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Il romanzo del partito delle toghe

Acquisizione a schermo intero 09052016 110551.bmpNel racconto ordinario degli ultimi venticinque anni di vita pubblica italiana ci sono essenzialmente due cose: l’inchiesta Mani Pulite e Silvio Berlusconi. Da un paio di anni si è aperto un terzo tempo, legato all’ascesa di Matteo Renzi: prima alla guida del Pd, poi alla guida del Paese.

Si tratta naturalmente di un racconto parziale. Qualunque elettore di centrosinistra si preoccuperà di aggiungere che no, c’è stato anche l’Ulivo (e la sinistra al governo, e il primo capo di governo ex-comunista). Ma in quel racconto ordinario – che non ha doveri di accuratezza storiografica – queste cose figurano come intermezzi rispetto ai due elementi assiali, determinanti l’uno nella destrutturazione del campo politico, l’altro nella sua successiva riconfigurazione. Ma soprattutto l’uno e l’altro evento sono fra di loro legati, nel discorso pubblico, dalla centralità che vi ha avuto il conflitto con la magistratura. Cosicché è difficile sottrarsi alla domanda, se non stia accadendo la stessa cosa oggi: mentre un nuovo assetto politico prova a consolidarsi attorno alle riforme di Renzi (e alla madre di tutte: la riforma costituzionale), si acutizzano i motivi di tensione con le toghe. E così prende di nuovo forma una narrazione imperniata principalmente sui temi della legalità e della giustizia da una parte, della corruzione e dell’inquinamento della politica dall’altra.

Le dichiarazioni rilasciate a più riprese da Piercamillo Davigo, neo-Presidente dell’Anm, o da ultimo quelle attribuite al membro togato del CSM, Piegiorgio Morosini, hanno avuto anzitutto questo significato. Prima ancora di riguardare punti di merito, esse hanno rilanciato il genere letterario di maggior successo in questi anni, quello nel quale la magistratura fa la parte del protagonista buono, mentre la politica ha il ruolo dell’antagonista cattivo.

Ora, a ben vedere né gli anni di Tangentopoli né quelli del berlusconismo possono essere ricondotti sotto quest’unico canone. Un conto è la vulgata, un altro è la realtà storica. Per quanto forti siano stati nei primi anni Novanta gli scossoni dell’inchieste del pool di Mani Pulite, la caduta del Muro, la fine dell’ordine internazionale fondato sui due blocchi – americano e sovietico – e infine la nuova realtà europea (con i relativi vincoli economico-finanziari) sono stati almeno altrettanto decisivi, perché l’Italia voltasse pagina. Lo stesso dicasi per il berlusconismo: gli appassionati del genere letterario di cui sopra lo racconteranno magari come un improvviso bubbone di illegalità, ma lo spostamento di orizzonte prodottosi con l’egemonia del Cavaliere intorno ai temi di una possibile agenda liberale del Paese – certo mescolati con dose abbondanti di moderatismo, leghismo e populismo –è stato ben più significativo dei problemi di legge e pubblica moralità nei quali è più volte inciampato Berlusconi, ogni volta tirandosi dietro polemiche al calor bianco con le cosiddette toghe rosse.

Però quel racconto resiste, anzi si cronicizza, e rimane così la sceneggiatura di gran lunga più sfruttata non solo per raccontare quel tempo, ma anche per interpretare la stagione corrente.

La qual cosa certamente non giova alla politica, e giova invece a tutti gli altri poteri che prendono maggiore forza dalla debolezza delle istituzioni rappresentative. Non c’è ovviamente bisogno di immaginare complotti orditi da chissà chi. Perché quando si tratta di trame occulte, è facile cominciare ipotizzando piccoli interessi di bottega per poi finire col tirar dentro i servizi segreti, la Cia e il Mossad. Oppure gli immancabili poteri forti, tipo la DeutscheBank su cui indaga nientemeno che la procura di Trani. Molto più banalmente, è ragionevole ritenere che più leggero si fa il peso della volontà politica, la quale sempre meno riesce ad essere davvero sovrana, e più corpi e organi dello Stato se ne vanno per proprio conto, «iuxta propria natura». Ampliando i propri spazi d’intervento, acquisendo di fatto un ruolo politico, soddisfacendo pure a qualche più prosaica esigenza sindacal-corporativa (vedi alle voci: ferie dei magistrati).

In Italia, questa dinamica è stata peraltro preparata da un progressivo smottamento della cultura garantista, che viene da lontano: dall’emergenza terroristica prima, da quella mafiosa poi. L’una e l’altra hanno alimentato la convinzione che prima viene il contrasto e la lotta, poi, se mai, il diritto e le garanzie. Se dunque il fenomeno della corruzione si presenta come la nuova emergenza, il gioco è fatto, e si può riprendere il filo di quella venticinquennale narrazione che alla magistratura continua ad assegnare una decisiva, e a volte debordante,funzione surrogatoria.

E invece: c’è o no un tema di durata ragionevole dei processi? C’è un problema con la diffusione straripante delle intercettazioni? C’è uno squilibrio fra la fase delle indagini, e quella della celebrazione vera ed effettiva dei processi? C’è un’esigenza ordinamentale, anzitutto di riforma del CSM? Ci sono abusi nell’uso della custodia cautelare? E ci sarà sempre bisogno di legislazioni speciali e doppi binari processuali? C’è, infine e soprattutto, spazio per discutere questi punti «sine ira ac studio», senza cioè che si opponga che, poche storie, il problema è la corruzione, e chi suggerisce altri motivi è semplicemente complice, colluso o connivente?

Insomma: il terzo tempo di questa lunghissima transizione oltre i confini della prima Repubblica si accoderà ai primi due, seguendo il medesimo palinsesto, oppure proverà a costruirne uno nuovo?

(Il Mattino, 9 maggio 2016)

Il coraggio di avere paura della santa intolleranza

DAVIGO

Due punti, virgolette: «si fa come con i trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i poliziotti a offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta». Così parlò Piercamillo Davigo, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, intervistato ieri dal Corriere della Sera. Ieri, ma poteva essere anche dieci o vent’anni fa. Anzi no, perché oggi è diverso, «oggi la situazione è peggio» che all’epoca di Mani Pulite, del cui pool Davigo fece parte. E tutta l’intervista svolge quest’unico tema, la corruzione della politica, i politici che rubano, i corrotti più forti di prima, i delinquenti in carcere che sono troppo pochi. E infine i governi che, di destra e di sinistra, agiscono sempre allo stesso modo: quando va bene prendono provvedimenti inutili; quando va male favoriscono la corruzione. E tutti, tutti sono senza vergogna, rubano senza vergogna, parlano senza vergogna.

Nel suo santo furore contro la corruzione politica che infesta il nostro Paese, Piercamillo Davigo non si prende nemmeno una volta il tempo di spiegare in cosa consiste il diritto di difesa, oppure la presunzione di innocenza, o la funzione democratico-rappresentativa dei partiti. Non sospetta un uso distorto della custodia cautelare, non conosce comportamenti abusivi del pubblico ministero, respinge la logica della responsabilità civile dei magistrati. E dice almeno un paio di cose di una gravità difficile da sottovalutare.

La prima: alla domanda se davvero avesse detto in passato che «non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti» risponde che, certo, lo ha detto e lo conferma, con riferimento a un certo contesto ambientale, che prova a descrivere. Ma in quale contesto giuridico può mai esser vera un’enormità simile? Dal punto di vista dello stato di diritto, non è mai vero che non esistono innocenti: in nessun contesto, neanche nel più degradato, nel più compromesso, nel più corrotto dei contesti possibili. Neppure tra i trafficanti di droga e gli spacciatori di materiale pedopornografico a cui Davigo paragona con squisita gentilezza i politici: neanche lì la legge può considerare di avere dinanzi solo colpevoli di cui non si sia potuto ancora dimostrare la colpevolezza. C’è solo un contesto in cui questo può accadere, ma non ha a che vedere con la legge e con il diritto, bensì con l’abito mentale dell’inquisitore. Davigo è del resto convinto che «male non fare paura non avere», come ha ricordato ancora di recente. Il che si traduce in due non piccole conseguenze: la prima, che il pubblico ministero è di fatto autorizzato a incutere paura, dal momento che dall’altra parte si spaventerà solo il cittadino disonesto; la seconda, che la vera difesa dell’indagato, o dell’imputato, contro cui preme il martello dell’inquisitore, non è nel diritto, nelle garanzie e nelle regole del processo, bensì solo nella morale e nella onestà personale. Difficile compiere più rapidamente tanti passi indietro dal punto di vista del garantismo penale.

C’è poi l’altra enormità che Davigo si spinge a dire, quando rievoca i fasti di Tangentopoli. Perché traccia il bilancio di quella stagione contando non il numero dei processi o delle condanne, ma quello dei partiti che crollarono sotto i colpo delle inchieste. Li conta: furono cinque, «tra cui quello di maggioranza relativa», cioè la Dc, ma non crollarono tutti. Infatti: «dovemmo interrompere la cura a metà». Anche in questo caso è evidentemente all’opera la stessa antigiuridica presunzione di colpevolezza di prima: i partiti che non crollarono resistettero solo perché i magistrati non arrivarono fino a loro. Ma soprattutto l’attività della magistratura prende in queste parole uno smaccato significato politico. Non è più questione, infatti, di reati da scoprire, ma di partiti da demolire.

Ora, è vero che il vice Presidente del CSM, Legnini, ha preso le distanze dalle parole di Davigo, ma resta la preoccupazione per una magistratura associata che si esprime in questi termini: non per chiedere di discutere questo o quell’aspetto della riforma della giustizia, non per dialogare sui temi in discussione in Parlamento, ma per gettare nel totale discredito l’interlocutore politico con cui pure dovrebbe intrattenere rapporti certo anche ruvidi, se necessario, ma pur sempre di reciproco rispetto.

E invece non c’è una sola parola nell’intervista che lasci pensare che per Davigo la politica italiana sia altra cosa che un grande latrocinio. Così peraltro pensava sant’Agostino dei regni e degli Stati. Ma appunto era un santo a pensarlo, uno che cioè prendeva a metro e misura degli uomini la giustizia di Dio. È possibile accettare che il Presidente dell’Anm nutra la stessa, santa intolleranza?

È questa la cultura giuridica liberale di cui ha bisogno il Paese? Oppure ha davvero ragione Davigo, e allora non si tratta di processi o di garanzie, ma di riattivare il mito fondativo di Mani Pulite, per resettare daccapo la classe politica del Paese? Dalla crisi della politica deve dunque venire la santa Repubblica dei giudici, con i Cinquestelle che, entusiasti delle parole del magistrato, si candidano fin d’ora a guardiani della rivoluzione? C’è di che aver paura. E bisognerà avere pure il coraggio di avere paura, quando qualcuno vi dirà beffardo che hanno paura solo i corrotti.

(Il Mattino, 23 aprile 2016)