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L’insostenibile trincea dei diversamente avversari

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C’è dell’ironia involontaria nella scelta del nome che i comitati riuniti a Roma da Massimo D’Alema si sono dati. Nome nuovo e simbolo nuovo: conSenso. L’ironia non sta tanto nel doppio significato della parola, scritta con la maiuscola in mezzo, quanto nell’ambizione: di quale consenso si parla? Del consenso di una formazione che, alla sinistra del partito democratico, dovrebbe raccogliere tutto il malcontento manifestatosi già a dicembre, con il No al referendum costituzionale. Raccoglierlo tutto non è un’impresa facile, perché alla sinistra del Pd si fa fatica a contare il numero di formazioni, forze e partiti che a vario titolo hanno la medesima aspirazione. L’elettore medio non lo sa, ma esiste ancora, da quelle parti, l’eredità comunista di Rifondazione; forse ne ha perso la memoria, ma ci sono ancora formazioni e associazioni verdi e ambientaliste. C’è Possibile, il movimento di Pippo Civati. C’è Sinistra italiana, anche se rischia di dividersi irreparabilmente nel corso del suo primo congresso. C’è Pisapia, che vuol fare una cosa tutta nuova. E sicuramente ci sono altre sigle, di cui non è facile serbare il ricordo. Poi, nel Pd, ci sono Cuperlo, Rossi, Emiliano, Speranza, Bersani: tutti avversari di Renzi ma, manco a dirlo, diversamente avversari.

Nulla di nuovo, in verità: il minoritarismo è una vecchia malattia della sinistra italiana. Proprio perciò, si potrebbe dire, questa volta l’ex Presidente del Consiglio sta facendo la cosa giusta, proponendo un’ipotesi di ricomposizione di un’area che, dopo la scoppola rimediata da Renzi al referendum, avrebbe davanti a sé una prospettiva politica chiara e larga.

In realtà, è vero esattamente il contrario. Quel che non si capisce è infatti perché la sinistra-sinistra dovrebbe trovare in Massimo D’Alema il suo campione. Dopo averlo per anni rappresentato come l’uomo dell’inciucio con Berlusconi, della Bicamerale, del patto della crostata, della Lega costola della sinistra e di Mediaset risorsa del Paese – per non dire della guerra nell’ex Jugoslavia, o della riforma del mercato del lavoro (che non comincia con il Jobs act, ma con i governi dell’Ulivo) – tutti quelli che sono usciti da sinistra prima dal Pds, poi dai Ds, poi dal Pd, trovando D’Alema ogni volta alla propria destra, ora dovrebbero invece affidare a lui le chance di rinascita della sinistra quella vera, quella tradita dal Pd di Renzi.

C’è dell’ironia involontaria, perché il consenso di cui si tratta non è quello che D’Alema e i suoi vogliono riconquistare, ma solo quello che vogliono erodere al Pd. D’Alema non vuole aggiungere, vuole sottrarre. Lo scenario neo-proporzionalista disegnato dalla decisione della Consulta glielo consente. Si può discutere se vi sia uno spazio politico per la formazione che D’Alema si prepara a far nascere; è indiscutibile che, con la nuova legge, vi sia uno spazio parlamentare. Piccolo, ma in uno scenario frammentato non insignificante. Perciò non c’è bisogno di particolari doti divinatorie: se, come è probabile, non si troverà un accordo sul Mattarellum proposto dal Pd e si rimarrà dentro coordinate di tipo proporzionale, si può star certi che conSenso nascerà.

Si dice: la storia della sinistra italiana è punteggiata di divisioni, da Livorno a Palazzo Barberini fino alle lacerazioni post-comuniste della seconda Repubblica. È vero, ma fratture e scissioni hanno avuto un senso diverso, a seconda della prospettiva politica in cui si inscrivevano: in un primo senso, si è trattato dell’integrazione nelle strutture dello Stato democratico e, quindi, dell’ingresso nell’area di governo; in un secondo senso, si è trattato di una chiave del tutto opposta, di rifiuto di qualunque compromesso con le regole della democrazia borghese. In un ultimo senso, si è trattato invece di un mero riflesso identitario, di una chiusura idiosincratica e difensiva rispetto a cambiamenti mal digeriti è mai accettati. In quest’ultimo senso Renzi è stato vissuto da D’Alema fin dal primo giorno in cui il sindaco di Firenze ha lanciato la sua opa sul Pd. Un estraneo, un usurpatore, un pericolo per la ragione sociale della ditta.

ConSenso nasce infatti non tra coloro che hanno votato No, non tra coloro che vogliono abbattere il capitalismo, non tra quelli che vogliono ritornare all’articolo 18 e neppure tra quelli che vogliono la democrazia diretta è nuove forme di partecipazione: nasce tra quelli che non vogliono Renzi. In conciliaboli privati , D’Alema del resto non lo nasconde: non è una questione programmatica, non può esserlo per chi ha discusso con Berlusconi di semipresidenzialismo, per chi vantava, quando era al governo, rigore nei conti e avanzi primari come neanche la Destra storica di Quintino Sella, di chi, infine, ha litigato aspramente con la Cgil di Cofferati. Non è una questione programmatica, è una questione politica in senso esistenziale, è una frattura incomponibile fra amici e nemici. In una fase storica profondamente segnata dal risentimento, che nasca un piccolo soggetto politico da una spinta di questo genere non può sorprendere. Che a farlo nascere sia l’ultimo erede del partito comunista di Togliatti e Berlinguer sorprende un po’ di più. Che infine non si veda, o si faccia finta di non vedere che torti e ragioni contano assai poco, perché il partito del risentimento non potrà mai essere conSenso, ma solo i Cinquestelle, ecco: questa è cosa che sorprende molto, molto di più.

(Il Mattino, 29 gennaio 2017)

In regime di regime

Su Giornalettismo, Luigi Castaldi (Malvino) discute e critica l’articolo da me pubblicato su Il Mattino (Chi grida al regime che non c’è). Nell’articolo, io distinguo per semplicità due casi, quando il regime prende la strada maestra della soppressione delle libertà civili, e fa tutto quello che bisogna fare per sbarazzarsi anche solo di una parvenza di democrazia. Che non sia questo il caso, mi pare che dopo tutto lo pensi anche Malvino. Lui fa in verità l’esempio di una legge liberticida (il lodo Alfano), e immagino ritenga possa farne anche altri: io non entro nel merito, dico solo che vedo la differenza fra una legge liberticida del genere e le leggi liberticide del 1925. Il che non significa che la nostra democrazia goda di ottima salute (potrei aggiungere qualche argomento di rincalzo, ma per il momento evito: per brevità, e per venire al caso più interessante).
Che è il secondo, quello in cui il regime consente senza imbarazzi all’opposizione di opporsi più o meno verbalmente, essendo divenuta irrilevante ogni manifestazione di dissenso (e in particolare: essendo divenuto irrilevante lanciare il grido d’allarme). Curiosamente, Malvino argomenta per tre quarti del suo articolo come se io non avessi distinto il caso, per poi farla abbastanza facile quando arriva a quel che infine, secondo lui, io al riguardo "concederei". No, io non mi limito a concedere: distinguo espressamente questo caso dall’altro, e aggiungo pure che questo caso è ben più "raffinato" (intellettualmente parlando) dell’altro, perché tira in ballo lo svuotamento sostanziale degli istituti democratici, i quali rimangono formalmente in piedi, privi però di qualunque significato effettivo. A questo riguardo, Malvino manca tuttavia di citare il mio argomento principale (potrei quasi dire l’unico): che una roba del genere non si fa dalla sera alla mattina, non si fa in pochi mesi, non si fa dalle ultime elezioni ad oggi. Il riferimento alle ultime elezioni serve per prendere posizione sulla fase politica attuale, e per dire (implicitamente ma non troppo) che solo se si contesta almeno il carattere democratico delle ultime elezioni politiche generali si ha titolo per parlare di regime (e in tal caso per affermare che del regime è parte pure l’opposizione, che quella denuncia non ha elevato durante la campagna), non se ci si limita alla cronaca degli ultimi mesi. Che era precisamente il problema che io ponevo: se uno pensa che c’è il regime (in senso liberticida e antidemocratico), deve fare un’opposizione politica conseguente, e di sicuro non limitarsi a dire che c’è il regime. Altrimenti, è lecito pensare che gridare al regime è il modo per coprire l’insufficienza della propria azione politica (ma su questo punto, che era poi il mio punto, Malvino non mi pare si soffermi abbastanza).

C’è infine la questione del consenso. Io ho scritto, in buona sostanza, che se si afferma che il consenso è drogato, poi come si fa? Si sarebbe conseguenti, di nuovo, non partecipando alle elezioni. Si noti: io non ho detto che in democrazia non sia un problema capitale come si formi il consenso, e non capisco quindi perché Malvino consideri che per me la questione del conflitto di interessi sarebbe irrilevante (al massimo, aggiungerei – senza peraltro pretendere con ciò di sminuire il problema – che sulla formazione del consenso incidono anche altre cose, mica solo la tv). Ho detto solo che se l’espressione del consenso è drogata e inattendibile, allora si sia conseguenti, si denunci il carattere fittizio e ideologico degli istituti della democrazia formale, e si prendano altre vie. Quel che io penso è che per fortuna non siamo a questo punto (e non, per esempio, che il sistema radiotelevisivo non debba essere normato). Quel che più in generale io mi aspetto, è che se, pur lamentando tutte le insufficienze del caso, accetti il gioco democratico e competi elettoralmente, allora non sei molto credibile nel parlare – anzi: nel caratterizzare politicamente la tua opposizione come quella che denuncia il carattere antidemocratico del regime (e fittizio e illusorio delle elezioni). Ci vuole dell’altro, e troppo spesso si ha l’impressione che dell’altro non ci sia.