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La tv senza pensiero non può guardare al futuro

pensiero

Le dimissioni di Campo Dall’Orto – ormai nelle cose, al di là degli aspetti formali – sono solo l’ultimo atto di una crisi che risale indietro nel tempo. Crisi aperta, a inizio d’anno, dalla rinuncia del direttore editoriale per l’offerta informativa, Carlo Verdelli, e culminata, a inizio settimana, con la bocciatura del piano editoriale presentato dal direttore generale al consiglio di amministrazione. Trattandosi della principale azienda culturale del Paese, il bilancio di questi anni andrebbe fatto non solo in termini di numeri – di ascolti, di bilanci, di dipendenti – ma anche in termini di pensiero. Parola impegnativa e ingombrante, che tuttavia qualche volta occorre mobilitare per dare un senso a vicende che altrimenti rimbalzano tra la dichiarazione del sindacato e quella del consigliere, tra la presa di posizione del politico e quella del giornalista: punti di vista tutti rispettabilissimi, ma che di solito si spendono soltanto in attesa delle nuove nomine, del nuovo palinsesto, del nuovo programma, per poi tornare tutti al punto di partenza.

Già, ma qual è il punto di partenza? Il tweet di Matteo Renzi che nel 2012, quando ancora non era nemmeno segretario del Pd, diceva «via i partiti dalla Rai»? Diciamo la verità: da qualunque cosa si sarebbe scritto allora, e si scrivesse oggi, che i partiti devono chiamarsi fuori, si sarebbero sollevate, e ancora si solleverebbero, ondate oceaniche di consenso. Ma se davvero si vuole tirare via i partiti – cioè la politica, finché si sta agli articoli della Costituzione – l’unica cosa da farsi, in coerenza con un simile grido di battaglia, sarebbe puramente e semplicemente la privatizzazione dell’azienda. Il mercato taglierebbe tutto quello che la politica non riesce a tagliare, e gli italiani non pagherebbero più il canone. È una soluzione. Ma l’Italia si priverebbe della principale infrastruttura tecnologica con la quale competere nell’arena globale dei media. In piena rivoluzione digitale, mentre nuovi connubi nascono dall’incrocio fra telefonia, internet e televisione, mentre mutano forme, strutture e modelli di formazione dell’opinione pubblica – che alla democrazia è necessaria come ai pesci l’acqua – l’Italia farebbe la scelta di lasciare libero il campo ai competitor privati stranieri in un settore assolutamente strategico per la produzione e la distribuzione dei contenuti e cioè, lo si sappia o no, per la stessa formazione di una comune “mentalità”.

Certo, mantenere una tv pubblica non può voler dire spartirsi posti in consiglio di amministrazione e proseguire pigramente con i talk show del mattino e della sera (condotti da giornalisti-artisti o artisti-giornalisti: poco cambia). L’errore di Renzi, se c’è stato, è stato quello di aver creduto che bastasse affidarsi alla cultura manageriale di un solido professionista per rimettere in sesto i conti della Rai e farla ripartire. Siccome era difficile smuovere il pachiderma aziendale, siccome la forza di inerzia delle cose è la più straordinaria resistenza al cambiamento che si incontra in qualunque settore della vita pubblica, ma in Rai di più, Renzi deve aver pensato che bisognava affidarsi ad un manager accreditato, di comprovata esperienza nel settore, dotarlo dei più ampi poteri e stare poi a guardare, perché ne sarebbe venuto tutto il resto.

Il resto non è venuto. E non perché Campo Dall’Orto non avesse idee giuste e brillanti, e neppure perché in Consiglio di Amministrazione sedevano invece le bieche forze della conservazione. È la visione di insieme che è mancata: il pensiero di quel che all’Italia serve, prima ancora di quello che serve all’azienda. Se infatti la Rai è un’azienda pubblica, è proprio perché ha senso mettere la questione nei termini più generali, nei termini cioè del contributo che il principale produttore nazionale di immagini, narrazioni e «luoghi comuni» può dare alla vita sociale e civile del Paese. Se manca quel contributo, e manca la volontà politica di rivendicarlo, allora manca l’essenziale. Manca la spinta. E finisce prima o poi che non si trovano più ragioni vere per distinguersi dalla tv commerciale, non si capisce più perché non accodarsi o perfino alimentare il populismo imperante, e non si trovano più nemmeno i motivi per accettare le sfide professionali di ridisegnare, possibilmente senza confonderli, gli spazi dell’informazione e dell’intrattenimento. E mentre si sventola la carta dell’innovazione, si finisce in realtà per invecchiare dietro i vecchi vizi e le vecchie abitudini di mamma Rai, che tutto trangugia, tutto digerisce, tutto fagocita e (eventualmente) espelle.

Credo di aver usato tre parole soprattutto, e di averle usate insieme. Sono tecnologia, cultura, politica. Quelli che pensano che basti pigiare il pedale sull’innovazione tecnologica per fare nuova la Rai non sanno cosa pensano. Quelli che credono all’opposto che l’ora della cultura scocchi solo quando si tengono alati discorsi, rinunciando alla popolarità dei nuovi linguaggi e dei nuovi media: anche loro non sanno cosa pensano. E quelli che invece credono che tutti i guai vengono dalla politica, anziché pensare, si limitano a ripetere i peggiori pensieri altrui, lasciando la Rai, senza neppure accorgersene, in balia di tutte le resistenze e le camarille interne all’azienda.

Tecnica cultura e politica sono in realtà i vertici di una stessa figura, quella che da duemilacinquecento anni chiamiamo democrazia. Tocca fare la fatica di metterli insieme, se quella figura deve avere ancora un senso.

(Il Mattino, 27 maggio 2017)

I libri da consigliare a Di Maio e Di Battista

downloadPinochet: chi era costui? Un dittatore. E dove esercitava il suo onesto mestiere? In Cile. Ma Di Maio lo piazza in Venezuela. Con uno svarione memorabile, come neanche i nostri compagni di scuola hanno saputo regalarci ai tempi belli.

C’è poco da scherzare: se studi da premier, conviene che ti fai una cultura. Magari insieme all’altro aspirante del Movimento Cinquestelle, Di Battista, che ti ha già preceduto da lunga pezza sulla strada delle gaffe. E dei congiuntivi sbagliati.

Si potrebbe cominciare dal giardinaggio, occuparsi della chimica per passare poi all’archeologia. Forse non è il percorso più lineare, ma è quello che seguono quei brav’uomini di Bouvard e Pécuchet, gli eroi involontari dell’ultimo, incompiuto romanzo di Flaubert. Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista potrebbero seguirne le orme: magari senza ritirarsi in campagna come loro, perché la carriera politica dei due leader ne risentirebbe, ma con la stessa voracità enciclopedica. Le cose da sapere, infatti, sono tante. Nel frattempo, potrebbe venire loro incontro il dizionario dei luoghi comuni che sempre Flaubert sognava di completare: molto utile per far conversazione in società, tenendosi appunto a quel sano buon senso che insegna le cose che bisogna dire per ben figurare. Come per esempio che il machiavellismo è da esecrare, che Darwin era quello che diceva che gli uomini discendono dalle scimmie e che il filosofo Diderot va citato sempre in coppia con D’Alembert. Cose così, magari appena più aggiornate: coi nomi propri al posto giusto ma sempre nei pressi della familiare banalità quotidiana.

Se infatti si lascia la solida frequentazione delle stupidaggini di tutti i giorni, si finisce fatalmente con l’inciampare. Collocando Pinochet in Venezuela, mentre ci si lancia in un impegnativo paragone fra il nostro premier e il generale cileno. Di Maio avrebbe forse potuto continuare con un «sempre di Sud America si tratta!», ma ha preferito correggersi, il che è sicuramente dimostrazione di una salda volontà di imparare dai propri errori. Però, nel sistemare in fretta la geografia, ha lasciato comunque in piedi il paragone fra il presidente del Consiglio di un paese democratico, e l’autore del golpe, che depose manu militari il governo democratico di Salvador Allende (e che in seguito fu processato per crimini contro l’umanità). Queste cose si sanno: stanno in tutti i manuali scolastici di storia contemporanea, dei quali ogni tanto sarebbe utile un ripasso, o almeno una qualche forma di consultazione. Anche perché Di Maio soggiunge: «e sappiamo com’è finita», come se in fondo all’esperienza del governo Renzi i Cinquestelle intravedessero già migliaia di persone torturate e uccise.

Ma forse è solo un problema di retorica sopra le righe. Se dunque, per sistemare le proprie conoscenze nell’ambito della storia contemporanea, possono tornare utili i manuali in uso delle scuole (non dimenticandosi di aggiungere che il Novecento è stato il secolo breve: così si fa mostra di aver letto Hobsbawm e si allunga il dizionario di Flaubert), per sistemare paragoni e metafore si può ricorrere a Bice Mortara Garavelli, coi sui libri sulla retorica, e il prontuario di punteggiatura. Il classico trattato sull’argomentazione di ChaÏm Perelman è infatti un po’ troppo impegnativo.

Prendete Di Battista: «mi domando quanto un miliziano dell’ISIS capace di decapitare con una violenza inaudita un prigioniero sia così diverso dal Segretario di Stato Colin Powell». A parte il gentile contributo alla causa di Flaubert – la violenza è sempre «inaudita» o «efferata» –, è chiaro che per sostenere simili paragoni servono anche dosi massicce de «L’arte di ottenere ragione» di Schopenhauer. O qualcosa del genere. Ma certo è che il lungo scritto in cui Di Battista, nel ricostruire a modo suo (cioè con parecchie imprecisioni) le vicende mediorientali, chiedeva di «intavolare una discussione» coi terroristi e eleggeva lo Stato islamico ad interlocutore, più che un contributo all’analisi storico-politica era un manifesto dell’antiamericanismo, cioè un pezzo di (alta o bassa: fate voi) retorica politica.

Già. Sistemati italiano e storia (e giardinaggio e chimica e archeologia) bisognerebbe pur sempre saperne di più di politica. Da dove cominciare? Dalla «Politica» di Aristotele o dal «Leviatano» di Hobbes? Perché non c’è cultura senza classici, ma i classici purtroppo sono tanti. E poi c’è la filosofia politica, la scienza politica, la storia delle dottrine politiche, la sociologia politica: insomma, una faticaccia. Che fare? Forse ci si può limitare ai pensatori del Novecento – a Bobbio e Habermas, a Dahl e Rawls –, così ci si tiene in una zona medio-alta, e ci si accultura senza troppi rischi.

E il cinema, e tutta l’arte del ventesimo secolo, e la letteratura e il diritto e le scienze sociali? Non finiranno schiacciati, i nostri due eroi, da Dante e Shakespeare, da Manzoni e Thomas Mann? Stiamo esagerando. Per fortuna la politica – la politica democratica – non è affatto riservata solo ai laureati con lode (per quanto, qualche esame in più…). Ma infatti il problema non è la mancanza di cultura: è la mezza cultura, e quel misto di supponenza e faciloneria, di grande saccenteria e piccola bestialità, che a volte si fa persino aggressiva, per nascondere i vuoti – di pensiero, più che di erudizione – che ci sono dietro.

(Il Mattino, 15 settembre 2016)

La cultura in tv

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Giovani scrittori, geniali compositori, professori, artisti e protettori di tutte le muse si stanno già fregando le mani: tolte di mezzo l’Isola dei Famosi e Miss Italia tocca finalmente a loro. La Rai ha deciso infatti di puntare sulla cultura; il Direttore Generale, Anna Maria Tarantola, vuole una tv di qualità, perciò da questo momento Corazzate Potëmkin tutte le sere (quella coi sottotitoli in lingua originale, s’intende).

In realtà, su questa storia di come la Rai debba assolvere alla sua funzione di servizio pubblico, essendo la principale industria culturale del paese, non si riesce mai a venire a capo di nulla. C’è sempre quello che non vorrebbe dare le perle ai porci, l’altro che invece non sa immaginare nulla di diverso da una porcilaia, e in mezzo l’esperto di comunicazioni di massa che metterà l’uno e l’altro a tacere per parlarvi dello specifico televisivo, come una volta si parlava dello specifico filmico. Ugo Volli ha provato ieri a dissipare qualche equivoco, sulle colonne di questo giornale, togliendo perlomeno di mezzo l’idea che basti cancellare le miss e liberare il palinsesto dai reality ormai decotti per darsi una patina di cultura. Purtroppo non è così, e non per colpa dei programmi di serie B che infestano la programmazione: chi gioca in cadetteria sa benissimo in quale campionato milita e non si sogna nemmeno le prosopopee della cultura alta. Ma è in serie A – ha spiegato giustamente Volli –  che in Rai le cose proprio non vanno.

E non vanno né nei programmi di intrattenimento colto che fanno grandi numeri, né in quelli che se ne stanno buoni in qualche nicchia protetta. Non vanno, tanto per fare qualche nome, né dalle parti di Fabio Fazio né da quelle di Corrado Augias. E non perché quei programmi siano fatti male, o i loro conduttori non siano fior di professionisti, ma perché non passa  in quegli spazi neanche un alito di novità, neanche un brivido di sperimentazione, neanche la più piccola scommessa su un’idea o su un autore o su qualunque altra cosa. Diceva Roland Barthes che nella storia della fotografia c’è stato prima il tempo in cui si fotografava il notevole, poi quello in cui si rendeva notevole ciò che si fotografava. Quello che vale per la  fotografia dovrebbe valere anche per la televisione: a che serve fare televisione, se si tratta di riprendere solo ciò che è notevole, senza inventarsi nulla che serva a rendere notevole – come se fosse visto per la prima volta – ciò che si riprende? Eppure la Rai sembra che da un bel pezzo si sia fermata al primo tempo, rinunciando a giocare il secondo. Ad autori e conduttori non si richiede altro sforzo che non sia quello di collocare oggetti o personaggi già famosi, già celebrati, già a pieno titolo iscritti nella categoria del “notevole”, davanti alla telecamera  che li riprenderà con la simpatia e l’ironia necessaria a far digerire dosi di conformismo da cavallo. Nella migliore delle ipotesi, la cultura non starebbe comunque nella trasmissione, casomai nell’oggetto trasmesso. In quella peggiore (e non infrequente), la cultura non ci sarebbe affatto, vista la confusione che regna pure dal lato dell’oggetto, per cui Dante significa Benigni, e letteratura significa Saviano (forse grazie al meritatissimo bonus dell’eroismo civile). Ma la cultura si fa in tutt’altra maniera – quando si tratta proprio di farla, e non di occuparsi solo del packaging. Quando si vuole portare anche un solo italiano a entrare in un teatro, oppure a scoprire una mostra che non sia già un evento mediatico, e magari comprare un libro che non sia già un bestseller. Nell’ambito di ciò che chiama cultura, la Rai non sa rendere notevole nulla che non lo sia già, mentre quel che rende notevole non appartiene in genere alla cosiddetta cultura: sono le miss e i campioni dei reality show. Visto come stanno le cose, tanto varrebbe tenerseli: si eviterebbe almeno un bel po’ di ipocrisia.

Che se poi la cultura la si facesse davvero non dovrebbe essere la Rai una fucina di talenti? Ma dove sono i nuovi autori, i nuovi programmi, gli spazi affidati alla scoperta e all’invenzione? Dove  si parlano nuovi linguaggi, si tentano nuovi stili, se persino nei mondi della musica o della comicità, più giovanili e sensibili alle novità, non si muove quasi nulla? Per i nottambuli c’è Zoro, che fa Gazebo; e poi: che altro? Cosa passa in prima serata, che non sia lì dalla fine del Novecento? E cos’è che smuove le acque, fa davvero opinione, tendenza, gusto, e non si limita a registrare opinioni, gusti e tendenze che già ci sono? Hannah Arendt diceva  che la società di massa non vuole cultura ma svago, intrattenimento. Aveva torto, hanno torto tutti gli apocalittici per i quali per le masse non c’è speranza alcuna. Ma per dar loro torto, una cosa almeno è necessaria: che non solo lo svago, ma anche la cultura appartenga a questo nostro tempo, non a quello che ormai non c’è più, e che tuttavia si ripete ancora.

Il mattino, 23 maggio 2013