Nella primavera del 1964, cinquant’anni or sono, Arthur Danto, il padre della riflessione estetica di impronta analitica, scomparso lo scorso anno, si imbatte nella seconda (e ultima) mostra di Andy Warhol alla Stable Gallery di Eleanor Ward, a New York. Si imbatte nelle scatole da imballaggio per le pesche sciroppate Del Monte, in un centinaio di «Brillo Box», e «in tutte le grandi cose moderne che gli espressionisti astratti avevano cercato tanto di non notare affatto». Warhol aveva chiaro, infatti, che bisognava rompere con la stagione segnata dalle grandi tele di Pollock o di Rothko: passare dai grandi drammi dell’esistenza umana, tradotti in gesti violenti o in severe meditazioni sul colore, alle lattine di zuppa e alle bottiglie di Coca-Cola. Per Danto fu un’epifania. Come lui stesso racconta, è di lì che prende avvio la sua riflessione sull’opera d’arte, sistematizzata nel suo libro più importante, La trasfigurazione del banale.
Il pubblico italiano ha potuto replicare in queste settimane l’incontro con ampie sezioni dell’opera di Andy Warhol, grazie a due grandi mostre italiane, a Pisa e a Milano (che chiude domenica prossima a mezzanotte).
In questi cinquant’anni, la produzione artistica di Warhol ha raggiunto una visibilità mondiale. Peraltro, i prezzi battuti da Sotheby’s lo scorso novembre, con la Silver Car Crash aggiudicata per 105,4 milioni di dollari avrebbero confermato Warhol nella sua idea, che «esser bravi negli affari è la forma d’arte più elettrizzante». È ovvio: se si abbattono i limiti che relegano l’arte in un ambito separato dal mondo reale, e se il mondo è dominato dagli affari, non c’è modo migliore per un’opera d’arte di affermarsi nel mondo che quello di tenersi su col prezzo.
Ma sono davvero le serate da Sotheby’s o da Christie’s a fare, oltre al prezzo, anche il valore artistico dell’opera? Danto in realtà non ha mai sposato la teoria istituzionalista dell’arte, per la quale è opera d’arte ciò che il sistema dell’arte decreta che sia tale (affaristi compresi). Questo decreto, obiettava il filosofo americano, deve pur essere emesso in base a ragioni: quel che allora ci interessa davvero sono proprio queste ragioni.
Il punto è che però, dopo l’orinatoio di Duchamp, gli objets trouvés di Jasper Johns e le scatole di compensato di Warhol, non c’è più nessun oggetto che non possa entrare, tal quale o almeno sub specie repraesentationis, nello spazio dell’arte. Dal momento che si possono quindi dare due oggetti perfettamente identici sotto l’aspetto materiale, di cui però uno è un’opera d’arte e l’altro no, le ragioni che ne fanno un’opera d’arte non riposano più nell’aspetto sensibile delle cose. Fine dell’estetica (e fine dell’arte legata all’apprezzamento estetico). Dove riposano, allora? La risposta di Danto è in una parola: Artworld, ossia nel mondo dell’arte, nella relazione di senso che l’opera d’arte intrattiene con il mondo che la circonda e per cui prende il significato di opera. Sarà per esempio il potere di rivelazione che le icone di Warhol dimostrano nei riguardi di ciò che noi stessi siamo, nell’epoca del consumo di massa, a conferire alle sue opere il titolo di artisticità. Ma questo potere esse non lo possiedono in sé, ma solo rispetto al mondo che in esse si specchia. (Anzi: si ripete fino alla noia).
La tesi di Danto è esposta alle solite obiezioni che si muovono in filosofia ogni volta che la contesa sembra dividere realisti da idealisti (il che la dice lunga su questa maniera di far filosofia, più che sull’opera d’arte). Se i secondi dicono che non è la realtà oggettiva, materiale dell’opera a decidere del suo valore artistico, i primi obiettano che le ragioni di contesto – l’Artworld – sono troppo mutevoli, e in definitiva risiedono solo nelle credenze di certi individui. Il che è un po’ poco. La teoria di Danto finisce così col non essere più una teoria dell’arte, ma al più una teoria sulle credenze per cui certuni ritengono che alcuni oggetti siano opere d’arte.
È possibile superare questo stallo? Forse no. Forse no se i termini rimangono quelli intorno a cui si annoda nella discussione, per cui è oggettivo solo ciò che è materiale, mentre ciò che non è materiale e per definizione soggettivo, quindi mutevole e insomma arbitrario. Ma questa è affare di una (vecchia) disputa squisitamente filosofica. Invece della quale, si può almeno provare a volgere in positivo lo stallo in cui ci si è cacciati. Si può cioè provare non a definire in generale che cos’è un’opera d’arte – impresa sempre più ardua, e forse persino inutile – ma a farne esperienza proprio là, dove la teoria formulata a suo proposito fallisce.
Questo è in fondo quel che capitò a Danto nel ’64, alla Stable Gallery: aveva certe idee sull’arte che i barattoli di Warhol furono in grado di buttargli all’aria. Più che la successiva sistemazione, la razionalizzazione ex post di quell’esperienza in una teoria, quel che conta è proprio l’esperienza che Danto poté fare. E, in fin dei conti, nonostante le parole di Warhol sul quarto d’ora di celebrità che non si nega a nessuno, alle sue opere è toccato ben più di un quarto d’ora, visto che sono ancora lì dopo cinquant’anni, – e in Italia fino a domenica -, come occasione di un possibile incontro. (Anzi: di un possibile trauma).