sopravvivere, sotto l’insegna di un nome e di un cognome, quello di Antonio Ingroia.

Populista è dunque il rifiuto della mediazione, populista è l’identificazione semplicistica con il capo, populista è infine la contrapposizione diretta e immediata fra élite e popolo. Vi sarebbe in verità un altro tratto rilevante, il nazionalismo (e addirittura il razzismo), ma per ora, per fortuna, ne abbiamo fatto l’economia, non essendo andati molto oltre le minuscole liste localistiche al Sud, e le consuete rivendicazioni territoriali della Lega. Sarà importante misurare la loro forza residua nelle regionali lombarde.

Ma alla forma principale con cui si presenta da noi la rivolta contro la casta – il ceto politico corrotto opposto alla gente onesta che lavora – forma che rimbomba nel grido grillino di piazza: “arrendetevi, siete circondati!”, si è aggiunto, complice la crisi, il sentimento di ostilità nei confronti della tecnocrazia europea. Una nuova linea di demarcazione sembra tracciarsi, a queste elezioni, fra quelli che vogliono tener l’Italia dentro l’euro, e quelli che invece pensano di tenerla fuori. Anche in questo caso, non c’è solo il roboante Grillo, ma pure la sinistra radicale e, a far da compagnia, benché più esitante, ancora il Cavaliere, che un giorno sollecita populisticamente propensioni antitedesche e un altro si ricorda invece di appartenere ancora alla famiglia del popolarismo europeo.

Quest’ultimo aspetto è però il più decisivo, benché una campagna elettorale deludente non lo abbia evidenziato abbastanza. Perché molto del nostro futuro dipenderà dall’Europa, le cui istituzioni non hanno però appeal presso l’elettorato e anzi scontano un pesante deficit di legittimità democratica, accentuato dalla crisi, che ha marginalizzato il Parlamento e la Commissione europea, esaltando il ruolo della BCE e gli accordi intergovernativi. Il contraccolpo è ancora una volta un balzo in avanti degli umori populisti, che si sollevano contro burocrati e banchieri centrali. Su questo si sarebbero dovuto misurare i partiti in campagna elettorale; su questo ci auguriamo che, almeno, vogliano farlo seriamente nel nuovo Parlamento

Il Mattino, 24 febbraio 2013