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E’ morto Alfredo Reichlin, partigiano dal Pci al Pd

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Ha avuto una vita lunga, Alfredo Reichlin: dall’esperienza partigiana alla Repubblica; dalla direzione dell’Unità alle numerose legislature in Parlamento; da Togliatti a Ingrao, che fu la figura più influente sulla sua prima formazione; da Berlinguer fino a D’Alema, di cui condivise le scelte fondamentali, fino, da ultimo, alla presidenza della commissione che avrebbe scritto la Carta dei valori del nuovo partito democratico.

L’ha raccontata lui stesso, questa vita lunga e appassionata, attraversata con un tratto di eleganza e di pensosità a cui non rinunciò mai, in un libro di qualche anno fa che Laterza ha dato alle stampe con il titolo: «Il midollo del leone». Nelle ultime pagine del libro, Reichlin spiegava il titolo prescelto. È un’espressione che si trova in un pensiero di Italo Calvino dedicato a Giaime Pintor, morto nel ’43 per l’esplosione di una mina: «l’avara presenza del bello e del bene, questo è il midollo del leone che Pintor, traduttore di Rilke, lettore di Montale, morse dalla civiltà letteraria che l’aveva preceduto». Da ragazzo, Reichlin assaggiò avidamente quel morso: «nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia». Era stato infatti compagno di banco del fratello di Giaime, Luigi, nel Regio Liceo Tasso di Roma. Giaime, più grande di qualche anno, fu tra quelli che aprirono gli orizzonti culturali del giovane Pietro: gli diede in lettura le poesie di Eluard e gli opuscoli di Lenin, i libri di Vittorini e i racconti di Hemingway. Passò infine dai Pintor la strada che portò Reichlin ad iscriversi al partito comunista.

Dopo l’esperienza gappista durante la Resistenza, Reichlin aveva infatti aderito al partito e fin dagli anni Cinquanta ne divenne uno dei più autorevoli dirigenti. Appena trentenne, nel 1957, Reichlin fu infatti chiamato a dirigere «L’unità», che non era allora, sul finire degli anni Cinquanta, solo il giornale del partito, ma era anche il «Corriere della Sera del proletariato», e l’unico quotidiano diffuso uniformemente su tutto il territorio nazionale.

L’esperienza, tuttavia, non durerà molto. Reichlin è in quegli anni vicino a Pietro Ingrao, il capo della sinistra del PCI. I dissensi politici con Togliatti – sull’atteggiamento da tenere nei confronti del primo centrosinistra, che gli ingraiani osteggiano frontalmente, considerandolo solo un aspetto della ristrutturazione del capitalismo – determinano l’allontanamento dalla direzione del giornale. Reichlin finisce in Puglia, dove guida la federazione regionale e contribuisce a tirar su un gruppo di giovani intellettuali – Biagio De Giovanni, Giuseppe Vacca, Franco Cassano, Franco De Felice – raccolti intorno all’Università, alla casa editrice Laterza e all’altro editore di Bari, De Donato. Lucio Colletti appiccicherà a questo gruppo di studiosi l’epiteto un po’ beffardo di «école barisienne», ma, come spesso accade, il nome perderà in seguito il suo significato ironico, per indicare uno delle fucine culturali più vivaci del marxismo italiano degli anni Sessanta-Settanta, insieme all’operaismo.

Si discute, non senza qualche allarme nel partito, di nuova egemonia, di rinnovamento dei quadri dirigenti, di metodo storico, ma anche dei rapporti col movimento studentesco e di sviluppo del Mezzogiorno.

Si apre la stagione del ’68, che in Italia dura un decennio e che, nonostante i successi elettorali del partito comunista, restringe progressivamente i margini culturali e ideologici a disposizione del Pci. «Venivamo – ha scritto Reichlin, che siede in quegli anni nella Direzione del partito – da un marxismo letto come storicismo assoluto. Il nostro referente non era il vecchio scientismo socialista, ma Gramsci e la sua polemica con il positivismo»: questo peraltro era il terreno di incontro con le grandi masse cattoliche, rappresentate in quegli anni dalla complessa e tormentata figura di Aldo Moro. «Il nostro pensiero – aggiunge Reichlin nella sua autobiografia – era certamente classista, ma anche dominato dall’assillo di promuovere quella rivoluzione intellettuale e morale che l’Italia moderna non aveva conosciuto mai», e in queste parole si può forse riconoscere il travaso di temi gramsciani che giunge sino alla segreteria Berlinguer, e all’incipiente questione morale che scaverà un solco, a sinistra, fra il partito comunista e il partito socialista di Bettino Craxi. Reichlin è in quegli anni al fianco del segretario del PCI, in posizioni di responsabilità, e ne condivide tutte le scelte, di cui a distanza ha riconosciuto la complessità e, insieme, i limiti.

Anche negli ultimi tempi, in posizione più defilata, Reichlin non ha mai rinunciato ad affilare le armi della critica in relazione ai compiti storici che vedeva drammaticamente aperti dinanzi all’Italia e all’Europa.  La sua valutazione delle vicende storiche degli ultimi trent’anni non era affatto indulgente: rivoluzione conservatrice, subalternità al liberismo, subalternità rispetto alla finanziarizzazione dell’economia che ha segnato i processi di globalizzazione, restringimento degli spazi di democrazia. È un giudizio che coinvolge tutta la parabola della sinistra, non solo italiana ma europea.

Dopo il voto del 2013, aveva lui tirato fuori l’idea del partito della nazione, che era stato però largamente fraintesa. Reichlin non pensava a una formazione neocentrista, ma al contrario alla funzione nazionale di un partito di massa. In un certo senso, fedele alla tradizione comunista, non riconosceva altra funzione ad un partito degno di questo nome: «Bisogna ridare un’anima all’Italia, insediarsi   nella   storia   del   paese,   non   cancellare   il   passato. Bisogna fare della sinistra il nuovo “partito nazionale”».

Erano parole che rivolgeva ai dirigenti del PD, con una preoccupazione che ne ha segnato l’ultima, amara riflessione: «La sinistra rischia di restare sotto le macerie». Ma vale forse per il Pd quello che Reichlin ha pensato del partito comunista: non è il Pd che spiega la storia d’Italia, ma questa, se mai, che spiega quella.

(Il Mattino, 22 marzo 2017; liev. mod.)

Il filo rosso da Craxi ai 5 stelle

immagine«Bisogna innanzitutto dire la verità delle cose e non nascondersi dietro nobili e altisonanti parole di circostanza che molto spesso, e in certi casi, hanno tutto il sapore della menzogna»: 3 luglio 1992, nell’aula del Parlamento Bettino Craxi pronuncia un discorso passato alla storia per la crudezza con la quale il leader socialista affrontava il tema del finanziamento pubblico dei partiti. Tangentopoli è ormai esplosa, e l’intero assetto istituzionale è profondamente scosso non solo dall’inchiesta «Mani pulite», ma anche da fatti gravissimi, come l’attentato in cui ha perso la vita il magistrato Giovanni Falcone (solo due settimane dopo, il 19 luglio, cadrà vittima di un attentato anche Paolo Borsellino). Il discorso di Craxi andrebbe in realtà riletto tutto, perché descrive uno stallo dal quale, a venticinque anni di distanza, non è facile ritenere che il Paese sia uscito. Il vuoto di cui Craxi aveva orrore, e che il governo di Giuliano Amato provava a riempire, è ancora qui, a minacciare l’attuale sistema politico, agito da partiti sempre più fragili, sospeso fra inconcludenza e risentimento, percorso da venate di populismo che minacciano ogni giorno di far saltare il banco. È ancora qui la montagna del debito pubblico, sono ancora qui le esigenze di riforma e di ammodernamento delle istituzioni, è ancora qui l’insistente domanda sul significato dell’adesione al progetto europeo, ed è ancora qui, non superata, l’esigenza di moralizzazione della vita pubblica. Ma Craxi aveva ben chiaro che a questa esigenza bisognava dare una risposta politica, che non screditasse definitivamente «l’impianto e l’architrave della nostra struttura democratica». È andata diversamente. Non solo i partiti sono stati travolti dal discredito, ma si sono poste allora le basi di una campagna di delegittimazione profonda, che li ha lasciati in una perdurante condizione di minorità, e che sopratutto ha impedito che si affrontasse il nodo di fondo, che l’ex Presidente del Consiglio aveva denunciato in quel discorso: il finanziamento pubblico. Da allora ad oggi, si continua a vivere sotto l’illusoria convinzione che la politica non abbia bisogno di danari, e che chiunque li cerchi per finanziare la propria attività politica sia da quei danari corrotto e comprato irrimediabilmente.

Questa convinzione pesa come un macigno sulla politica italiana, fino a costringere l’altrieri Matteo Renzi a motivare la necessità di andare al voto con la storia dei vitalizi, a cui sarebbero ostinatamente attaccati i parlamentari, e ieri Virginia Raggi a cadere dalle nuvole apprendendo che il buon Romeo ha intestato a suo favore un paio di polizze vita a insaputa della sindaca. Ma se tutto accade a insaputa della politica – una volta le case, quest’altra le polizze, la prossima volta chissà, una donazione o una promozione – vuol dire proprio che la «verità delle cose» non può ancora essere detta in pubblico.

Intendiamoci: abbiamo ogni ragione per credere a Virginia Raggi. Se però la versione che lei fornisce appare così poco credibile, irragionevole, persino insensata, è perché nessuno è in grado di vedere la linea che separa le utilità private da quelle pubbliche, il finanziamento dalla corruzione, la liberalità dall’opportunismo. Quella linea nessuno prova a tracciarla. Si aboliscono i vitalizi (anche se la gente non lo sa), si abolisce il finanziamento pubblico, ma non si mette in chiaro attraverso quale sistema la politica debba sostenersi. Non si fa una legge sui partiti politici, e non si mette ordine nei rapporti con i portatori di interesse, e soprattutto si continua ad agitare in pubblico il drappo rosso che scatena il toro del populismo, nell’illusione che l’Italia starebbe molto meglio se la politica non ci fosse proprio. Se i partiti fossero aboliti, il Parlamento sciolto, e deputati e senatori mandati tutti a casa.

Virginia Raggi non ha alcuna colpa: è quello che personalmente mi auguro. E mi auguro che resti in Campidoglio il più a lungo possibile, così che i cittadini romani abbiano modo di giudicarla per come amministra la città. Ma una cosa non può fare: prendersela con quelli che ora le stanno addosso, che vedono la sua pagliuzza mentre hanno nell’occhio una trave. Perché non è una pagliuzza il programma sopra enunciato: passi per le polizze e chi le intasca, ma quelli che vogliono togliere di mezzo la politica, il parlamento, i partiti e ogni forma di intermediazione politica sono proprio loro, sono i grillini. Sono – se ne rendano conto o no – gli amici fanfaroni ed entusiasti, generosi e inconcludenti dei meetup. È il suo partito che ora cavalca l’onda, quello che si è inventato la retorica dell’uno vale uno, del parlamentare mero portavoce, del mandato imperativo, del Parlamento scatoletta di tonno, dei limiti al numero di mandati, dell’autoriduzione dello stipendio, del non-statuto e dei contratti privati con i quali si risponde non ai cittadini elettori, ma al Capo, a un’azienda privata e al suo Staff. Non sono cose tutte uguali, ma tutte fanno sistema e ostruiscono un discorso di verità sulla politica.

Che non diviene meno vero per il fatto che Craxi fu in seguito travolto dalle vicende giudiziarie.Lo è se mai di più, perché dimostra che quel discorso non riguardava il destino personale di un uomo e non doveva assolvere o giustificare nessuno: riguardava la strada che il Paese doveva imboccare.

Suona assolutorio riproporlo oggi? Può darsi, ma molto dipende dalle orecchie di chi lo ascolta. Se invece servisse non assolvere la Raggi e le sue polizze, ma a spingere qualcuno ad accendere una polizza sulla democrazia, allora tornerebbe davvero utile rileggerlo.

(Il Mattino, 4 febbraio 2017)

I cittadini e il corpo del leader

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Un lieve malore, la coronografia, l’intervento di angioplastica, il decorso post-operatorio al Gemelli di Roma: fra qualche giorno il premier Paolo Gentiloni lascerà l’ospedale e potrà tornare al lavoro, forse già da lunedì prossimo. Non si è trattato, per fortuna, di un problema serio e non c’è motivo di drammatizzare. Il Presidente del Consiglio può fin d’ora ricevere visite, parlare al telefono, studiare dossier. Gli auguri che ha ricevuto da tutto il mondo politico dimostrano la simpatia con la quale è stata seguita questa disavventura, capitata all’inizio di un’esperienza di governo che si presenta politicamente fragile, e di cui dunque le condizioni di salute di Gentiloni hanno, per qualche momento, rischiato di fornirne una sfortunata metafora.

Ma il legame fra il corpo del Capo e la scena pubblica non ha un carattere soltanto accidentale. Un celeberrimo studio di Erwin Kantorovicz sui «due corpi» del Re ha indagato il modo in cui il pensiero politico-giuridico occidentale ha costruito, in prima età moderna, l’idea (e la simbologia) di una doppia persona del Re, dotato di un corpo naturale – che si ammala, invecchia, muore o viene ucciso – e di un corpo politico – incorruttibile, angelico, immortale – capace di assicurare la continuità della funzione sovrana. Il modello offriva insieme distinzione e unità: la distinzione metteva al riparo l’unità politica dalle vicissitudini della vita individuale e storica; l’unità circondava la persona del Re di un’aura quasi sacrale.

La persistenza della figura monarchica nell’immaginario politico occidentale è legata proprio a questa capacità di rendere visibile, concentrato in un punto, il grande mistero dell’unità della società (che noi continuiamo peraltro a pensare come un «corpo» sociale, per l’appunto: in continuità, quindi, con questa tradizione).

Nel frattempo però c’è stato l’illuminismo, la grande razionalizzazione del mondo occidentale e il suo progressivo disincantamento: come dicono i sociologi. Cosa resta allora di quel modello?

A giudicare da come reagiamo alle notizie che riguardano la salute dei leader politici qualcosa resta. E anzi, con l’accentuazione dei tratti personali dell’esercizio del potere politico, così caratteristica dell’attuale fase storica, non solo qualcosa resta, ma qualcosa torna nuovamente a imporsi. La crescente spettacolarizzazione della politica ha riportato in primo piano il tema del corpo del Capo: che si tratti della straordinaria fotogenia di Barack Obama o della rappresentazione machista che di sé offre Vladimir Putin, non vi è dubbio che la cura dell’immagine sia un aspetto essenziale delle dinamiche del potere contemporaneo.

Il leader, dunque, ha di nuovo un corpo. Siccome però non sono più disponibili investiture dall’alto, sacre unzioni e altre forme di legittimazione di tipo tradizionale, gli è indispensabile costruire in altro modo la sua seconda natura, un corpo quasi «mistico» che copra e rivesta le funzioni ordinarie legate alla natura meramente fisica del corpo. Siccome non ci sono più scettro mantello e corona a rappresentare la regalità, ci vogliono allora un make up a regola d’arte, vigoria fisica e, magari, un tocco di glamour. Con le dovute eccezioni, si capisce. Ma se proprio non si dispone di bella presenza comunque non è possibile mostrare al proprio elettorato fragilità e debolezza. La centralità del valore della salute nell’immaginario collettivo fa il resto.

La malattia manda in frantumi questa costruzione. Perché il corpo mistico del Re – cioè del Capo – non è venuto meno, ma non sta più su un piano mitico-sacrale, bensì su uno squisitamente estetico. Dunque la malattia lo minaccia. E a meno di non riuscirla a trasfigurare in senso spirituale (come Giovanni Paolo II) la strategia ordinaria del politico – o dei suoi seguaci – consiste nel negarla, nel nasconderla, nel minimizzarla.

Proprio in questi giorni di gennaio, ventisette anni fa, la malattia fece irruzione sulla scena politica italiana. Non che il tema del corpo non avesse profondamente segnato la nostra storia politica – dal corpo virilizzato del Duce, oggetto di fanatismi e oltraggi, a quello straziato di Aldo Moro, assurto a simbolo di una tragedia collettiva – ma con l’improvvisa malattia di Bettino Craxi, ricoverato per una decina di giorni a Milano in una ridda di voci, indiscrezioni, interpretazioni le più diverse e confuse, accadeva forse qualcosa di diverso: era infatti la prima volta, in Italia, che la malattia minacciava un carisma politico. Lo dimostravano proprio le difficoltà dell’opinione pubblica di tenersi a un resoconto distaccato e obiettivo, le incertezze sull’entità e la natura stessa della malattia, le strategie di rassicurazione messe in atto da amici e compagni. L’aria di segretezza non poteva però essere semplicemente dissipata: non solo o non tanto perché bisognava ridurre la malattia a poca cosa, ma perché, soprattutto, non si poteva offrire una piatta stenografia del decorso ospedaliero nei suoi termini prosaici, meramente medico-sanitari. Oggetto della narrazione non sarebbe stato più, infatti, il corpo magnetico, quasi soraumano, del Capo.

Craxi uscì dall’ospedale il 13 gennaio 1990. Forse anche Gentiloni uscirà il 13, o magari due o tre giorni dopo. Di sicuro, però, questa volta la laicizzazione ha funzionato: si è trattato di scongiurare l’ostruzione di vasi sanguigni, e di nient’altro.

(Il Mattino, 13 gennaio 2017)

Craxi, il tricolore sulla tomba e i conti aperti con la storia

«Contribuì in modo significativo alla difesa dell’Occidente e al consolidamento della pace»: è il contributo di Bettino Craxi, nelle parole che il Presidente della Repubblica Ciampi scelse per il telegramma di cordoglio ai familiari del leader socialista. Leggerle oggi dà da pensare, perché in esse compaiono termini – la pace, l’Occidente – che non hanno ancora posto significativo nelle discussioni sulla sua figura, nel decennale della morte. Il che non conferma solo un problema cronico della cultura politica del nostro paese, e cioè quanta poca considerazione si abbia, nella valutazione di un leader, per il suo impegno nella politica estera, ma anche quanto poco ancora si sia distanti da opinioni che si sottraggano alle opposte tentazioni della demonizzazione o della santificazione.
Forse, nel caso di Craxi, è inevitabile. Non però perché dieci anni siano pochi per storicizzare una stagione della vita democratica del paese, ma, credo, per due ragioni diverse. La prima: la fase attuale è ancora troppo legata all’esito di Mani Pulite, impelagata in una transizione verso un nuovo assetto del sistema politico che non accenna a finire, sicché il giudizio su Craxi diventa, per dirla in fretta, il giudizio su Berlusconi, ad onta di ogni plausibilità storica e politica,. La seconda: il drammatico discorso tenuto innanzi al Parlamento il 3 luglio 1992, in cui Craxi disse che il sistema di finanziamento ai partiti era per buona parte irregolare e illegale (e un anno dopo, nel processo Cusani, dinanzi al PM Di Pietro aggiunse: «dall’inizio della storia repubblicana») ha avuto per singolare contrappasso l’effetto di legare non solo il suo nome a quella vicenda, ma anche il giudizio sulla prima Repubblica – e in specie sul sistema dei partiti, e sulla sua costituzione materiale – ad un giudizio sull’inchiesta Mani Pulite. Il che è, di nuovo, un errore storico e politico.
Orbene, non accade proprio come in quel detto famoso citato da Hegel, ma quasi. Non c’è eroe per il proprio cameriere, si dice, ed Hegel chiosava: non perché l’uno non sia eroe, ma perché l’altro è cameriere. Nel caso di Craxi non si tratta certo di tramutare la sua azione politica in una serie di eroiche imprese – che si tratti di Sigonella o del decreto di San Valentino, della lotta all’inflazione o dell’espansione del debito pubblico, del nuovo Concordato o del progetto di riforma istituzionale in senso presidenzialista, rimasto però solo sulla carta –, ma non è neppure il caso di nutrire, nei confronti della sua figura, le meschinità e i risentimenti di un cameriere. C’è invece materia per un giudizio articolato e complesso, senza facili semplificazioni. E per il quale, dunque, non basta neppure la parola così spesso ripetuta che lega la sua azione alla modernizzazione del Paese: modernizzazione è ancora solo il nome di un processo, che di per sé poco o nulla dice sulla direzione e le finalità di quel processo.
Sul piano della riforma degli equilibri politici del paese, quelle finalità erano però per Craxi ben nette, anche se forse lo erano meno i mezzi con cui conseguirle, dal momento che si trattava sì di mutare i rapporti di forza a sinistra, col Pci – questo il disegno –, ma il mutamento doveva avvenire nel corso della collaborazione (che era insieme competizione) con la Democrazia Cristiana – il che rendeva il disegno perlomeno tortuoso.
Quanto fosse alta la posta in gioco lo si comprende comunque dalle parole con cui D’Alema l’ha rappresentata, parlando dalla parte dei comunisti: «eravamo come una grande nazione indiana chiusa tra le montagne, con una sola via d’uscita, un canyon, e lì c’era Craxi con la sua proposta di ‘unità socialista’. Come uscire da quel canyon? Come trasformare il Pci senza cadere sotto l’egemonia craxiana?». Il giudizio sulla trasformazione del partito comunista investe naturalmente la classe dirigente di quel partito, da Occhetto in poi. Ma la scena descrive una posizione per Craxi tanto favorevole, soprattutto dopo l’89, che non può non colpire quanto poco egli sia riuscito, a parte alcuni vantaggi tattici, a tradurla in una definitiva vittoria strategica. E in crescita di consensi, e di peso culturale.
Quel che è infatti accaduto, è che sono crollate, insieme al Muro di Berlino, anche le pareti del canyon della politica italiana, ma i socialisti, rimasti in quella posizione di vantaggio per più di un quindicennio, avevano nel frattempo esaurito tutte le potenzialità politiche riformatrici della loro tradizione, finendo così col rimanere travolti dal crollo. E anche a voler pensare che quell’esito dipese in tutto e per tutto dalle oscure trame più volte evocate da Craxi negli anni amari del ritiro ad Hammamet, non sarebbe meno vero che una sconfitta della politica va comunque addossata a chi del primato della politica era stato sostenitore e indiscusso protagonista.