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L’ultimo atto di un ventennio

ImmagineDell’Utri latitante. Berlusconi ai servizi sociali. Formigoni alle prese col sequestro di beni (posseduti però a sua insaputa). Cosentino, infine, nuovamente in carcere. È dai tempi di Tangentopoli che l’Italia si ritrova tra i piedi il seguente problema: come evitare di scrivere la storia politica del Paese senza mutarla in una storia criminale, in un commento a piè di pagina delle sentenze della magistratura. È un problema maledettamente serio. Con un atto generoso di fede nella politica – non in questo o quel leader politico, non in questa o quella parte politica – si può provare a mantenere il punto: chi volesse raccontare la storia d’Italia degli ultimi vent’anni lo può fare, anche senza rincorrere alle cronache giudiziarie. Dirà allora dello sgretolamento dei partiti della prima Repubblica, dell’avvento di Forza Italia, della formazione di governi sostenuti da forze estranee all’arco costituzionale (Alleanza Nazionale, la Lega), degli homines novi estranei alla tradizioni politiche del Novecento seduti sui più alti scranni del Parlamento e del Governo, dei tentativi di cambiare l’assetto istituzionale del Paese – in via di fatto (il nome nel simbolo) ancor prima che per la via delle riforme costituzionali (tentate, finora fallite) – delle nuove, pasticciatissime leggi elettorali, della irruente mediatizzazione della politica e infine del suo scadimento in un vortice di gossip, battute ed illazioni. E, corrispondentemente, del progressivo smarrirsi dei progetti politici messi in campo dal ’94 ad oggi: sempre meno riconoscibili, sempre meno credibili, sempre più incentrati esclusivamente intorno al profilo carismatico di una persona: Silvio Berlusconi, l’imprenditore, il tycoon delle televisioni, il Cavaliere per antonomasia (che però ormai nemmeno è più tale). In mezzo dirà certo anche dell’Ulivo, del tentativo forse mal concepito di mettere in mare un vascello riformista, e del suo arenarsi per la confusione del disegno, per l’impreparazione delle culture politiche, forse anche per l’incapacità di superare lo scoglio dell’Euro. Ma tutto questo dirà con un filo di sgomento, forse con una segreta paura nel cuore: che non l’ha raccontata giusta, che non gliel’hanno raccontata giusta, o addirittura che non la si può raccontare giusta senza raccontare anche il resto, senza guardare che fine stiano facendo o abbiano fatto quegli uomini, che fino a poco tempo fa avevano in mano il destino del Paese.

Il fatto è che Forza Italia aveva dentro di sé un capitale di energia politica indiscutibile. Si presentava come una forza modernizzatrice, liberale, anti-statalista. Cambiava, o provava a cambiare linguaggi e forme della politica. Dettava, o provava a dettare, una nuova agenda: basta questione meridionale, basta questione sociale e retorica dell’uguaglianza, basta intervento pubblico, basta mediazioni dei corpi sociali intermedi, basta partiti. Basta comunisti, anche. È finita però con Berlusconi in cerca di agibilità politica nonostante la condanna definitiva, la decadenza da senatore, l’affidamento ai servizi sociali; con Dell’Utri irreperibile ma forse in Libano, ignominioso latitante ma forse solo bisognoso di cure (però accortamente all’estero) e comunque sotto un bel po’ di processi; con Formigoni, il Celeste, il governatore della Lombardia per quasi vent’anni, che si difende dal sequestro giudiziario negando che i beni sequestrati siano a lui riconducibili; con Cosentino tradotto in carcere, ma capace ancora di spaccare Forza Italia in Campania, e di tenere col fiato sospeso il governatore Caldoro (e pure Fitto, il capolista alle Europee, che ne chiede i voti).

Ci vuole, ripetiamolo, un atto di fede. Il guaio è che mentre lo studioso può compierlo con l’aiuto di Machiavelli e magari di qualche altra arguta parola sull’autonomia della politica (dopo tutto, non diceva Rino Formica che la politica è sangue e merda? Ci sarà dunque almeno del sangue, della passione che scorre ancora da qualche parte!), l’elettore di centrodestra deve farlo pur essendo stato così vistosamente tradito, perfino turlupinato, se è vero che Dell’Utri se ne rimarrà al sicuro in qualche paese lontano. Quell’elettore: speriamo davvero che mantenga ancora intatta la forza di desiderare un’Italia migliore e un centrodestra migliore, glielo auguriamo sinceramente.

(L’Unità, 12 aprile 2014)

Se Cesaro diventa l’anti-Cosentino

ImmagineNel giorno, in cui la Camera dei Deputati licenzia l’Italicum, non senza qualche batticuore, nella sede del consiglio regionale campano si fanno i conti con la mancanza del numero legale, che l’altro ieri ha reso a tutti evidenti i problemi della maggioranza che sostiene la giunta Caldoro. La fine naturale della consiliatura non è più così naturale.

Sono cose diverse, si dirà: un conto sono le sorti politiche nazionali, un altro le faccende degli enti locali. E poi le due vicende hanno un segno inverso: di là una nuova legge elettorale, e secondo il premier il primo punto segnato dalla politica contro il disfattismo; di qua invece una sconfitta della politica e il rinvio del consiglio a data da destinarsi; di là il primo scatto fuori dalla palude, di qua invece l’impantanarsi nella palude.

C’è però, al di là delle circostanze, un termine medio che tiene insieme i due estremi. O, al contrario, che non tiene né contiene più nulla. Quel termine sono i partiti politici, il luogo in cui dovrebbero comporsi interessi, forze, ideali, e che invece appaiono in avanzato stato di decomposizione. I partiti, così almeno come li intendeva la Costituzione, come soggetti organizzati dotati di autonoma cultura politica, non esistono quasi più. In particolare non esistono nel Mezzogiorno, dove sembrano condurre un’esistenza parassitaria solo dentro le istituzioni, essendo ormai irriconoscibili  e impresentabili in società. Le dinamiche con cui pezzi di partito si staccano o si riattaccano, si dividono o si riuniscono non solo non hanno alcun significato ideale, ma non parlano neppure a interessi diversi e più larghi di quelli che costituiscono quei pezzi stessi. La rappresentanza è quasi del tutto evaporata. Così oggi, in consiglio regionale, il gruppo di Forza Campania, staccatosi dalla maggioranza e passato di fatto all’opposizione, non può essere descritto adeguatamente se non per mezzo di un semplice cognome: sono i cosentiniani. Nient’altro: non basi ideologiche o programmatiche, l’area politica coincide perfettamente con il grosso grumo di potere che si raccoglie intorno all’ex sottosegretario all’Economia. Come si vede, la demonizzazione per via giudiziaria non c’entra nulla; c’entra invece, e come, il degrado della politica.

Se questo è lo stato delle cose, colpisce che il governatore Caldoro non avverta l’urgenza di ricostituire dalle fondamenta le ragioni di un vero patto politico, non semplicemente preoccupandosi di conservare il consenso, ma restituendogli il valore di una rappresentazione di ragioni, senso, progettualità. Che non senta cioè anche lui l’esigenza di scrivere da qualche parte: la politica segna un primo punto contro il disfattismo. Di sicuro, se pensa che affidarsi a Luigi Cesaro nella prossima competizione per le europee sia la maniera migliore per spezzare le sordide trame dei cosentiniani, non segnerà alcunché. Non è infatti cercando di contrapporsi pezzo a pezzo in una pura lotta di potere che potrà dare una prospettiva allo scorcio di mandato che gli rimane, e alla sua probabile ricandidatura. Caldoro ha tutto il diritto di esibire i risultati del suo governo, presentandoli come un’inversione di tendenza rispetto al passato. Ma ha il dovere di indicare una direzione, che non può consistere nel far scegliere gli elettori di centrodestra fra Cosentino e Cesaro. Sono questi i campioni della politica che vuole proporre ai cittadini campani, per dare qualche parvenza di credibilità spessore all’idea stessa di rappresentanza, che è alla base delle istituzioni della democrazia rappresentativa?

Intanto l’Italicum passa dalla Camera al Senato. La preoccupazione di liberare il paese dall’incantesimo del porcellum sta forse dando al paese un primo punto, come dice orgogliosamente Renzi. Ma il problema resta: il termine medio, i partiti. La migliore legge elettorale, quella che più di tutte assicura governabilità (e, onestamente, l’Italicum non è la migliore legge, bensì solo l’unica che finora si sia riusciti a fare), non può comunque risolvere il problema più grande della politica italiana: chi o cosa sono ormai i partiti che ci governano?

(Il Mattino – Napoli, 13 marzo 2014)

L’alleanza al tempo dei partiti deboli

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«Domani si vedrà!», ha detto ieri Felice Casson (Pd) in versione Rossella O’Hara. Ma quel che si è visto finora non offre i migliori presagi: Nitto Palma, che doveva andare alla guida della Commissione Giustizia del Senato, non è passato. Per due volte. E tutto sembra tornare in discussione, perché qualora non passasse nemmeno oggi, alla terza votazione, è chiaro che il Pdl non starebbe a guardare. E le ripercussioni potrebbe lambire anche Palazzo Chigi. Né d’altra parte si può pensare che un partito, impegnato in un governo di larghe intese, che dunque deve necessariamente collaborare per assicurare una tranquilla navigazione parlamentare al governo, stringa accordi formali tramite i suoi capigruppo, lasciando che però i componenti del gruppo li disattendano alla prima occasione. Questo, infatti,  è quel che è accaduto: i capigruppo Pd Zanda e Speranza hanno concluso con i loro omologhi del Pdl un patto, che i senatori del Pd si sono dati subito la pena di non osservare .

Ora, dalle parti del Pd si spiegherà perché il nome di Nitto Palma, già commissario del Pdl in Campania, amico dell’ex sottosegretario Nicola Cosentino (ora agli arresti) non andasse bene. Ma non è questo il punto. Il punto è se, in generale, dopo che si è fatto un governo, qualcuno non si debba prendere la briga di rifare i partiti, e cioè di dare loro un’ossatura, una spina dorsale, una conduzione sufficientemente univoca. Innanzitutto per il bene del partito medesimo, che non può recitare a soggetto ad ogni votazione; poi per il buon funzionamento delle istituzioni parlamentari, i cui regolamenti poggiano sulle attività di gruppo, prima che sull’interpretazione solista affidata ai singoli parlamentari; infine per il governo medesimo, che deve poter contare su una maggioranza minimamente affidabile.

Allo stato, non sembra che queste condizioni si siano ancora realizzate. Al Pd evidentemente non è bastata l’esperienza fatta con Monti, quando Bersani ripeteva che non era quello il governo che voleva, salvo però appoggiarlo: nelle urne, questa schizofrenia non è stata premiata. Tantomeno lo sarebbe oggi, che a capo del governo c’è Letta, cioè il vicesegretario del Pd.

Ma forse bisognerà attendere l’Assemblea Nazionale di sabato prossimo, quando sarà eletto un nuovo segretario, dopo le dimissioni di Bersani. Già sembra però che si vada verso soluzioni transitorie, provvisorie, che lascerebbero di fatto la deputazione parlamentare libera di regolarsi secondo le circostanze. Il Pd non avrà bisogno di un Grande Timoniere, ma neppure gli può bastare un semplice traghettatore. Accade infatti come nelle squadre di calcio: quando i giocatori sanno che l’allenatore che li guida non è lo stesso che sarà in panchina nel prossimo campionato, finisce che fanno un po’ quello che vogliono. Ora, nel Pd non ci sarà un’aria da rompete le righe, ma non si può dire che, dopo le figuracce sull’elezione del Presidente della Repubblica, le file si siano ricompattate.

Ed è un paradosso. Il partito democratico è l’unica formazione politica che mantiene nelle proprie insegne la parola «partito», così bistrattata al giorno d’oggi. È il partito che più di ogni altra forza politica si attiene al dettato della Costituzione, la quale chiede di adottare metodi democratici al proprio interno. Fa (con esiti alterni) le primarie, le parlamentarie, i congressi. Ma tutto questo produce debolezza piuttosto che forza. Disperde energia politica invece di concentrarla. E le difficoltà e le incertezze che il Pd continua a manifestare finiscono col mettere la sordina anche ai limiti del Pdl. Il «partito di plastica», il «partito-azienda» mostra infatti una compattezza che, di rimbalzo, risalta come la prima delle virtù politiche. Certo, l’identificazione con Berlusconi facilita le cose. Finché dura, però. Anche il Pdl, infatti, si troverà scosso, quando questa simbiosi produrrà più problemi che soluzioni: non è questo che è accaduto, durante la scorsa legislatura? La brillante campagna elettorale e gli attuali sondaggi coprono il tallone d’Achille del Cavaliere, ma è un fatto che nelle prove di governo le sue maggioranze si sono sempre sfaldate, dal ’94 in poi.

E invece il sistema politico italiano ha estremo bisogno di corpi intermedi dotati di forza organizzativa e di una fisionomia netta, di stampo europeo. Se dunque vacillano appena si ingrossa l’onda della Rete, oppure arrancano sotto gli attacchi populisti sferrati da Grillo (che di fare un partito non ha bisogno: gli basta un blog e un’associazione fatta insieme col nipote e col fido commercialista) non ce la si può prendere col destino cinico e baro, ma con tutto quello (ed è tanto) che non è stato fatto finora nella costruzione di una solida cultura politica.

E come vanno le cose lo si deve vedere oggi, non domani, perché, per come è messo il Paese, domani è già troppo tardi. 

Il mattino, 8 maggio 2013