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I suicidi della crisi. L’Italia nel buco nero

La morte è un buco. Ma non come i buchi che si aprono nel terreno, come i crepacci sui fianchi delle montagne o come un muro rotto. Perché è un buco profondissimo e senza contorni. Un buco privo di orli, senza transenne. Se guardate il mondo da lontano non lo vedete: l’uomo che viveva gli affanni e le delusioni della vita con grande pena e fatica, l’uomo che era al lavoro con i colleghi oppure a casa, che scherzava con gli amici la sera oppure guardava la televisione in famiglia, quell’uomo ora non c’è più; ci sono però le stesse cose di prima, la casa il lavoro la cena le stesse persone. Il mondo è uguale a prima, pieno come prima, ma lui non c’è più, è finito nel buco. Derrida diceva che la morte è ogni volta unica, ogni volta è la fine del mondo, ma è molto più intollerabile pensare che il mondo, invece, c’è ancora, continua, sopravvive, impassibile e indifferente alla morte di ognuno.

Questo pensiero non ha bisogno della scomparsa di una persona cara per trovare insopportabile, ingiusto, incomprensibile, come possa accadere oggi che in quella casa non ci sia più la ragazza che ieri si è tolta la vita perché non riesce a trovare un lavoro degno di questo nome. Come possa scorrere ancora, lento e rumoroso come prima, il traffico cittadino, nella strada in cui un commerciante si è dato fuoco perché non riesce a far fronte ai debiti. Come possano riprendere domani le attività nella fabbrica del piccolo imprenditore che oggi ha deciso di farla finita. Il mondo scorre come prima, uguale a prima, e tutto continuerebbe senza sforzo, giorno dopo giorno, se noi non ci fermassimo a riflettere sui buchi che si aprono nella pelle del mondo, se lasciassimo che il mondo si richiuda senza pietà né memoria sugli squarci improvvisi della morte.

Questa, di fermarsi; questa, di pensare; questa, a volte, di pregare, è l’opera di una cultura. Una società possiede una cultura, un senso comune, un’identità e un compito se è in grado di costruire un bordo tutto intorno al buco, come il giardiniere che recinge con cura l’aiuola, o il muratore che tira su con pazienza un muro. Da quel momento in poi, si potrà vedere il buco: qualcuno se ne ricorderà, qualcun altro imparerà qualcosa.

Ma quanto è più importante che si compia quest’opera, quando il buco si è aperto per mano di colui che, perdendo all’improvviso l’equilibrio, vi è precipitato dentro: senza apparente motivo eppure con ogni motivo. Con i motivi di una vita sentita come fallimentare, di una responsabilità percepita come troppo grande, di una solitudine sentita come irrimediabile, troppo densa e nera. Con i motivi che le cronache di questi giorni ci raccontano con sgomento: motivi che hanno messo radici e si sono arrampicati come idre nella psiche di chi si è ucciso, ma che provengono da fuori: vengono da un mutuo non concesso, da un rapporto di lavoro interrotto, da un’ingiustizia patita. Vengono insomma  dal mondo in cui noi ci siamo ancora: come prima, ma sapendo ormai che non dobbiamo lasciare che tutto vada come prima.

La morte, quanto a lei, non appartiene al morto: per questo ce ne occupiamo da vivi. Ma suicida è chi aveva tutti i motivi per non sentire più come sua neppure la vita. Perciò quanto maggiore è l’opera che spetta a noi, per restituire insieme il senso di quella morte e di quella vita. Si rimane sbigottiti di fronte alla percentuale di suicidi che in questi mesi le statistiche registrano. È la crisi: piani di vita spezzati, speranze frustrate, conti che non tornano, sguardi che non si riescono più a sostenere: tra colleghi, tra familiari, tra amici.

La crisi è però solo il nome economico di un dramma che non è meramente individuale ma sociale, sia per cause che per dimensioni, ma quel che spetta a noi di fare appartiene anche all’etica e alla politica, ed è dell’ordine di ciò che rende la politica non semplicemente un affare di potere, ma l’impegno collettivo in cerca di un senso. Perché peggio di una politica che si spende solo per il potere c’è solo una politica del tutto impotente a costruire qualcosa come un senso.

Un senso, un piccolo muricciolo intorno al buco senza margini della morte.

Il Mattino, 18 aprile 2012

Prendono la parola per l’ultima volta o forse per la prima

Le storie non sono mai tutte uguali, come non lo sono le biografie delle persone. Non lo sono neppure le vicende drammatiche raccontate dalle cronache di queste ultime settimane: operai, imbianchini, piccoli imprenditori, immigrati, che dinanzi all’impossibilità di trovare un lavoro, o di far fronte alle difficoltà economiche della propria famiglia o della propria impresa, giungono sino al gesto estremo di togliersi la vita.

Ma poi è anche vero che queste storie sono tutte uguali, o almeno dannatamente simili, perché tutte raccontano di disperazioni e fallimenti, dissesti finanziari e crisi depressive, sentimenti di impotenza o e di inutilità che, tutti, spingono a darsi la morte. Quando Emile Durkheim scrisse il suo libro capolavoro sul suicidio, nel 1897,  il suicidio era considerato un atto eminentemente individuale, persino il più individuale di tutti, quello che non poteva trovare altra spiegazione che nella psiche di colui che compie il gesto. E siccome «individuum est ineffabile», non c’è scienza dell’individuale, non erano mai stati condotti seri tentativi di ricondurre i casi di suicidio a qualche regolarità che consentisse di trovare possibili spiegazioni. Tanto meno si riteneva che queste regolarità potessero essere ricercate in fenomeni di natura sociale, legati a mutamenti nelle condizioni di vita e di lavoro delle popolazioni, piuttosto che a stati d’animo.

Tanto poco era tuttavia fondata una simile convinzione, che Durkheim riuscì a dimostrare come in realtà vere e proprie ‘epidemie’ di suicidi si verificassero significativamente in periodi di crisi economica (ma anche di impetuoso sviluppo), e fossero più in generale legate alle condizioni anomiche delle società industriali moderne, all’allentarsi dei vincoli sociali, all’indebolirsi dei sentimenti di appartenenza comunitaria. A noi (a coloro che restano), ancora oggi non piace pensare che nel nostro rapporto con la vita, con la morte e con il suo senso, l’ultima parola non ci appartenga, ma dipenda dalla pressione anonima e impersonale che la società esercita su di noi. Per questo, ci ostiniamo a riconoscere anche nel suicidio una dimostrazione, per quanto tragica, della libertà dell’individuo. Per quanto inspiegabile, insano o disperato ci appaia così quel gesto, per quanto incomprensibile e sconvolgente ci giunga la determinazione che il suicida mette nell’impiccarsi o nel darsi fuoco, continuiamo a considerare che anche quella sia una manifestazione della sua volontà. Dinanzi alla quale le parole, come le spiegazioni, sono di troppo, così che non resta che inchinarci dinanzi al mistero insondabile della persona e del suo dolore.

Sono nobili, umanissimi tentativi di difendere la dignità dell’uomo. Ma c’è anche un altro modo di mantenere vivo il sentimento di quella dignità. Che consiste nel cercarla non nella decisione di farla finita, bensì nella volontà di dire al mondo che la si vuol far finita, che non se ne può più, che non è giusto che una vita di sacrifici o di stenti, di lavoro o di piccoli guadagni andati in fumo, sia distrutta da un prestito non concesso o da un licenziamento.

Perché qualcosa questi suicidi dicono, qualcosa significano. E se questi uomini e queste donne non riescono più a dir nulla alle loro famiglie, agli amici e alle persone che hanno vicine, e preferiscono invece morire per non dover più dire, spiegare, giustificare, dicono però molto a tutti noi, e a tutti chiedono una spiegazione e una giustificazione. Compiono l’ultimo tentativo di dare un volto e un nome a quel che ci colpisce come una fatalità, senza volto e senza nome.

Prendono la parola, un’ultima volta. Ma forse anche la prima: almeno in un luogo pubblico, dove poter parlare a tutti. Invece di confinare queste storie nella solitudine insuperabile di esistenze private e singolari, diamo loro la dignità e il rilievo di una parola pubblica: una richiesta di aiuto ma anche un atto di accusa. Non è vero allora che le parole sono troppe, in queste circostanze: non sono mai abbastanza. Come non è mai abbastanza quel che tocca fare non a ciascuno per sé, ma a tutti  perché ognuno consideri sensata e degna la vita che gli è dato di vivere.

L’Unità, 30 marzo 2012