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Girolamo De Michele getta via Heidegger più di un mese fa e io pazientemente lo raccolgo

"Ogni volta che il suo pensiero tocca qualche punto essenziale, Heidegger se ne esce ingarbugliando il linguaggio", così dice Girolamo De Michele (Liberazione 14 agosto). Io mi sono sempre chiesto se vi siano e quali siano le condizioni per la chiarezza, in filosofia, e cosa dovrebbe fare un filosofo quando venissero meno tali condizioni (oppure non possono e non debbono venire mai meno? e perché?). Non vorrei però ingarbugliarmi: si può essere banalmente d’accordo che la chiarezza suppone che ciò che è detto e il modo in cui lo si dice si possono ben tenere distinti, in modo che, quando non fosse chiaro come si son dette le cose, si possano dirle altrimenti e più chiaramente. Ma se un filosofo pensa che ciò che è detto e il modo in cui lo si dice non si possono tenere ben distinti?
De Michele scrive che Heidegger fa strame della sintassi e della filologia. Ma non mi sembra che ben filosofare debba supporre a priori il rispetto della sintassi e della filologia. Può magari essere auspicabile, si può adottare il prudente precetto di non fare strame sine necessitate, ma non si può dire che si comincia a filosofare solo dopo che sintassi e filologia (o qualunque altra cosa) abbiano ben stabilito le regole da rispettare.
De Michele porta un solo esempio di questo uso irresponsabile del linguaggio: "il niente nientifica". Si domanda cosa mai vorrà dire. Sostiene che Heidegger parlava dinanzi ad interlocutori a cui un’espressione del genere non poteva voler dir nulla. Può darsi. Io però ben conosco persone per cui quell’asserzione significa di sicuro qualcosa: sono persone mediamente intelligenti, non naziste, e prive di ammirazione acritica verso Heidegger (tra queste, peraltro, mi ci metto anch’io).
Non è poi vero che Heidegger liquidi il linguaggio quotidiano come chiacchiera insignificante. O meglio: non è vero del linguaggio quotidiano in quanto quotidiano (e in quanto linguaggio). Una buona parte del lavoro filosofico di Heidegger sull’eredità greca è consistita nel riattivare i significati ordinari delle parole di contro al loro uso metafisico platonizzante. Lo faceva facendo strame della filologia, probabilmente, ma in ogni caso questo comporta che il giudizio di de Michele sia perlomeno da circoscrivere.
De Michele dice però che Essere e Tempo è un gran libro. Meno male. Chi scrive un gran libro di filosofia per me è un gran filosofo, ma forse mi sbaglio. Però, dopo il riconoscimento di De Michele, segue la critica: Heidegger non ha portato a termine il libro per la mancanza di un linguaggio adeguato all’Essere. A parte il fatto che non si tratta di adeguatezza, ma pretendere di ridolizzare Heidegger per una simile affermazione è imbarazzante, se almeno Essere e Tempo deve rimanere un gran libro.
Salto un po’ di ironie facili che De Michele spande a piene mani, e vengo alla citazione del verso del poeta. Il poeta è Hölderlin, ma per De Michele si tratta di Rilke: non faccio delle facili ironie.
Poi De Michele cita la nota frase di Heidegger, "ormai solo un dio ci può salvare", e fa dell’ironia sul singolare: un dio? Perché: ce ne sono molti? E poi domanda: "Ma un filosofo che si affida a un dio non sta tradendo dal proprio sapere?". Ora, non so bene cosa significhi ‘tradire dal proprio sapere’, ma so che tra le domande poste da Heidegger v’è anche quella in cui si chiede ‘come dio entra in filosofia?’ Se De Michele se la fa presente, comprende da solo che non ha senso parlare di tradimento (sia detto senza addurre la testimonianza di tutti i filosofi che a un dio han fatto giocare ruoli ben più ingombranti di quanto non abbia fatto Heidegger).

Ma il capo d’accusa riguarda la responsabilità nell’uso delle parole, il rendere conto delle proprie asserzioni. De Michele non è il solo a trovare irresponsabile chiunque si sottragga a questo esercizio del logon didonai. Eppure dovrebbe essere chiaro che il filosofo il quale ritenesse che il ‘render conto’ è forse solo un certo regime di discorso, ed un certo modo di essere fedele alla cosa del pensiero (a quel che si tratta di pensare); il filosofo che volesse dare conto dei limiti del dare conto, il filosofo che volesse fare la genealogia del dare conto, il filosofo che volesse mostrare come questo esercizio del dare conto non basti a se stesso, e abbia bisogno per esempio, sin dal tempo in cui Platone l’ha inventato, del soccorso di un’intuizione la quale, De Michele ne converrà, è sempre una gran comodità, beh: questo potrebbe pure grandemente errare, ma non è necessariamente un imbecille o un nazista o un ciarlatano. D’altronde, De Michele è un ottimo studioso di Benjamin, e mi domando quante affermazioni di Benjamin stiano dentro al modo di render conto delle proprie asserzioni che costituisce oggi lo standard scientifico comunemente accettato. (Un’opera che consista solo di citazioni, il sogno di Benjamin, come diavolo fa a dar conto delle citazioni medesime?).

(E sia chiaro: io non sono un heideggeriano).