Il voto largamente maggioritario con il quale i parlamentari laburisti inglesi hanno espresso la sfiducia verso il loro leader, Jeremy Corbyn, ha forse un significato che va oltre la crisi profondissima del Labour, e investe l’orizzonte stesso del socialismo europeo. Corbyn ha già detto che non lascerà: nonostante i 176 voti a lui sfavorevoli (contro 44 a favore), nonostante le dimissioni in massa dal governo ombra, nonostante l’opinione pubblica progressista lo accusi di aver condotto una compagna molto blanda a favore del “Remain”. Sostiene di avere ancora dalla sua la base e i sindacati, e non c’è norma nel partito che lo possa costringere a dimettersi. Ma, anche così, la rappresentazione che il Labour offre, di un partito spaccato fra militanti ed eletti, è di per sé la più inequivocabile immagine di un fallimento strategico.
Dopo gli anni di Blair, il Labour ha virato a sinistra, prima con Ed Miliband poi, ancor più nettamente, con Jeremy Corbyn. Questa svolta è stata da taluni giudicata necessaria, per ritrovare l’anima di un partito svenduta da Tony Blair con la guerra in Iraq, da altri invece giudicata puramente difensiva, nostalgicamente ripiegata su posizioni da vecchio Labour. Per i primi, è finalmente la riscoperta del tema dell’ineguaglianza, smarrito a sinistra dietro le false luci dell’opportunità e del merito individuale; per gli altri, si tratta in realtà della solita ricetta statalista, ormai improponibile nell’epoca della globalizzazione dei mercati. Di sicuro, pezzi del programma di Corbyn – come la rinazionalizzazione delle ferrovie – avrebbero trovato in Bruxelles un fortissimo ostacolo, e questo spiega la tiepidezza, la riluttanza e l’ambiguità in cui Corbyn si è mantenuto durante tutta la campagna elettorale. Incertezza e indecisione in politica non pagano, e ora Corbyn rischia di perdere la leadership del partito.
Ma il punto di crisi è più generale, e davvero strategico. E tocca i laburisti inglesi quanto i socialisti francesi o quelli spagnoli: si può immaginare una politica di sinistra dentro la cornice dell’Unione? O, in alternativa, si deve piuttosto accompagnare, o addirittura favorire un processo destituente, di controllato smantellamento dell’architettura europea, per cercare nella dimensione nazionale, sovranista,, la risposta alla crisi sociale? In una prospettiva storica, sembra di essere ritornati a cent’anni fa (senza che per fortuna spirino venti di guerra). Ma il nodo è in certo modo lo stesso. Cent’anni fa, ad una fase di crescente espansione globale dei commerci seguì una violenta fiammata nazionalista, e anche allora i partiti socialisti non ressero la prova: rinunciarono alla dimensione internazionalista e misero innanzi la causa nazionale. E si divisero, aprendo la strada a un lungo ciclo di sconfitte, che in fondo verrà interrotto solo dopo la seconda guerra mondiale, con la ricostruzione e il sogno democratico e federalista dell’unità europea.
Oggi, di nuovo, il socialismo europeo è di fronte a un bivio. In realtà, sembrava fino a non molti mesi fa che avesse già imboccato una strada precisa: le ripetute sconfitte della socialdemocrazia tedesca, il declino di Hollande da una parte, e dall’altra la vittoria di Podemos in Spagna e di Siryza in Grecia, i nuovi astri di Corbyn e di Sanders, sembravano andare tutti nella stessa direzione, di un profondo ripensamento ideologico, programmatico e perfino organizzativo. Tutto sembrava muoversi velocemente: fuori però della difesa cocciuta della cittadella europea, e chi rimaneva dentro appariva vanamente aggrappato ad una nave ormai colata a picco. Ma ora il vento ha cambiato un’altra volta direzione: Sanders perde, Podemos perde, Corbyn viene vigorosamente contestato, e la via alternativa che doveva finalmente cambiare le sorti del vecchio socialismo europeo si sta esaurendo. All’improvviso, si trova iscritta sotto le parole nobili ma assai poco promettenti di Samuel Beckett: fallisci un’altra volta, fallisci ancora, fallisci meglio.
Nel Regno Unito un’alternativa forse c’è, e ha il nome del neo-sindaco di Londra, Sadiq Kahn. Così almeno la pensa Anthony Giddens, che però non è quel che si dice un osservatore imparziale, essendo stato l’intellettuale più vicino a Tony Blair. Ma, al di là dei nomi, resta per i socialisti un nodo da sciogliere: lo spazio europeo è davvero impraticabile per una politica progressista, di crescita e di inclusione sociale? Nel conto non si può non mettere un dato di realtà: la forbice della diseguaglianza si è parecchio allargata, e l’Unione è oggi un posto dove c’è molta meno mobilità sociale che non trenta o quaranta anni fa. Se fallisce oggi la sinistra più radicaleggiante, non si può dire dunque che quella blairista degli anni Novanta sia andata molto meglio.
Però governava. Ed è infatti quella la pietra d’inciampo: la prova delle responsabilità di governo. Lasciamo per una volta il partito democratico e Matteo Renzi fuori dal quadro, e torniamo alla crisi del Labour: Corbyn non è in fondo incappato nella contraddizione di voler ricostruire una sinistra pura e senza compromessi da una parte, pur senza voler assumere del tutto il profilo di una forza populista, antisistema? È così anche la sua idea di Europa non è viziata da una insanabile forma di dissociazione, fra storia e attualità, interessi e idealità: lontana dalle istanze che il Labour vuole rappresentare, essendo però stata, storicamente, l’unico luogo in cui quelle istanze si sono gradualmente realizzate? La conseguenza è che se non può essere un europeista, dopo il referendum, a guidare i conservatori, non può essere europeista nemmeno il leader dei laburisti. Finché almeno si tratta del molle e impacciato, e quasi vergognoso di sé, europeismo di Jeremy Corbyn.
(Il Mattino, 29 giugno 2016)