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Sinistra senza voce di fronte alle urla della nuova destra

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Come quello che dice: capotavola è dove mi siedo io, così nel Pd (ma anche fuori del Pd) non sono pochi quelli che dicono che sinistra è là dove si trovano loro. Così l’ha messa Renzi ieri, e almeno su questo bisogna dargli ragione: non c’è persona di sinistra, da Marx in giù, che non abbia pensato almeno una volta che di sinistra sono solo le cose che dice lui.

Ma la giornata di ieri, e i fatti di questi settimane, raccontano tutt’altra cosa. Mentre il partito democratico avviava il suo percorso congressuale, con le dimissioni di Renzi, Nicola Fratoianni veniva eletto segretario della neonata formazione di Sinistra italiana. Di sinistre ce ne sarebbero, anzi ce ne sono dunque due, ufficialmente parlando. Però non basta. Perché in mezzo a quelle due ce ne sono già altre tre o quattro, se pure dai contorni ancora ufficiosi: c’è “Possibile”, il movimento di Pippo Civati; c’è il campo progressista di Giuliano Pisapia, in via di costituzione; c’è il drappello di Sinistra e Libertà, guidato da Arturo Scotto, che ha lasciato Sinistra italiana ancor prima che tenesse il congresso; e c’è la neonata associazione “Consenso” di D’Alema, che vorrebbe tanto fagocitare tutte le altre. E infine c’è la minoranza che uscirà dal Pd, in tutto o in parte, ma che non si sa ancora se farà un’altra cosa, diversa da tutte le altre, oppure si unirà a questa o quell’altra formazione già esistente.

In questa situazione, sarebbe facile fare dell’ironia, se la rappresentazione che la sinistra offre in questa fase non esprimesse un dramma vero, una difficoltà reale nell’affrontare uno dei frangenti più difficili della sua storia. Come un film già visto: la destra ritorna infatti prepotente, con parole d’ordine e identità ben riconoscibili, da Trump alla Le Pen, e la sinistra per tutta risposta si divide. Manca solo l’accusa di socialfascismo, perché il remake del Novecento sia completo.

Ieri Veltroni ha detto che il Pd è nato da una fusione, non da una scissione. È stata cioè una singolare eccezione. Perché nella sua storia la sinistra ha offerto molti più esempi di divisione che non di unione. Certo, li ha offerti su un terreno ogni volta diverso, perché le vicende storiche non si ripetono mai uguali, ma con almeno un motivo comune, rintracciabile nella presunzione di possedere una qualche ragione autentica, che la compromissione col potere, oppure con il governo, o con la modernità, o ancora, in termini politici, con il centro e i moderati ogni volta, rischierebbe di disperdere e consumare.

Non c’è altro modo di spiegare come i tre alfieri della minoranza, Rossi Speranza ed Emiliano, abbiano potuto ritrovarsi sotto la bandiera della rivoluzione socialista. Nessuno di loro può presentarsi infatti come un rivoluzionario di professione. Nessuno di loro ha trascorsi massimalisti. Nessuno di loro appartiene alla sinistra antagonista e anticapitalista. Però tutti e tre imputano al partito democratico di Matteo Renzi di aver smarrito le ragioni vere della sinistra, quelle che ne preservano l’autentica sostanza.

Intendiamoci: non mancano sicuramente motivi di più bassa lega per spiegare le manovre di questi giorni: i posti, le liste, la leadership. Ma resta il fatto che la coperta sotto la quale questo gioco si svolge è offerta da quel significante vuoto – si dice così – che viene riempito dall’interpretazione di volta in volta offerta di ciò che è veramente di sinistra.

Una parola-baule, insomma, dentro la quale ci si infilano cose molto diverse. E che però Renzi ieri non ha voluto lasciare alla minoranza, contestandone la pretesa di mantenerne il copyright. Di più: accusando i suoi avversari di conservare della sinistra solo la fraseologia, la prosopopea, i simboli del passato e le bandiere, senza però preoccuparsi minimamente di dargli forma compiutamente sul terreno concreto dell’azione di riforma.

Con i termini che ha impiegato – inclusione, attenzione alle periferie, diritti, terzo settore, ambiente – Renzi ha provato a sgranare il rosario di ciò che il Pd dovrà essere, o almeno di ciò che dovrà discutere, al congresso. Intanto però, ai nastri di partenza si può trovare, nel campionario delle idee della sinistra di oggi, tanto l’inno alla modernità, quanto la critica radicale della modernità; tanto l’europeismo più acceso quanto l’antieuropeismo più preoccupato; tanto il cambiamento della Costituzione quanto la sua tetragona difesa.

Secondo Bobbio, è uguaglianza il discrimine lungo il quale si costituisce l’identità della sinistra. Ma strumenti, politiche, istituzioni che debbono servire per contrastare le disuguaglianze non discendono univocamente da quella semplice idea. Basta vedere.

In primo luogo, le istituzioni. Renzi si è speso su una riforma della Costituzione che doveva dare al Paese istituzioni più semplici e meglio funzionanti. Per la minoranza che il 4 dicembre ha votato no, quelle riforme agevolavano una pericolosa deriva autoritaria: riducevano gli spazi di democrazia, compromettevano garanzie fondamentali. Erano parte di una cultura politica che privilegia il momento della decisione rispetto a quello della partecipazione. In altre parole: erano di destra. Stessa cosa l’Italicum: per Renzi, la nuova legge elettorale definiva finalmente i lineamenti di una democrazia decidente; per le minoranze, in combinato disposto con la riforma costituzionale, metteva in pericolo gli equilibri democratici del Paese.

In secondo luogo, le politiche. Il governo Renzi è intervenuto con leggi di riforma in diversi settori: nella pubblica amministrazione, nella scuola, nella giustizia, nel lavoro. Gli accenti che ha usato la minoranza in queste settimane di passione non hanno mai previsto una sola parola di difesa dell’attività di governo. Sbagliato il Jobs act, che nelle intenzioni del governo modernizza il mercato del lavoro, mentre per l’altra sinistra porta la macchia incancellabile di avere il gradimento di Confindustria e l’ostilità dei sindacati. Sbagliata la posizione sul referendum anti-trivelle: per la sinistra di governo bisognava contrastare ostilità preconcette, di carattere puramente ideologico, mentre per l’altra sinistra bisognava piuttosto contrastare i petrolieri, e magari il potere corruttivo dei loro denari. Sbagliata la riforma della scuola, che per il governo andava in direzione di una maggiore autonomia scolastica, e per gli oppositori invece mortificava irreparabilmente la figura docente. E ancora: sulla giustizia, la sinistra contiene fermenti garantisti e livori giustizialisti; sugli 80 euro, per gli uni sono stati la più grande operazione di redistribuzione fatta in questi anni; per altri sono stati poco più di una mancetta – come i bonus ai 18enni o ai docenti della scuola –, soldi che sarebbero stati meglio spesi in investimenti infrastrutturali.

Infine gli strumenti, cioè il partito. Renzi ha sicuramente assecondato una certa voga anti-politica. Di tagliare poltrone non ha mai rinunciato a parlare. Dell’abolizione del finanziamento pubblico ha fatto quasi un punto d’onore. Quanto però a valorizzare il partito come comunità, o come strumento di elaborazione intellettuale, non ha mai avuto molta voglia. Gli iscritti sono così calati: fisiologicamente per gli uni, patologicamente per gli altri. Il che si è tradotto in convinzioni di segno opposto anche in questa materia: sulla natura della leadership, sull’uso dei nuovi strumenti di comunicazione, sull’importanza del radicamento territoriale, sulle funzioni da assegnare alla dirigenza del partito.

Insomma, il partito democratico – e più in generale il frastagliato arcipelago della sinistra – ha dovuto in questi anni discutere praticamente su tutto, provando a fornire declinazioni diverse su ciascuno di quei temi. Ma nella stretta finale le distinzioni vengono meno, le differenziazioni sfumano, e rimane il significante da riempire sempre allo stesso modo: da un lato ci sono quelli che Renzi è un intruso (e un sopruso), dall’altro quelli che le anticaglie meglio mollarle una volta per tutte, la sinistra non può più essere quella.

E allora cos’è? È Zeman, ha detto una volta D’Alema e anche a lui, almeno su questo, bisogna dargli ragione: gioca bene ma prende tanti gol. A dire il vero, fa pure qualche autogol.

(Il Mattino, 20 febbraio 2017)

L’ultima sfida di chi ha cambiato la sinistra: rifare la politica

Acquisizione a schermo intero 05112016 161332.bmp.jpgPippo Civati, chi era costui?  Era il giovane consigliere regionale lombardo che affiancava Matteo Renzi, allora giovane sindaco fiorentino, nella prima,primissima Leopolda: quella del 2010. I due facevano a gara a chi rottamava di più. Oggi uno è Presidente del Consiglio, nonché segretario del partito democratico; l’altro, invece, fuoriuscito dal Pd, è quasi sparito dalla ribalta politica nazionale. Guida la formazione “Possibile”, e cerca di pescar voti a sinistra, ma quindici minuti di celebrità come quelli della pionieristica Leopolda non li ha avuti più.

Quando si guarda indietro, muovendo dal punto al quale siamo, si ha sempre l’impressione che le cose non potevano andare in altro modo: che Renzi era una sorta di predestinato; che dunque la vecchia guardia del partito democratico non avrebbe resistito all’onda d’urto sollevata; che uno dopo l’altro Prodi Veltroni D’Alema sarebbero stati accompagnati alla porta; che Renzi avrebbe preso le redini del Pd e del Paese.

In realtà, le cose sarebbero potute andare anche molto diversamente, e proprio il diseguale destino di Renzi e Civati lo dimostra. Nel 2010, D’Alema poteva ancora rivolgersi a Renzi come a un simpatico «giovanotto»; oggi non più. Nel 2010, Bersani, allora segretario del partito, poteva permettersi di tenersi lontano dalla stazione fiorentina; oggi gira ancora alla larga, ma perché sospinto sempre più nella ridotta minoranza piddina.

Qualcosa in realtà era già successo. Il Pd era già imploso una prima volta, con le dimissioni di Veltroni, un anno dopo la sconfitta alle elezioni politiche. La parola d’ordine della rottamazione era nata proprio per prendere il timone del partito togliendolo ai sessantenni che lo avevano guidato negli anni del berlusconismo. Poi, certo, Renzi aggiungeva che non era un fatto anagrafico, di ricambio generazionale, «ma piuttosto di cambio del gruppo dirigente, di idee e di linguaggio», ma intanto il messaggio arrivava forte e chiaro: non si fa nessun «nuovo Ulivo» mantenendo «vecchie facce». A distanza di tempo, Renzi non ha solo promosso una nuova generazione – Lotti, Boschi, Serracchiani, Del Rio, Gozi: tutti passati per le varie Leopolde – ma ha effettivamente cambiato i connotati del centrosinistra. Chi oggi parla ancora di spirito dell’Ulivo lo fa dai giardinetti della politica, non certo nel vivo delle battaglie che si combattono: dal referendum costituzionale al confronto con l’Unione europea.

All’inizio, però, l’aria era ancora quella di chi «si diverte seriamente»: con gli ospiti e le canzoni, i video e i cartoon; lo stagista Boris e il fumetto di Will Coyote. La Leopolda esordiva, nel 2010, con una voce fuori campo che salutava i presenti con queste parole: «Siete pregati di prendere posto e di lasciarlo dopo tre mandati, e poi non lasciate aperti i finestrini per evitare correnti».

Col passare degli anni, la Leopolda si è fatta un po’ più seria, un po’ più istituzionale, un po’ più ufficiale. Su un punto non ha ceduto: su una certa idea di ritmo e di velocità. Sui cento fiori che fioriscono e le scuole di pensiero che gareggiano: Mao Tze Tung, insomma, ma virato al pop come in un ritratto di Andy Warhol.

In quest’ultima edizione, la settima, il programma di sala invece annuncia che si discuterà «soprattutto di terremoto, protezione civile, terzo settore, leggi sociali, volontariato». È chiaro: c’è appena stato il sisma e corrono i cinquant’anni dall’alluvione di Firenze, ma l’impressione è che il registro degli umori sia cambiato, e che il momento richiede se non compunzione, certo meno scanzonature e più sobrietà.

È forse il renzismo che è cambiato? Diciamo che un conto è buttar giù, un altro è stare in sella. Per buttar giù si può dar fondo anche ai temi che infiammano il populismo dei Cinquestelle – fine dell’immunità, fine delle indennità, e quasi fine della (vecchia) politica – e infatti Renzi e Civati salgono sul palco, nel 2010, nelle vesti di comici-presentatori. Poi però, poco a poco, il profilo viene affinato, e qualche elemento di costruzione politica viene aggiunto. In verità, se si dà uno sguardo alla lista delle cose da fare che Renzi presenta nel 2011, alla seconda Leopolda (quando già Civati non c’è più) si trovano: la fine del bicameralismo paritario (basta con i doppioni inutili); l’abolizione del Porcellum (anche se a favore di collegi uninominali, che l’Italicum invece non prevederà); l’abolizione delle province, l’abolizione del Cnel, l’abolizione del finanziamento pubblico. Si trova insomma una linea politica e istituzionale che in gran parte confluisce nella riforma Boschi. Era il programma con il quale Renzi ha affrontato le primarie negli anni successivi: prima perdendole (con Bersani), poi vincendole (contro Cuperlo). Di mezzo c’è stata ovviamente la non-vittoria del centrosinistra alle politiche del 2013, ma a svolgere il filo degli eventi si trova una coerenza di fondo, che battute e slogan, imprevisti e astuzie non hanno intaccato di molto.

Certo, c’erano anche cose che, col senno di poi, vien da sorridere: la più macroscopica delle quali è senz’altro l’obiettivo del rapporto debito/Pil al 100% in 3 anni. E in effetti è sul terreno dell’economia che le cose non hanno camminato veloci come Renzi pensava. Ma rimane l’impressione di un disegno strategico perseguito nel tempo, anche attraverso qualche abile capriola tattica: non solo il famoso «Enrico, stai sereno» che precedette il siluramento del governo Letta, nel 2014, ma anche, molto prima, l’incontro con il Cavaliere ad Arcore. È stato il primo, clamoroso risultato politico ottenuto a distanza di soltanto un mese dalla Leopolda (del quale incontro, non a caso, Civati non aveva saputo nulla). Fioccano le polemiche, è chiaro. Matteo figlio di Silvio, scrivono i giornali, con Berlusconi che – assicura – lo trova a lui simile: per stile e modello di leadership.

Forse è vero. Ma l’incontro non colloca Renzi più a destra di quanto non fossero prima di lui i Prodi, i Ciampi o i D’Alema che hanno portato l’Italia dentro Maastricht e l’euro. Semplicemente, l’appuntamento di Arcore è la dimostrazione che Matteo è pronto a riscrivere gli spartiti della politica italiana, e a cambiare i temi su cui passerà di lì in avanti la demarcazione dello spettro politico. Non più l’antiberlusconismo morale, ma la riforma dell’ordinamento repubblicano. Per la quale non ha mai smesso di cercare accordi nel campo avverso.

La Leopolda di quest’anno cade in un tempo quasi sospeso: febbrile per la campagna elettorale in corso, ma in bilico sul risultato del referendum. Difficile che la convention riesca a spingere lo sguardo oltre quella data. Ma è chiaro che dietro le quinte si sta ragionando già sul dopo. Sia che vinca il sì, infatti, sia che vinca il no, la domanda è se vi saranno nuove elezioni: in un caso, per capitalizzare il successo; nell’altro, per cercare una ripartenza. Arrivare fino al 2018 è difficile, se vince il no, anche se bisognerà trovare il modo di scrivere una nuova legge elettorale, per non rischiare il caos istituzionale. In caso di vittoria del sì, il rispetto della scadenza naturale potrebbe invece servire per aprire contraddizioni nel campo grillino, e magari favorire anche una ricomposizione del centrodestra, che a quel punto dovrebbe definitivamente voltare pagina rispetto all’impasse in cui si è cacciato dopo il declino di Berlusconi. Questa è anzi, con tutta probabilità, la partita più grande che Renzi e il Pd dovranno giocare, se supereranno il voto di dicembre: restituire alla politica la fisiologia di un confronto politico fra destra e sinistra, che l’enorme bubbone a Cinquestelle ha alterato. E per quello, contano i contenuti della riforma, ma conta pure la politica. Alla Leopolda,e nel Pd, qualcuno deve prepararsi per lanciare l’ultima sfida.

(Il Mattino, 5 novembre 2016)

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Le domande che farei

Immagine3Nell’epoca della personalizzazione della politica, siccome si ritiene che quello che è da conoscere è anzitutto il profilo personale del futuro segretario – i suoi gusti, le sue abitudini, le sue idiosincrasie – le domande giuste potrebbero essere: con quale personaggio dei fumetti ti identifichi, qual è il tuo piatto preferito, ricordi l’ultima volta che hai pianto, a quale animale ritieni di assomigliare, dimmi l’ultimo film che hai visto al cinema.

Siccome però si tratta pur sempre dell’elezione del leader del principale partito politico italiano, forse non è del tutto sbagliato augurarsi che dal confronto televisivo di stasera venga qualche schiarita circa il futuro che Renzi, Cuperlo e Civati immaginano anzitutto per il partito che si candidano a guidare, poi per il governo che il Pd attualmente sostiene in Parlamento, infine per l’Italia e per l’Europa.

Anzitutto sul partito, dunque. Renzi è accusato di usarlo solo come trampolino per il governo, Cuperlo di immaginarlo solo come il luogo in cui coltivare un riflesso identitario, Civati di tenersene alla larga per infilzarlo sempre volentieri, e lucrare così sulla presa di distanza da esso. Chiunque vinca, da segretario eletto dovrà cambiare almeno un poco la posizione che tiene adesso, sicché gli si deve chiedere che partito vuole fare, con quale cultura politica, quali risorse, quale rapporto con iscritti ed eletti. Nella seconda Repubblica ha sempre vinto la discontinuità, la novità, a volte persino l’estraneità rispetto alla politica: c’è da andarne fieri? Hanno il coraggio di dirci dove invece intendono finalmente piantare la loro tenda e metter radici? Tutti e tre vogliono star dentro il socialismo europeo: chi di loro si incarica di spiegarlo a Fioroni e Castagnetti? E lo statuto: gli va bene così com’è, con le primarie le convenzioni e tutto il resto? Funziona, secondo loro?

Poi il governo. Tutti e tre mostrano, con accenti diversi e diverso senso di responsabilità, di voler marcare una differenza rispetto all’azione condotta fin qui da Enrico Letta. Ma, da segretari, lavorerebbero per ridurre quella differenza o per accrescerla? Questo governo, fortemente voluto da Napolitano, è nato per necessità e spirito di servizio. Ora che non c’è più Berlusconi, Dio ce ne scampi e liberi, ritengono di poterlo considerare finalmente il nostro governo, il governo dei democratici? Se no, com’è probabile, come pensano allora di farlo, un governo Pd, in questa o in un’altra legislatura? E in particolare: a quale legge elettorale pensano, e con quali forze politiche? Coi grillini mai? Con Casini ancora un altro poco? Con Alfano solo per questa volta?

Intanto però questo governo c’è, e si sforza pure di governare. Da quali punti programmatici dovrebbe secondo loro ripartire? Qual è il fronte su cui è più debole la sua azione, e più urgente un cambio di rotta?

Infine l’Italia. Forse non sarebbe inutile se provassero a raccontare la crisi, come loro immaginano che investa il paese. Perché non tutti i racconti sono uguali. Un conto è che comincino dal debito pubblico, un altro che insistano sulla debolezza della domanda, sui bassi salari e la forte diseguaglianza, un altro ancora è che lamentino scarsa competitività o troppa burocrazia. Il loro mantra è la modernizzazione, la giustizia sociale o la partecipazione dal basso? Siccome però in tutti i loro racconti si imbatteranno nell’Europa, dovranno anche farci capire come intendono smuovere la Merkel dalle ricette rigoriste che ha finora inflessibilmente propinate all’Unione, resistendo a ogni ipotesi di condivisione del debito, di bond europei, di correzione della bilancia dei pagamenti tedesca. Ecco: qual è la loro ipotesi, al riguardo?

Ma il pubblico di Sky Tv cerca davvero un simile terreno di discussione? Vuol sapere davvero quali parole vere siano finora uscite, ad esempio,sul Mezzogiorno, sulla scuola o sull’ambiente? È davvero in questi termini, di un confronto serrato sui programmi, che è impostata l’elezione del segretario? O sono altri gli elementi che si riveleranno decisivi stasera, quando i candidati saranno insieme in scena, a figura intera, e saranno osservati piuttosto nei loro gesti e nella loro mimica che non nelle loro parole o nei loro argomenti? Nel qual caso, siccome alla domanda sul pantheon personale come l’altra volta con Bersani così questa volta nessuno avrà dubbi, tra Kennedy e Togliatti solo il primo avrà una nomination, la domanda di chiusura potrebbe allora essere: quale strumento suonava Marilyn Monroe in A qualcuno piace caldo? Se poi l’uno o l’altro vorrà anche intonare il motivetto, di sicuro vincerà il confronto.

(L’Unità, 29 novembre 2013)

In cerca di giovani leader

L’attenzione è ora tutta su Debora Serracchiani, ma io sono un po’ indietro e solo stasera ho guardato il profilo di un altro giovanissimo leader, di cui s’è parlato molto e molto ancora si parlerà: Giuseppe Civati, su cui però posso già esprimere una seria valutazione:

ha dalla sua, insieme a vari altri titoli, laurea e dottorato in filosofia, il che lo renderebbe sicuramente il mio candidato ideale alla guida del PD, se non avesse ahimè, come Veltroni e come Franceschini, la colpa grave di avere scritto pure lui il suo primo romanzo. (Sul calcio, poi).
Ora: io sono per il rinnovamento, ma proprio perciò il prossimo segretario del PD deve lanciare un chiaro segnale di discontinuità e rinunciare ad avere dalla sua un romanzo o – aggiungo, a scanso di equivoci – una raccolta di poesie, da chiunque prefata.
(Insomma: non possiamo andare avanti che il centrodestra candida uomini che hanno raccolto in giovane età il loro primo miliardo di lire, mentre il centrosinistra esibisce prime, temo ancora acerbe prove letterarie).