La legge Severino ha superato il vaglio della Corte costituzionale. Non è ancora finita, perché pendono altri ricorsi, ma la questione sollevata dal Tar Campania – la prima ad essere giudicata dalla Corte – è stata rigettata. Come si ricorderà, il ricorso del sindaco di Napoli De Magistris si fondava sull’applicazione retroattiva della norma, ma la Corte, ha respinto il ricorso, negando il carattere penale della misura di sospensione applicata al sindaco. Se non si tratta di una legge penale e di una misura afflittiva, non è incostituzionale l’irretroattività. Per De Magistris non cambia però quasi nulla: lo aspetta infatti un’assoluzione o una prescrizione. Nell’uno e nell’altro caso, sarà superata la condanna in primo grado già inflittagli, e così non scatterà alcuna sospensione. Ma la decisione della Corte mette in qualche allarme il governatore della Regione, Vincenzo De Luca.
Anche De Luca ha infatti una condanna in primo grado, per abuso d’ufficio, e anche lui è stato sospeso, salvo poi la sospensione essere stata a sua volta sospesa dal Tribunale di Napoli, con ricorso alla Suprema Corte. Il ricorso di De Luca ha tre frecce al suo arco: con la sentenza di ieri, la prima freccia non è andata a bersaglio. Restano altre due. Resta anzitutto il motivo della diversità di trattamento che la legge Severino prevede per i parlamentari (per la cui decadenza dalle Camere ci vuole una condanna definitiva) e per gli amministratori locali (colpiti da sospensione anche in caso di sentenza di colpevolezza di primo grado: che è il caso appunto di De Luca). Resta poi la questione dell’eccesso di delega. il governo – è la tesi degli avvocati di De Luca – aggiunse nella legge, tra i reati che portano alla sospensione, anche l’abuso d’ufficio (che è di nuovo il caso di De Luca), andando oltre quanto previsto nella delega del Parlamento.
Difficile fare previsione sul futuro pronunciamento della Corte, e proprio questa difficoltà è il principale problema che attende la Campania nelle prossime settimane, o mesi. È chiaro infatti che la vicenda regionale cambierebbe profondamente, qualora De Luca fosse di nuovo sospeso, e gli effetti politici andrebbero probabilmente anche più in là di quelli meramente amministrativi. Ma fin d’ora questa incertezza si trasmette, lo si voglia o no, sul governo della Regione. Nel corso della campagna elettorale, De Luca fu molto netto nel presentare le sue ragioni e, insieme, i torti della legge e del legislatore nazionale. Non poteva fare diversamente: ne andava del voto, e nessuna ombra doveva allungarsi sulla pienezza del suo futuro governo. Oggi però non si può essere altrettanto netti: la sentenza spunta almeno una delle frecce all’arco del governatore.
E ributta la palla nel campo della politica, dove i giocatori non riescono a giocare la partita, sciogliendo davvero i nodi che la riguardano. La legge Severino è infatti stata introdotta per irrobustire l’argine contro la cattiva politica: un argine che dovrebbe essere costruito anzitutto da quegli stessi organismi politici, i partiti, che sono responsabili della selezione delle candidature e della qualità della classe dirigente.
E invece si vuole che i casi della politica siano regolati azionando di volta in volta i giudici di questo o quel tribunale, di questa o quella Corte. Se fra qualche mese la Campania dovesse precipitare in una sorta di limbo amministrativo, con la sospensione del suo governatore, questa volta non sarebbe però – è bene dirlo con chiarezza – per un’invasione di campo della magistratura, o per l’ennesimo conflitto fra le toghe e i politici (che pure in questi anni non ci siamo fatti mancare), ma per avere la politica cercato di assicurare il decoro delle istituzioni solo con il puntello della legge, dove dovrebbe invece bastare la capacità di selezionare con serietà e rigore i propri rappresentanti.
De Luca ha sempre protestato che, nel suo caso, rischia di finire sotto la tagliola della legge per un «reato linguistico»: tale sarebbe l’abuso che gli viene contestato. Ora, importa poco se sia davvero così (importerà, e come, in tribunale); quel che però di sicuro conta, è che la politica non si può neppure permettere di soppesare la circostanza. E non può non perché non possa entrare nel merito di una vicenda giudiziaria, ma perché non ha la credibilità per farlo. Ce ne sono ancora troppi, di episodi di corruzione e di malaffare, perché si possa derubricare a inezia questa o quella vicenda. Così si rimane appesi a una legge: a volte a un avviso di garanzia, altre volte a una condanna non definitiva. A volte a gravi episodi corruttivi, altre volte a vicende bagatellari, in un caso e nell’altro senza avere la forza di rivendicare alcunché, ma sempre solo quella di demandare ad altri il compito di togliere le castagne del fuoco. Col risultato che le stesse decisioni della magistratura diventano una parte del gioco politico, del calcolo delle azioni e delle reazioni, tra astratti furori moralistici e sordide lotte di potere, in una spirale che si sarebbe dovuta arrestare all’alba della seconda Repubblica, e che invece c’è il rischio di portarsi dietro pure nella terza.
(Il Mattino, 21 ottobre 2015)