La scadenza è stamane: fra poche ore si saprà quanti sono i candidati al consiglio comunale, e quanti quelli che puntano a entrare invece nei consigli circoscrizionali. Ma se il numero esatto non lo si conosce ancora, si conosce invece l’ordine di grandezza: sono tanti. Più di quanti siano mai stati in passato. E non solo a Napoli, ma un po’ dappertutto in giro per l’Italia proliferano le liste, neanche fosse rivolto proprio a loro l’antico precetto biblico: crescete e moltiplicatevi.
Perché si moltiplicano davvero, secondo un’esigenza che si direbbe però topografica o toponomastica, più che politica. Il principio sembra essere infatti: non vi sia un solo quartiere, isolato, condominio che non abbia il suo candidato. Il poliziotto di quartiere non lo si riesce a trovare, per quante volte sia stato istituito; di candidatidi quartiere invece sì, ormai ne abbiamo in gran quantità.
Non è un paradosso. È la risposta in termini di quantità ad una perdita di qualità. Ma è dubbio che sia la risposta giusta, quella che rimette in sesto i partiti, migliora la rappresentanza, avvicina i cittadini alle istituzioni. Sembra anzi il contrario: un sintomo grave della mancata tenuta del sistema dei partiti. Che non riescono a rivolgere all’elettorato una proposta politico-programmatica chiara, forte e riconoscibile. Una proposta, cioè, che per essere votata non debba essere sostenuta in maniera palesemente surrettizia dalla pletora dei candidati. Se infatti il rapporto fra costoro e il numero di posti disponibili nei vari consigli cresce in maniera esponenziale, di elezione in elezione, è perché diminuisce inversamente il numero delle motivazioni alle quali attingere, per dare il proprio voto a un partito o a una coalizione. Rimane il rapporto personale, fondato sulla conoscenza diretta di qualcuno che sia in lista, e che ti chiede il voto sol perché lo conosci, perché è un amico o l’amico di un amico che te lo ha presentato, o semplicemente perché vive nella stessa strada dove vivi tu. E per nessun’altra ragione.
Si potrebbe dire: è la via con cui i partiti tradizionali, in tempi di disintermediazione e perdita di autorevolezza, rispondono all’«uno vale uno» che i grillini sbandierano da che sono entrati in Parlamento. Si dovrebbe dire piuttosto: è un’altra maniera di dimostrare, per li rami, che la rappresentanza è azzerata, non rafforzata da quel principio. Si potrebbe dire: è la via per eleggere dei candidati che finalmente siano proprio come noi, proprio uguali a noi, che così li votiamo più volentieri. Si dovrebbe dire invece: è la rinuncia ad un’ambizione che anche in democrazia dovrebbe essere tenacemente coltivata, che quelli che ci rappresentano siano eletti non perché uguali, ma perché migliori di noi (nel senso almeno di essere più adeguati ai compiti che li aspettano).
Ma il fenomeno che esplode nella corsa al consiglio comunale riproduce in piccolo quanto peraltro la storia politica del Paese dimostra in più grande formato. Perché nel corso della prima Repubblica, quando pure vigeva un sistema elettorale proporzionale, il numero dei partiti era contenuto entro limiti fisiologici, e così anche il numero di liste confezionate in vista delle elezioni amministrative. Il declino dei partiti tradizionali, che è stato insieme declino della loro base ideologica e del loro personale politico, si è tradotto in un incremento impressionante di formazioni politiche, con conseguente espansione delle possibilità di cambiare casacca, utilizzando spesso formazioni minori, liste e altre aggregazioni costituite ad hoc. Da questo punto di vista, può molto poco il correttivo maggioritario introdotto ai diversi livelli istituzionali, con leggi più o meno fortunate. In particolare, l’elezione diretta del sindaco è considerata la miglior legge elettorale che sia stata introdotta da vent’anni o poco più a questa parte, e forse lo è davvero. Ma anche la migliore ingegneria elettorale può poco, se i partiti non riescono più a raccogliere voti. Il meccanismo elettorale può assicurare governabilità, rafforzando i poteri del primo cittadino, ma non può sostituirsi a quello che una volta si chiamava il lavoro politico, e che non si capisce più come, da chi e perché debba essere fatto.
Prima ho detto che non è un paradosso, ma l’espressione più lampante della crisi e della difficoltà della politica di articolare ragioni per conquistare consenso. Ora però aggiungo che un paradosso c’è, dal momento che facciamo tutti i giorni la critica della casta politica in nome della società civile, e al dunque ci accorgiamo che rovesciare l’una nell’altra, come avviene massicciamente con la carica dei candidati, non dà affatto i risultati sperati. E, a giudicare dagli ultimi turni elettorale, non li dà nemmeno in termini di affluenza. Rischia anzi di finire come in «Le vie del signore sono finite», con Massimo Troisi che rinuncia a leggere perché lui è uno, mentre a scrivere sono in milioni. La scena sembra la stessa: migliaia di candidati, e l’elettore votante che nemmeno lui, da solo, ce la può fare.
(Il Mattino– Napoli ed., 7 maggio 2016)