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Intellettuali folgorati dai populisti

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Lo scollamento fra il sistema politico e il Paese sta tutto in un numero, che campeggiava ieri sulla prima pagina del Corriere della Sera, in cima all’editoriale di Galli della Loggia. Il 58% degli italiani non si riconosce nei partiti che hanno governato il Paese durante tutto il corso della seconda Repubblica, di destra o di sinistra che fossero. Ora, quel numero è falso. O perlomeno: è frutto di una somma, di per sé discutibile, fra il tasso di affluenza previsto (non si sa da chi) alle elezioni politiche del prossimo anno, e le dimensioni del voto per i Cinquestelle (la cui stima viene affidata ai sondaggi, abbondantemente arrotondati per eccesso). Ci sono, in vero, modi intellettualmente molto più limpidi di schierare un giornale.

Ma non è ovviamente dei numeri e delle percentuali che vale la pena discutere, quanto piuttosto del ragionamento in cui vengono inseriti. Che è grosso modo il seguente: metà del Paese non ne può più di una classe dirigente sempre uguale a se stessa; il Movimento Cinquestelle non è un movimento eversivo, perché non usa le armi; dunque non c’è motivo – oppure: la classe politica italiana non offre alcun motivo – per non votare i Cinquestelle.

Se questo ragionamento è corretto, allora vuol dire che il Corriere della Sera, per mano di uno delle sue firme più prestigiose, non troverebbe molto da obiettare, e nulla da temere, da un voto che equivalesse semplicemente a un rifiuto, a una espressione di insofferenza, a un moto di rigetto. Come il protagonista del film “Quinto potere”, il commentatore televisivo Howard Beale, si tratta semplicemente di gridare a pieni polmoni: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più». In una maniera che ricorda per la verità altri tempi e altri regimi, Galli trova che l’unica cosa che resta da fare ai politici (a quelli che ci sono stati finora), è un atto di contrizione: fare pubblica ammenda, confessare i propri sbagli, e poi togliersi rapidamente di mezzo. E questo vale per tutti, senza distinzioni di sorta.

Nell’analisi di Galli non entra nient’altro: le posizioni europeiste o anti-europeiste di questa o quella forza politica, l’atlantismo o il putinismo, le politiche del lavoro o quelle migratorie, le posizioni nella materia dei diritti o la cultura (o piuttosto incultura) costituzionale. Non entra nulla, nessuna grande questione da cui invece dipende il futuro del nostro Paese. Il discrimine, lo spartiacque passa solo ed esclusivamente fra la classe politica che ha mal governato negli ultimi vent’anni da una parte, e dall’altra i Cinqustelle, che non avendo governato sono mondi da ogni responsabilità.

E non sono, per la fortuna di tutti, una forza eversiva. Inutile agitare spauracchi. Evidentemente basta questo, nel giudizio dell’editorialista del Corriere, per costruire attorno a Grillo e Di Maio il profilo di una forza affidabile, alla quale è possibile – e forse persino doveroso, visto il discredito di tutte le altre formazioni politiche – mettere nelle loro mani Palazzo Chigi.

Ora, è chiaro che non di eversione democratica si tratta, e salvo momenti di propaganda o di polemica spicciola, non c’è, seriamente parlando, nessuno il quale pensi che i grillini sono pronti a impugnare i fucili e a mettere le bombe. Si tratta però di populismo della più bell’acqua, a cui Galli della Loggia tiene disinvoltamente bordone. Non a caso, degli sforzi che pure i Cinquestelle fanno, per declinare un programma politico-elettorale e inventarsi un profilo di classe dirigente seria e preparata, nell’editoriale di Galli non c’è nessuna traccia. Nessuna proposta viene ripresa, e nessuna disamina viene condotta: ai Cinquestelle è sufficiente non esser compromessi con il passato, per meritarsi il 58% che Galli mette di fatto sotto le loro insegne. Come se non votare e votare per il M5S fossero la stessa cosa. Come se a non essere degni della fiducia di chi si astiene fossero tutti, meno però i grillini.

Ma mi sia permesso ancora un altro paio di osservazioni. Anzitutto, di prese di posizione così, di editoriali così se ne sono già visti, in questi anni. Articoli in cui si chiedeva di fare piazza pulita, mani pulite, tutto pulito, dopo i quali però i miracolosi cambiamenti che ci si attendeva dal repulisti non arrivavano mai. Non sono mai arrivati. Erano un inganno, oppure ci si ingannava: sta di fatto che purtroppo Galli della Loggia perpetua quell’inganno ancora oggi. In secondo luogo, è sorprendente che Galli non dia un minimo di prospettiva storica alle sue considerazioni, né provi a condurre un confronto con altri Paesi europei. Che per esempio hanno percentuali di affluenza al voto simile all’Italia, e in cui i meccanismi democratici rischiano di incepparsi come da noi. Lo stato di salute delle democrazie occidentali non è florido, ma che i Cinquestelle siano la cura miracolosa, invece che un’espressione della patologia del sistema, questo andrebbe forse argomentato con qualcosa di più di uno scoppio di insofferenza verso tutti gli altri.

E forse, a proposito di patologie, è da chiedersi se non sia in essa da comprendere anche una così desolante bancarotta di un pezzo del nostro ceto intellettuale, questa dichiarata volontà di fare le cose semplici, sostituendo a un’analisi politica circostanziata nient’altro che un gesto di impazienza. Non possiamo chiamarlo, con Gramsci, “sovversivismo delle classi dirigenti”, perché altrimenti Galli rispolvera il suo pezzo retorico sui Cinquestelle che non sono eversivi. Ma è qualcosa, tuttavia, che sul piano delle forme ideologiche e culturali gli somiglia molto, molto da vicino.

(Il Mattino, 27 novembre 2017)

Se la mappa della filosofia cancella il Sud

2277007_pckg_170148780911016006-20170223-jpg-pagespeed-ce-lgwp2j1w4hImpossibile tracciare una mappa della filosofia in Italia. Accompagnando la meritoria iniziativa del «Corriere della Sera» che pubblica una nuova collana di libri dedicata ai «maestri del pensiero più importanti», Pierluigi Panza, a colloquio con il presidente della Società Italiana di Estetica, Elio Franzini, ci prova coraggiosamente in due righe. Eccole: «la scuola di Milano ha avuto una tradizione fenomenologica con Banfi e Paci; quella di Torino è stata caratterizzata dall’ermeneutica, ma ora ha svoltato con il «ritorno alle cose» di Ferraris; epistemologia e cognitivismo di stampo anglosassone sono variamente disseminati; al Sud è sopravvissuto un po’ di idealismo crociano con un approccio più storicista». Poche righe sommarie, in cui non compaiono Venezia, Padova o Pisa, ma in cui soprattutto il Mezzogiorno quasi non è avvistato: se non fosse per le sparute sopravvivenze storiciste, citate con troppa sufficienza, sembrerebbe che al di sotto della linea Gustav di filosofia non ve ne sia quasi più traccia.

Le cose però non stanno così. Basti pensare che fra gli autori italiani di gran lunga più tradotti all’estero vi sono oggi Giorgio Agamben e Roberto Esposito, uno romano e l’altro napoletano: chiunque intendesse stendere una mappa della filosofia in Italia, a meno di personali idiosincrasie, non potrebbe non includerli in posizione di spicco. E, certo, comprenderebbe il bresciano Emanuele Severino, il milanese Carlo Sini, il veneziano Massimo Cacciari e il torinese Gianni Vattimo, ma anche i napoletani Vincenzo Vitiello, Biagio De Giovanni e Paolo Virno, e i romani Donatella Di Cesare, Pietro Montani e Gennaro Sasso. Se si disputasse il derby fra Nord e Sud – come fecero i Monty Pithon con la finale mondiale fra filosofi greci da una parte e tedeschi dall’altra – Roma e Napoli, insomma, non sfigurerebbero affatto.

Ci sarebbero volute più righe? Certo, ci sarebbero volute più righe. Ma soprattutto ci sarebbero voluta una più generosa attenzione verso tradizioni e stili di pensiero che evidentemente l’articolista non ama: dall’ermeneutica al post-operaismo, dal neoparmenidismo alle filosofie del senso. Ne sarebbe venuta fuori la rappresentazione di una ricerca filosofica molto più vivace e molto più plurale, per nulla prossima alla scomparsa.

Quel che invece rischia davvero di scomparire, e che forse induce a qualche errore di prospettiva, è l’infrastruttura istituzionale che dovrebbe sostenere l’insegnamento e la diffusione del pensiero filosofico, ormai al Sud quasi del tutto assente. La morte di Gerardo Marotta ha riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica la vicenda dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e della sua biblioteca, che rischia di divenire metafora di un più generale destino della ricerca nel Mezzogiorno. Ma siccome l’articolo del Corriere della Sera si chiude con una sentenza discutibile, che cioè oggi si fa filosofia «senza disturbare», proviamo a recare qualche disturbo.

O almeno a porre una domanda: se il Mezzogiorno non ha più un grande editore (e non ha più una grande banca), se il sistema universitario meridionale viene continuamente penalizzato nel trasferimento delle risorse, se i centri di ricerca non dispongono degli stessi polmoni finanziari che sostengono la ricerca al Nord, se manca o è carente l’organizzazione di grandi kermesse, se chiudono le fiere della letteratura o dell’arte, se tutto questo avviene nonostante la ricchezza di espressioni artistiche, fermenti letterari, compagnie teatrali, gruppi musicali che si muovono in città come Napoli, deve meravigliare il fatto che un grande giornale milanese, a colloquio con un professore milanese, scriva che di filosofia al Sud ce n’è pochina, quasi nulla, e che magari quella che c’è ha un certo sapore d’antico?

Qualche settimana fa si è tenuta a Bologna la Fiera Internazionale di Arte Contemporanea. Bologna: ovvero il lembo più meridionale del sistema italiano dell’arte, perché sotto l’Appennino tosco-emiliano esposizioni simili non ce ne sono. È quasi inevitabile, allora, che chi volesse basare la propria mappa dell’arte italiana oggi su tutto quello che simili manifestazioni mettono in circolo avrebbe qualche difficoltà a inserirvi significative presenze meridionali.

La teoria istituzionalista sostiene che è arte ciò che le istituzioni del mondo dell’arte affermano che sia tale. Forse è solo un escamotage, per sfuggire al compito impossibile di metter su una definizione che consenta di tenere insieme Raffaello e Malevic, Giotto e Andy Warhol. Ma se qualcosa del genere è stata proposta persino per la scienza, al punto che vi sono epistemologi per i quali scienza è ciò che la comunità degli scienziati dice che è tale, figuriamoci se questo non accade anche nei riguardi della filosofia, il cui statuto è molto più incerto.

O perlomeno: è incerto solo in linea di principio, perché, come giustamente osserva Franzini nella conversazione sul «Corriere», se si prende un filo che proviene dal fondo della tradizione occidentale e lo si prova a tirare fino a noi, un modo per orientarsi nel pensiero, e riconoscervi la forma in cui la filosofia si continua, di fatto c’è. Ma chi lo tira, quel filo? Se a tirarlo sono sempre gli stessi giornali, a margine della pubblicazione delle stesse collane, proposte dagli stessi gruppi editoriali, con operazione culturali che guardano verso le stesse scuole filosofiche che son lì a fare da sponda, allora è inevitabile che solo alcuni fili vengano sempre di nuovo tessuti, mentre altri finiscono con lo spezzarsi e col perdersi.

Una mappa della filosofia in Italia è impossibile, dicevamo. O meglio: dice Panza sul «Corriere della Sera». Ma non dice chi, nel caso, dovrebbe tracciarla, e soprattutto ignora il punto decisivo, che cioè la mappa viene ogni volta tracciata in via di fatto entro l’organizzazione dei saperi e dei poteri di una società. Se si vuole una filosofia che torni a recare qualche disturbo, forse non bisogna liquidare troppo in fretta una simile questione. E le commistioni con società, politica e scienza, che ancora Franzini giudica positive, come un accrescimento del senso del filosofare, aiuteranno allora a disegnarne una trama meno semplificata e soprattutto meno sbrigativa di quella che vede solo un po’ di Milano e un po’ di Torino, qualche sparso e inoffensivo residuo storicistico, tra Napoli e Bari, ma tutto considerato posizioni marginali, a cui non si deve molto più che un atto di omaggio. Le cose non stanno così e, sia detto en passant, se mai compariranno nelle prossime uscite della collana filosofi italiani, si può star certi che – da Bruno a Vico, da Croce a Gentile – saranno pensatori meridionali.

(Il Mattino, 23 febbraio 2017)

Houellebecq e l’imbecillità “degli altri”

michel_houellebecq_gq_2014_511xUna «spaccatura abissale» si è venuta a creare tra «i cittadini e coloro che dovrebbero rappresentarli»: dovrebbero, perché di fatto non li rappresentano, anche se non è affatto chiaro, temo, il significato della rappresentanza democratica a chi scrive queste cose. Chi scrive è Michel Houellebecq, che sulle pagine del Corriere di ieri ha affibbiato la patente di imbecillità all’intero classe politica francese, a cominciare da quel «ritardato congenito» che risponde al nome di François Hollande, Monsieur le Président. Houellebecq se lo può permettere, non solo perché è uno dei più grandi, e uno dei più discussi, scrittori francesi contemporanei, ma anche perché ha dato quest’anno alle stampe un romanzo, Sottomissione, in cui descrive una Francia ormai politicamente, intellettualmente e perfino sessualmente esausta e infiacchita, e immagina che in un simile  scenario, in un futuro non troppo lontano, possa salire all’Eliseo un leader musulmano moderato. Tutte le paure francesi hanno trovato ricetto nelle pagine di Houellebecq, tutto l’orgoglio gallico se ne è dovuto risentire. E  così il libro ha fatto discutere: molto. In verità ogni libro di Houellebecq fa discutere, e anche l’articolo di ieri fa discutere e va discusso.

Perché, dunque, imbecilli, i politici francesi? Perché hanno fatto l’opposto di quel che dovevano fare, per fronteggiare la minaccia islamista: hanno tolto le frontiere e favorito così l’immigrazione, e invece dovevano preservarle, presidiarle e difenderle, e hanno bombardato (oggi in Siria, ma ieri in Iraq e in Libia, per dire dei principali focolai di crisi), e invece non dovevano bombardare. Cosa che il popolo francese sa benissimo, ha sempre saputo, e che solo una manica di imbecilli si è ostinata per decenni a non capire.

Ora, l’ingenuità dilettantesca di un simile giudizio si spiega forse per la verve letteraria che lo scrittore sa mettere nel suo giro di frase: figuriamoci, infatti, se non è parlar chiaro dare a qualcuno dell’imbecille. E siccome il parlar chiaro riesce più vivace e persuasivo di qualunque estenuante distinzione intellettuale o ragionamento politico, voilà: politiche dell’immigrazione e politica estera divengono solo più il parto di gente manifestamente incapace (che, sia detto per inciso, non si capisce bene perché la popolazione – che per Houellebecq «non ha fallito in nulla» – continua tuttavia a votare). Ovviamente qualunque analista meno brillante di Houellebecq proverebbe piuttosto a spiegare, condivida o no il giudizio, perché la Francia abbia preso questa strada. Il grande scrittore con vista privilegiata sulle miserie umane no, se la sbriga regalando a tutti il titolo di imbecille, si inventa una democrazia diretta che non si capisce come farebbe fronte al frangente in cui si trova oggi la Francia e ci lascia in difetto di qualsiasi spiegazione.

Ma questo, in fondo, è il meno. Il più è se davvero l’egoismo nazionale in salsa populista di Houellebecq sia la soluzione. Lo scrittore sembra infatti pensare che basti eliminare la classe politica, accompagnare gli immigrati alla porta e promettere di non immischiarsi più di Medioriente e questioni affini, per ottenere la pace nel mondo, o almeno la sicurezza dei francesi. Orbene, bisogna ignorare quasi tutto della storia del mondo, a far data dalle guerre persiane almeno, per coltivare simili illusioni. Le quali ovviamente piacciono alla gente che ama star tranquilla, e che immagina non si debba pagare alcun prezzo per la propria tranquillità, sol che non si turbi quella altrui.

Purtroppo però il corso delle vicende umane dimostra esattamente il contrario: non a caso di Svizzere chiuse nelle proprie valli, in Europa, ce n’è una sola, e anche quella non è poi così fuori dagli affari umani come si potrebbe credere. Ma è l’intero movimento di civiltà da Oriente a Occidente, l’inquietudine che ebbe in origine il nome di Europa a contraddire questa visione.

Basta osservare un paio di cose. Anzitutto un dato: imbecilli o no, gli europei si sono sempre – dicesi sempre – immischiati nelle storie del vicino Oriente (e l’Oriente del promontorio europeo, quando a sua volta ha potuto). Ho detto gli europei per comodità, ma la cosa valse anche per i macedoni di Alessandro Magno o per i romani. Si può anche inscrivere tutto questo al colonialismo, all’imperialismo o all’eurocentrismo dei popoli europei, e si avrebbe anche ragione. Ma di sicuro una visione strategica e una filosofia della storia non si sostituiscono con la facilità con cui si dà dell’imbecille a qualcuno.

In secondo luogo, non si è mai visto, nelle cose della politica, che un atteggiamento di rinuncia o di disimpegno non venga inteso per un segnale di debolezza, o di paura. Chi glielo spiega, all’Isis, che se ne possono star di là, se ci lasciano in pace di qua? Facciamo anche noi opera di immaginazione politica, come Houellebecq nel suo libro: perché un Califfato che negli anni si fosse costruito sull’odio verso l’Occidente, e avesse conquistato l’intero mondo musulmano con questa bandiera, preso il Medioriente e la sponda africana del Mediterraneo dovrebbe finirla là, e starsene quieto nei suoi confini? Glielo dirà Houellebecq, che ognuno se ne stia a casa sua?

Ma il messaggio dello scrittore francese ha il suo fascino, perché l’impiego della forza a difesa della pace, così come l’integrazione fra popoli e culture diverse continuano ad avere, per molti, un suono ipocrita. E invece, altro che parlar franco: la vera ipocrisia è di chi crede che basti davvero non buttare le bombe per avere la pace, o rinchiudersi in una società ottusamente omogenea per avere una vita tranquilla. Poi ci aggiungi il facile risentimento verso i politici incapaci, la fandonia della democrazia diretta e il gioco è fatto: puoi dare dell’imbecille a chiunque. Dare, o anche prenderti.

(Il Mattino, 20 novembre 2015)

La lunga ritirata dei partiti politici

vuoto-benzina-spia-della-benzina-all&-39Alle prossime elezioni amministrative mancano ancora diversi mesi. Difficile dire chi vincerà, ma si comincia a profilare fin d’ora una sconfitta netta: quella della politica organizzata. Cioè dei partiti politici, dalle cui file non si riesce a trovare un solo uomo che si faccia avanti con qualche chance di successo. Non solo: quelli che invece si fanno avanti, o si trovano in prima fila, sono uniti da questo tratto caratteristico, che non sono o non amano presentarsi come uomini di partito. Vale a Roma, vale a Milano, vale pure a Napoli. Ancora: sempre più spesso accade in Italia che sia possibile aspirare alle massime cariche dello Stato, o essere considerati papabili per quelle cariche, senza aver compiuto alcun percorso nei meandri difficili della politica organizzata, cioè daccapo dei partiti politici. Non è un fenomeno recentissimo: in effetti la sinistra ha cercato a lungo papi stranieri, e a destra il primo Berlusconi proveniva da tutt’altre esperienze. Anche la riserva di uomini della Banca d’Italia, a cui la politica ha attinto, aveva questo significato. Ma c’è un’indubbia novità (un aggravamento del morbo?) nel fatto che oggi si attinge a ben altri serbatoi: a quelli che la popolarità mediatica è in grado di riempire, molto più che ai vecchi salvadanai delle competenze tecnico-professionali. Ciò dipende anche da quei rumorosi processi di mediatizzazione della politica che hanno la forza di proiettare nuove stelle nel firmamento della sfera pubblica, relegando in un’inutile penombra curriculum e vecchie liturgie della politica organizzata. Cioè, ancora una volta, dei partiti politici.

Di esempi se ne possono fornire a iosa. A Milano, il partito democratico vorrebbe puntare sul commissario dell’Expo Giuseppe Sala, Berlusconi pensa all’ex amministratore delegato di Eni ed Enel, Paolo Scaroni. A Roma, il Pd esce con le ossa rotte dal folle giro di giostra con Ignazio Marino, e non ha uno straccio di candidato. Il centrodestra, invece, offre lestamente i suoi voti al costruttore Alfio Marchini, il quale ringrazia ma fa subito capire di accettare solo i voti, non le etichette di partito. A Napoli, cinque anni di opposizione in consiglio comunale non sono bastati a dare a Gianni Lettieri il profilo di uomo di partito, e lui non ci pensa nemmeno a rinunciare al marchio della società civile. Nel centrosinistra, sembra invece tornare l’ora di Antonio Bassolino. Perfino di lui si può dire ormai che viene da fuori: ha rappresentato per una vita il mondo dei partiti, e torna in auge proprio perché i partiti non sono capaci di selezionare candidati all’altezza. (E già che ci siamo: anche a Salerno il centrodestra va offrendo candidature a imprenditori e magistrati, ricevendo per ora solo dinieghi, mentre il centrosinistra rimane appeso alle parole di Vincenzo De Luca, che faticherebbe pure lui, biografia a parte, a definirsi uomo di partito).

Infine, al di fuori della dialettica fra i due tradizionali schieramenti (che si dicono tradizionali solo per comodità), ci sono i Cinque Stelle, i quali rifiutano per principio di confondersi con i partiti politici. Loro peraltro teorizzano nuove forme di organizzazione, nuovi canali di partecipazione, nuove regole di selezione delle candidature. Tutto, pur di non sembrare un partito. Col risultato che i loro uomini di punta – i Di Maio e i Di Battista, per capirci – si sono visti proiettati ai vertici della scena istituzionale del Paese con la stessa velocità con cui il vincitore di un reality strappa un contratto discografico. Napoli o Roma, le città per i cui consigli comunali avrebbero potuto passare prima di arrivare in Parlamento, sono già molto più indietro del punto al quale sono arrivati. O così essi credono, almeno.

Che dire poi del fatto, segnalato da Sabino Cassese sul Corriere della sera, per cui una condizione generale di anomia, cioè di assenza di regole, o di debolissima effettività di regole ed istituzioni, permette che l’Agenzia delle Entrate si rivolti contro il principio costituzionale dell’accesso all’impiego pubblico tramite concorso, o che una Procura parta lancia in resta contro la Banca d’Italia con grande risalto mediatico e pochissima sostanza giuridica, o che il popolo del web si scateni contro una decisione del Consiglio di Stato, a proposito della trascrizione delle unioni civili, con poca o nulla preoccupazione per il profilo tecnico della sentenza? Siamo un popolo di finissimi giuristi o viviamo piuttosto sotto un costante, asfissiante pressing comunicativo?

In realtà, la prima Repubblica era tenuta unita dal collante dei partiti politici, che integrava lo scarso senso dello Stato, poco diffuso nel Paese, con un robusto cemento ideologico. La seconda Repubblica ha dovuto fare a meno di quel vecchio impasto, ma non riesce a trovarne uno nuovo. Così i migliori candidati continuano ad essere cercati fra magistrati e imprenditori (e un tempo – breve tuffo nel passato – questo connotato «di classe» o «di ceto» non sarebbe passato inosservato), mentre nelle stanze sempre più disadorne dei partiti continua a cucinarsi quel poco che rimane: la politica dell’imbroglio, della raccomandazione, della corruzione piccola o grande. Il punto non è se sia vera o no questa rappresentazione che continua a dominare la scena pubblica, ma se, sotto queste condizioni, dall’anomia si riuscirà mai ad uscire.

(Il Mattino, 2 novembre 2015)

Partiti non più tradizionali

«I principali partiti tradizionali godono di percentuali sempre più irrisorie», ha scritto Pierluigi Battista sul Corriere, commentando i risultati del voto in Sicilia. Non molto diversamente, Grillo ha ironizzato sui festeggiamenti del partito democratico: forse si attendevano un risultato a una cifra, ha detto. Per dire che c’è poco da festeggiare: continua qui.