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I buoni, i cattivi e l’umiltà della giustizia

Rothko Antigone 1941

M. Rothko, Antigone (1941)

La descrizione della realtà criminale campana, offerta dal procuratore capo Gianni Melillo nella sua prima uscita pubblica, è assolutamente realistica: la camorra non è un fatto puramente criminale, privo di addentellati con la realtà circostante. La «cantilenante e rassicurante narrazione» che la riduce a mera devianza è ben lungi dal cogliere i fenomeni nella loro natura reale. Ben lungi anche dal descrivere la dimensione dei blocchi sociali che si coagulano intorno ad attività criminali. Questi blocchi – ha spiegato Melillo – assumono sempre più una forma reticolare che coinvolge soggetti, forze, strutture fra loro anche molto distanti, e che possono persino ignorarsi, ma che tuttavia si trovano ad essere collegate da una medesima, robusta trama di interessi.

Se questa analisi è corretta, è evidente la difficoltà a indicare dove finisce l’economia legale e dove comincia invece l’economia illegale, a stabilire fin dove la rete delle imprese o delle professioni, o degli stessi poteri pubblici locali, si mantiene al riparo dall’influenza camorristica. L’attuale complessità dell’organizzazione sociale ed economica sembra portare piuttosto una realtà a stingersi nell’altra, il lecito a confondersi con l’illecito, soprattutto in determinati contesti – come quello campano – caratterizzati da una presenza radicata della delinquenza organizzata, che permea di sé ampi settori della società.

In un quadro così problematico e sfuggente, lo Stato non può certo rinunciare all’azione repressiva: deve anzi aggiornare sempre meglio i suoi strumenti per stare al passo con l’evoluzione dei fenomeni criminosi. Ma è evidente che quanto più si riconosce l’incidenza sociale delle mafie, tanto più si riconosce l’insufficienza di una risposta puramente penale. Non si raddrizza una società con i soli strumenti del diritto penale, insomma, per quanto ampi possano essere i successi riportati nella lotta alla criminalità organizzata. Lo ha ricordato indirettamente lo stesso procuratore: negli ultimi venticinque anni sono stati conseguiti risultati straordinari, ha detto, ma questo non vuol dire affatto che ci siamo liberati dalla camorra. Ovviamente non vuol dire nemmeno che la camorra, come la mafia, non possa essere vinta. Ma la storia dell’Italia mafiosa è intrecciata con la storia economica, sociale e politica del Paese di maniera tale che è nelle linee del suo sviluppo, nell’evoluzione della società, nella sua crescita civile e culturale che va individuato il terreno ultimo sul quale quella lotta va condotta. È accettabile allora che l’ordinamento penale venga sovraccaricato di aspettative improprie, per arrivare là dove non può arrivare, senza stravolgere il sistema di garanzie che dovrebbe costituirne l’anima?  No, non è accettabile. Non è questo un patto che si possa stringere: cedere un po’ sul terreno dei principi dello Stato di diritto, per avere più vigore e forza di penetrazione sul piano dell’azione di contrasto. Al contrario, la vicenda recentissima dell’approvazione delle modifiche al codice antimafia ha purtroppo avuto proprio questo segno, con un’abnorme inflazione di misure preventive, mai così estese nella storia della Repubblica. Indagini come quella di Appaltopoli dimostrano invece un’altra grave stortura dell’attuale sistema: le risultanze investigative danno quel che possono dare, compreso il clamore che suscitano, nella fase preliminare, dopodiché però svaporano nel processo, ridotto quasi ad un’appendice secondaria. La foga di criminalizzare quelle zone grigie della società in cui si annidano collusioni, connivenze e complicità non viene trattenuta entro le regole del diritto, ma sostenuta e anzi surriscaldata dall’indiscutibile esigenza morale di fare giustizia. La distorsione si misura facilmente da ciò, che quando l’indagine viene archiviata o l’imputato assolto, l’opinione pubblica (e qualche infallibile magistrato), pensa non che sia innocente, ma che semplicemente l’ha fatta franca. Il marchio di colpevolezza, così, lo raggiunge comunque: invece di condanne effettive, che non si riescono a comminare, gli si affibbia almeno una condanna morale, per giunta di grande effetto mediatico.

Forte di una esperienza pluridecennale, sia nelle indagini di criminalità organizzata che come cabo gabinetto al ministero della giustizia, tutte queste cose Melillo le sa, le ha viste e le ha conosciute. Ma non tutto il sistema della giustizia, e non tutti gli uffici della procura napoletana le tengono sempre presenti. Nel suo capolavoro, «Viaggio al termine della notte», Céline scriveva: «non sarebbe tanto male, se ci fosse qualcosa per distinguere i buoni dai cattivi». Qualcosa c’è, in realtà, ed è il diritto, anche se non arriva a rispondere agli interrogativi metafisici posti lungo quel viaggio. Ma è al diritto che affidiamo la distinzione che separa se non proprio i buoni dai cattivi, almeno il lecito dall’illecito. Solo che, per non correre il rischio di spingere un buono tra i cattivi, accettiamo (o dovremmo accettare) che a volte un cattivo rimanga nella compagnia dei buoni. È inefficienza? Certo, ma è anche la misura giuridica che assicura agli individui, e protegge, la loro libertà.

(Il Mattino, 8 ottobre 2017)

L’antimafia e la sinistra smarrita

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Frank Stella, The Marriage of Reason and Squalor, II (1959)

Vi sono almeno due aspetti sui quali, dopo la sentenza di primo grado su Mafia Capitale, è possibile fare chiarezza. Il primo: i giudici non hanno detto che la mafia non esiste, o che non esiste a Roma. Ovunque sia arrivata la linea della palma di cui parlava Sciascia, i giudici non hanno detto affatto (perché non toccava loro dirlo) che non è arrivata a Roma, o che le organizzazioni mafiose non abbiano una presenza significativa nella Capitale. Hanno detto piuttosto che le associazioni criminali di Buzzi e Carminati non avevano carattere mafioso. Perché non ogni associazione a delinquere dedita alla corruzione, o al procacciamento di affari illeciti, anche con l’intimidazione e la violenza, è, per tutto questo, mafiosa.

Il secondo aspetto: i giudici hanno potuto infliggere pene assai severe, anche senza ricorrere alla qualificazione giuridica della mafiosità: 20 anni a Massimo Carminati, 19 anni a Salvatore Buzzi, più altre condanne non lievi inflitte agli oltre quaranta imputati coinvolti nel processo. Quel sistema di corruzione che la Procura di Roma, portandolo alla luce, aveva denominato «Mondo di Mezzo», c’era, ed è stato smantellato. Dal fatto che, secondo i giudici della X sezione, non era mafia, non si può dedurre insomma che erano quisquilie.

Questo non significa che l’ipoteca di mafiosità che ha gravato negli ultimi due anni sulla Capitale non abbia condizionato il clima politico, a Roma e nel Paese. Ed è su quest’ultimo aspetto della vicenda, cioè sulla corrente culturale, sulle idee e sui pensieri che alimentano quel clima, che occorre un supplemento di riflessione.

Siamo tutti partiti dall’idea che un conto è la corruzione, un altro è la mafia. Poi, però, considerato il carattere endemico della corruzione, siamo passati a sostenere che la corruzione è come la mafia: pericolosa, estesa e ramificata nei gangli dell’amministrazione pubblica, tra i colletti bianchi, proprio come la mafia siciliana, la camorra o la ‘ndrangheta. Il passo successivo è stato di aggiungere che la corruzione è, anzi, un modus operandi tipicamente mafioso. A quel punto è divenuto ovvio richiedere che mafia e corruzione venissero combattuti con gli stessi strumenti, e, infine, teorizzare che mafia e corruzione sono praticamente la stessa cosa.

Se aveste un dizionario sotto mano, scoprireste che in questo modo siamo scivolati da un uso proprio e circoscritto del termine ad un suo uso largo, generalizzato e, inevitabilmente, generico. Ma quel che la lingua può consentire con una certa disinvoltura, dovrebbe molto meno essere consentito nel sistema delle leggi. L’Italia si è dotata di una legislazione speciale per fronteggiare il fenomeno mafioso per una ragione molto precisa: la difficoltà di combattere la mafia con i mezzi previsti dal codice penale. La semplice associazione a delinquere si era rivelata strumento inefficace. Mafia era qualcosa di più dell’omertà, della violenza o dell’intimidazione: significava una società con propri codici simbolici, proprie regole, proprie gerarchie. Non un mondo di mezzo, ma un mondo intero: con una propria identità separata da quella pubblico-statuale (e proprio perciò capace anche di stabilire legami e connivenze con pezzi dello Stato). Per debellare questa realtà criminale, nel 1982 si introdusse, dopo l’omicidio del generale Dalla Chiesa, il 416 bis: per fronteggiare associazioni, la cui tenuta era più profonda e coesa di quanto non fosse quella di un mero sodalizio criminale. Ma se invece una sentenza disfa un’intera trama criminale senza far ricorso alla mafiosità dei consociati, come accade che l’esito processuale non venga giudicato un passo avanti, sul piano del diritto, e che lo si presenti anzi come un passo indietro? Evidentemente, il problema non è più l’efficacia nel contrasto al crimine, ma la mera possibilità di estendere indiscriminatamente le misure antimafia (e l’esercizio del potere inquirente che vi è connesso).

È in questo senso, del resto, che si sono mossi all’unisono tanto il legislatore quanto una giurisprudenza creativa: con inasprimenti di pena, percorsi penitenziari più severi e nuove tipologie di reato di difficile tipizzazione (l’associazione esterna, lo scambio elettorale politico-mafioso) fino alle recentissime modifiche al codice antimafia, con cui il Parlamento si appresta a autorizzare l’abnorme estensione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali a fatti di corruzione.

La consapevolezza che tutta la materia delle misure di sicurezza per i soggetti pericolosi richiede un rigoroso controllo di costituzionalità, ed è  oggi esposta anche ai sempre più penetranti rilievi della Corte Europea di Strasburgo, è spaventosamente scemata, fin quasi a scomparire: se non fra gli operatori del diritto, certo preso l’opinione pubblica e le stesse forze politiche. Comprese quelle alle quali è storicamente appartenuta una cultura dei diritti e delle garanzie, e che quindi dovrebbero ricordare che la prevenzione della pericolosità sociale è una preoccupazione tipicamente autoritaria, che ci viene dal codice penale Rocco, contro la quale la sinistra un tempo combatteva.

Oggi, invece, tende ad avallarla. E a sostenere tutte le richieste di maggiore sicurezza e le prassi più recessive nell’applicazione del diritto, senza più costituire un argine al dilagare delle misure preventive, all’indebolimento del principio di proporzionalità delle sanzioni penali, e all’ampliamento di una legislazione straordinaria.

Ovunque sia arrivata la linea della palma, è evidente che è la linea del diritto che oggi è più  difficile tracciare.

(Il Mattino, 24 luglio 2017)

Antimafia, la maggioranza in ostaggio

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La maggioranza parlamentare e di governo che voterà oggi le modifiche al codice antimafia si consegna di fatto al populismo penale e giudiziario che, in spregio ai principi liberali del diritto, alle garanzie del processo, alle libertà delle persone, chiede, e a quanto pare ottiene dal Senato della Repubblica italiana, un’estensione spropositata delle misure di prevenzione personale e patrimoniale per gli indiziati di reati di corruzione. Misure che appaiono al Presidente dell’Anac Raffaele Cantone inutile, inopportune e persino controproducenti, e che quindi è difficile giustificare persino in termini di maggiore efficacia nel contrasto al crimine, ma che hanno sicuramente l’effetto di ingigantire enormemente il raggio di attività delle Procure. Ancora una volta la politica si lascia mettere sotto scacco da quegli umori giustizialisti che segnano la vita della Repubblica italiana da un quarto di secolo a questa parte. Ancora una volta si confonde la capacità di perseguire e di accusare con la capacità di fare giustizia. Ancora una volta si consegna nelle mani della magistratura un potere supplementare, ampio e quasi indiscriminato, sotto la spinta di una narrazione che continua a ripetere sempre la stessa frase: i politici rubano. Se dunque muovono obiezioni, se provano ad eccepire, se coltivano dubbi, è perché sono, in buona o cattiva coscienza, complici e conniventi, per spirito di casta o per casacca di partito. Così tutti tacciono, il Presidente del Senato Grasso può respingere in maniera sbrigativa la richiesta di riportare il provvedimento in Commissione, e il partito democratico può mestamente continuare a farsi dettare la linea dai giornali che tengono quotidianamente sotto il mirino la condotta morale degli odiati politici. Il capogruppo Zanda conduce i democratici là «dove si puote ciò che si vuol»e. Cioè dalle parti di «Repubblica» e de «Il Fatto quotidiano», che continuano a detenere la chiave ideologica del nostro presente.

Non era questa la strada che il Pd sembrava avere intrapreso in materia di giustizia, all’inizio di questa legislatura. Non era la tutela giudiziaria su settori sempre più ampi dell’economia del Paese l’obiettivo che Matteo Renzi aveva dichiarato di voler perseguire, nell’enunciare anzi un programma di riforma che doveva sprigionare nuove energie, non seminare nuove paure.

Questa coda di legislatura si sta rivelando così peggiore del previsto. Sta proseguendo oltre le colonne d’Ercole del referendum, con il quale è naufragato il progetto di riforme costituzionali del Paese, privo ormai di un vero respiro politico, che non fosse per gli uni il proposito di durare, e per gli altri (cioè anzitutto per Renzi) il proposito di resistere al logoramento al quale il Pd viene sottoposto. Così però non si resiste, si abdica.

Di questo schema è infatti figlia anche l’impotenza e l’irriflessione con la quale si porta al voto un provvedimento palesemente illiberale, contraddetto dalla migliore scienza giuridica del Paese, a cui non si riesce a dire di no solo per non tirarsi in mezzo a nuovi guai. Il Pd è tenuto sotto schiaffo dai populisti, i riformisti sono tenuti sotto schiaffo dai giustizialisti, la maggioranza è tenuta ancora una volta sotto schiaffo dal partito delle Procure. E più non dimandare.

Ma questo giornale lo ha fatto, sin qui: ha domandato, ha chiesto conto, ha dato voce ai più autorevoli giuristi. Quel che ha fatto, continuerà a farlo, sperando che nei passaggi successivi questo pauroso arretramento del livello di civiltà giuridica del Paese potrà essere fermato.

(Il Mattino, 5 luglio 2017)

Lo Stato di diritto muore. Il Pd gli prepara il funerale.

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Porre un limite all’esercizio dei pubblici poteri è l’essenza dello Stato di diritto. Con l’approvazione delle modifiche al codice antimafia, in discussione al Senato, quel limite rischia di impallidire. Per malintese ragioni di sicurezza, in realtà per la forza che continuano ad avere sulla politica italiana le ragioni della piazza. E ciò avviene per opera del Partito Democratico, che pure avrebbe nella sua identità una matrice liberale, in materia di diritto. Ma prevale su tutto l’emergenza; e prevale, soprattutto, l’incapacità delle forze di maggioranza di mettere un argine al populismo giustizialista.

Per convincersene, basta guardare cosa c’è dentro le misure che il Senato si appresta a votare. Esse riguardano l’estensione alle indagini su tutti i reati contro la pubblica amministrazione, compreso perfino il peculato, dei sequestri e delle confische previste in via cautelare dal codice antimafia.

Questi interventi – si è sempre detto – si rendono necessari per colpire le mafie nel loro portafoglio, che è l’unica maniera di combatterle seriamente. Ed è vero: bisogna seguire la pista del denaro. Ma vi sono alcuni elementi sui quali è necessario riflettere: le dimensioni raggiunte dai provvedimenti di sequestro, anzitutto, che sono notevolissime (17.800 imprese, per un fatturato di circa 21 miliardi di euro); la gestione di questa massa di beni, poi, che purtroppo si è rivelata assai opaca (eufemismo); le imprese sequestrate e confiscate, infine, che non riescono a stare sul mercato e raramente sono in grado di sopravvivere al ciclone dell’amministrazione giudiziaria. Un vero fallimento, col quale si finisce per ottenere il contrario di quel che si voleva, dimostrando che lo Stato funziona peggio di quanto funzionino invece i circuiti dell’economia illegale.

Ma chi abbia un minimo di sensibilità giuridica non può non rimanere colpito da un punto decisivo, che viene innanzi a tutti questi: che le misure in questione vengono prese in presenza di indizi di colpevolezza ma in assenza di un giudicato, e con possibilità di difesa e di opposizione molto, molto limitate. Quella che così viene delineata non è una soluzione difendibile in un ordinamento di impronta liberale, ma è adottata di fatto, in via emergenziale, tant’è vero che costituisce una specialità tutta italiana (che gli altri Paesi, contrariamente a quel che a volte si sente dire, non ci invidiano affatto, e infatti non utilizzano). Per giunta, si tratta di quelle emergenze perenni, che durano decenni, e che nel tempo prendono dimensioni abnormi e, spesso, incontrollate.

Ebbene, di questo sistema cosa viene in discussione oggi? La possibilità di ampliarlo ulteriormente. Di estenderlo ben oltre i confini della lotta alla criminalità organizzata, colpendo anche gli indiziati di delitti contro la pubblica amministrazione: la corruzione, la concussione, finanche il peculato. Deve essere chiaro che parliamo di indiziati, di cui si sostenga la pericolosità sociale, non di colpevoli. Il principio ispiratore è, in breve, che ovunque vi siano accumulazioni di ricchezze “probabilmente” illecite, lì deve poter arrivare la mano non della giustizia, ma del procuratore. Sulla base di una prognosi di pericolosità che in nome della sicurezza amplia l’ambito delle misure di prevenzione, restringe il principio di legalità, mortifica i diritti costituzionali alla proprietà e alla libertà di iniziativa economica. E fa sferragliare quell’enorme carrozzone che è stato finora l’Agenza nazionale dei beni confiscati.

Ma come si fa a dire no, se si tratta di lottare contro la corruzione? Chi dice no, non vuole lottare: questo deve essere il sottinteso che spinge il capogruppo al Senato del partito democratico, Luigi Zanda, a escludere ogni ripensamento in materia. Come se si trattasse di allontanare da sé, e dal partito, il sospetto di immoralità, di connivenza con il malaffare, di indecente tolleranza nei confronti del delitto. Così bisogna fare la gara coi populisti nel dimostrare che, nella lotta alla corruzione, sono solo gli avvocaticchi e gli azzeccagarbugli, i causidici e gli intrallazzatori quelli che si mettono di traverso.

Gli avvocaticchi, gli azzeccagarbugli, e Berlusconi. Questo, infatti, è il panno rosso che «Repubblica» agita dinanzi al toro dell’opinione pubblica rispettabile e di sinistra, per spingere la legge: mette da una parte la parola «antimafia», che porta con sé l’idea di una cosa che va fatta e non può non esser fatta, senza indebolire in maniera inaccettabile il fronte della lotta alla criminalità organizzata, e dall’altra associa a dubbi e perplessità sul provvedimento il nome dei berluscones che si muovono felpati nei corridoi di Palazzo Madama, senza mancare ovviamente di evocare i processi ancora in corso a carico del Cavaliere. Come se appunto le manovre in Parlamento a cui il Pd non dovrebbe prestarsi riguardassero la possibilità che l’approvazione della legge minacci le proprietà di Berlusconi.

Dopo vent’anni e più, il totem dell’antiberlusconismo, grazie al quale è stato costruito l’impasto di populismo e giustizialismo che domina la scena politica italiana, evidentemente funziona ancora. D’altronde, come si può spiegare altrimenti il fatto che il partito democratico continua a subire la fiumana retorica a cinquestelle, se non perché certi germi li ha incubati nel suo seno? Questa idea che il diritto può essere messo da parte, se si tratta di mandare a casa i ladri e i corrotti, è il leit motiv di qualunque intervento grillino in materia di politica della giustizia. Ma quali idee alternative ha il partito democratico, e quanto deve temere di tirarle fuori, se il semplice accostamento del nome di Berlusconi basta a frenarne qualunque spirito critico, e a farsi paladino di misure giacobine, manifestamente illiberali?

(Il Mattino, 23 giugno 2017)