Una frase abietta, odiosa, spregevole ha costretto Rosario Crocetta a sospendersi dalle funzioni di Presidente della Regione Sicilia. E tutto il Paese a chiederne le dimissioni. La frase non appartiene a lui, ma al suo medico personale, Matteo Tutino, di recente arrestato, che all’amico governatore dice – senza che il governatore abbia una reazione e accenni una replica, un dubbio, un distinguo – che Lucia Borsellino, la figlia del giudice Paolo Borsellino ammazzato dalla mafia ventitré anni fa, «va fermata, fatta fuori. Come suo padre». Lucia Borsellino si è dimessa da qualche giorno da assessore della giunta Crocetta, dopo l’arresto di Tutino; la frase incriminata risale invece, almeno secondo il settimanale L’Espresso, che l’ha divulgata, al 2013 (secondo i giornalisti che firmano il pezzo risale invece a «pochi mesi fa»). Per il procuratore capo di Palermo, infine, quella frase non è agli atti, non risulta trascritta nell’ambito del procedimento che ha portato all’arresto del primario: semplicemente non c’è, non esiste.
Fin qui la giornata di ieri, in una ridda di lanci di agenzia, dichiarazioni, comunicati, smentite, richieste di dimissioni, richieste di ispezioni, richieste di elezioni. La gravità di quelle inqualificabili parole spiega da sé come abbiano potuto mettere a rumore l’intero mondo politico, e suscitare un moto di sdegno altissimo: non spiega però perché quelle parole siano finite sul sito del settimanale. Essendo nel frattempo intervenuta la smentita della Procura, la domanda sembra essere solo perché sia uscita una notizia così falsa e infondata. E invece la domanda ci starebbe tutta, anche se quella frase si trovasse effettivamente negli atti segretati di uno dei filoni di indagine su Tutino, come l’Espresso in serata ha, in maniera inquietante, ribadito.
È evidente che è difficile ragionarci su, tanto gravi e pesanti sono quelle parole, tanto immediata e necessaria è la solidarietà a Lucia Borsellino. Però dobbiamo farlo, dobbiamo chiederci ugualmente se è questo che noi vogliamo, se è questo che noi chiediamo alla nostra democrazia, se cioè ci sentiremmo davvero più sicuri, più liberi, più garantiti, se fossero pubblicate tutte le conversazioni, rese note tutte le parole, diffuse tutte le voci che affollano una qualunque conversazione privata: fra un generale e un Presidente del Consiglio – come nel recente caso di Renzi e del generale Adinolfi – così come fra un amministratore e il suo medico, o fra chiunque si trovi a qualunque titolo sotto intercettazione, sia o no ricco o famoso, potente o influente. Di questo infatti si tratta: di una democrazia che rinuncia a porre qualunque intercapedine fra sfera privata e sfera pubblica, che cancella ogni spazio di riservatezza, che sorveglia ogni comunicazione, e che poi affida alla casualità soltanto apparente della fuga di notizie effetti dirompenti, che sconquassano letteralmente le istituzioni.
In nome di cosa? Del diritto a sapere? Ma del diritto a sapere cosa? È chiaro infatti che in questo, come anche in altri casi, non c’è nulla che rilevi da un punto di vista strettamente giuridico: Tutino non è finito agli arresti per tentato omicidio. Le squallide parole riferite – ammesso e dalla Procura non concesso che siano state effettivamente pronunciate – sono dunque pubblicate da un giornale in nome soltanto del diritto a informare e ad essere informati. Ma c’è davvero un diritto a essere informati di cosa passi per la testa di una persona, che in privato, ad amici, oppure tra le mura della propria abitazione confessi per esempio le sue debolezze, o le sue perversioni, o le sue opinioni su questo e quello? C’è un diritto a costringere un uomo a piangere in pubblico, per quello che forse altri ha detto, per un silenzio che forse ha tenuto, per una viltà che forse ha commesso? No, un diritto simile non c’è, non è contemplato dalla Costituzione e non appartiene a una cultura liberale. Non si può giustificare la pubblicazione della ignobile «petit phrase» di Tutino in base al diritto di sapere che genere di persona sia il medico, e che pensi di lui e delle sue supposte infamie Crocetta. In una società liberale, ciascuno ha invece un altro diritto: quello, fondamentale, di essere in privato la persona che vuole essere – cinica oppure beffarda, meschina oppure vile – senza dover temere che l’intrusione di una microspia la strappi ai suoi vizi privati, alle sue abitudini linguistiche e ai suoi scatti d’umore, ai suoi scherzi di cattivo gusto e alle sue espressioni di libidine.
E invece oggi viviamo in questo timore. Certo, noi pensiamo che a una simile esposizione siano condannati solo i personaggi pubblici, i potenti, e ci prendiamo così le nostre piccole, maligne vendette su di loro, per ogni bassezza che ci viene rivelata. Dimentichiamo purtroppo che prima di essere «personaggi» sono «rappresentanti», sono «eletti», e siedono in organi costituzionalmente protetti. Dimentichiamo cioè che l’offesa alla loro libertà snatura la nostra democrazia, forse irreparabilmente. Perché una cosa è certa: per come la conosciamo e l’abbiamo praticata fin qui, l’ultimo dei luoghi in cui è possibile realizzare un ordinamento democratico è una casa perfettamente di vetro, in cui tutti vedono tutto e tutti sanno tutto di tutti. Non si chiamerebbe libertà, non si chiamerebbe democrazia, si chiamerebbe terrore.
(Il Mattino e Il Messaggero, 17 luglio 2015)