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La misura del Mezzogiorno non è solo il PIL

Zigaina

I dati Istat sul prodotto interno lordo del Mezzogiorno diffusi a fine giugno mostrano segnali assai incoraggianti: il Sud tiene, cresce insieme al resto del Paese, e la Campania è al primo posto in Italia in termini di sviluppo produttivo. La crescita avviene grazie ad un aumento dell’utilizzo dei fondi pubblici e alla ripresa del settore manifatturiero, attestata in particolare dai buoni numeri dell’esportazione delle imprese campane, e dall’aumento dell’occupazione. Che per una Regione gravata da cifre record di disoccupazione giovanile e femminile è davvero una boccata d’ossigeno. Il Ministro De Vincenti, oggi a Napoli, ha dunque dinanzi un quadro che non può certo definirsi roseo, ma che sicuramente presenta una significativa inversione di tendenza rispetto al più recente passato.

Chi voglia comporre una raffigurazione veritiera della situazione del Mezzogiorno non può tuttavia fermarsi qui. Sia perché il divario con il Nord è troppo ampio, troppo profondo e sedimentato perché si possa accantonare la «quistione» sulla sola base delle ultime rilevazione dell’Istituto nazionale di statistica, sia perché una rappresentazione adeguata della condizione sociale, civile ed economica di questa parte del Paese ha bisogno di prendere in considerazione anche altre dimensioni del vivere associato.

Non intendo con ciò né tirare in ballo l’annosissima questione meridionale al solo scopo di intonare le solite litanie, né tanto meno sminuire il cammino percorso negli ultime due anni, in cui ha sicuramente pesato l’intervento pubblico: per la spinta che le politiche regionali di sgravi fiscali e incentivi alle imprese hanno dato al comparto industriale, per un clima diverso di collaborazione fra le istituzioni (si pensi ai patti per il Sud), per un’azione di semplificazione amministrativa che ha sicuramente inciso sulle capacità di spesa degli enti locali.

Voglio però dire che è bene guardare la realtà in tutta la sua complessità. È bene guardare, ad esempio, cosa emergerà una volta che la polvere della palazzina crollata a Torre Annunziata si sarà posata: è presto, infatti, per parlare di inadempienze o per individuare responsabilità, ma l’impressione – lì come altrove – è che troppi angoli delle nostre città, troppi edifici, troppe attività commerciali, troppe studi professionali e troppe unità produttive vivono ancora ai margini dei circuiti legali dell’economia e della società. Vivono, se così si può dire, a pelo d’acqua, col rischio che un peggioramento congiunturale li risospinga sotto la linea di galleggiamento, o che un evento non ordinario ne metta drammaticamente a nudo fragilità e debolezze.

Se c’è un settore che mostra tutta la distanza che il Mezzogiorno deve colmare, questo è quello della scuola, dell’università e della ricerca, decisivo per far ripartire l’ascensore sociale in un Paese segnato da indici di diseguaglianza che divaricano invece di restringersi. Anche in questo campo non mancano, in verità, le buone notizie: si è chiuso in questi giorni con successo, e avrà una seconda edizione, il corso per sviluppatori della Apple inaugurato lo scorso anno, mentre parte questa settimana la nuova Academy sui temi della trasformazione digitale della Federico II in collaborazione con l’agenzia Deloitte, tra le più prestigiose al mondo. Ma le punte di eccellenza non bastano. Il Mezzogiorno continua a scontare tassi di dispersione scolastica troppo elevati; le migliori intelligenze continuano a lasciare il Sud, in un’emorragia che ha spinto lo Svimez a parlare di desertificazione demografica, non solo economica. E il sistema universitario campano rimane confinato nei bassifondi delle classifiche internazionali: discutibili quanto si vuole ma tuttavia indicative, nel complesso, di una condizione di ritardo rispetto al resto del Paese, e dell’Europa. Pesa ovviamente la brusca riduzione dei trasferimenti statali, che ha penalizzato particolarmente gli Atenei meridionali: sarebbe utile che oggi se ne parlasse anche con il Ministro De Vincenti, che pure ha lavorato bene in questi mesi, e che però, occupandosi il suo Dicastero di coesione territoriale, è il primo a dover sapere quanto il contesto sociale ed economico incida anche sulle prestazioni del sistema universitario.

Tutto questo è da tener presente, quando si guarda al Sud: il problema di una criminalità organizzata che esercita fortissimi condizionamenti sull’economia dei territori; la vecchiezza della pubblica amministrazione, che ha bisogno di essere profondamente rinnovata; la debolezza delle reti infrastrutturali materiali e immateriali, che scavano nuovi gap con le aree più avanzate; la pressione migratoria che rischia di scaricarsi in particolare sugli strati più deboli della società. Ma di nuovo: non si tratta di presentare a De Vincenti l’ennesimo cahier de doléance. Ricominciamo anzi daccapo: dai segnali di ripresa, dall’occupazione che cresce, dalla vitalità del tessuto produttivo. Però proviamo ad ascoltare anche quel silenzio rumoroso di cui parlava ieri, da queste colonne, Biagio De Giovanni, quella colpevole dimenticanza che a livello nazionale ancora circonda i problemi del Sud, relegandoli a meri problemi locali. Facciamolo anche perché l’orgoglio e l’identità di una città, di una regione, di un territorio non vengano usate soltanto in una chiave populista e ruffiana, che scalda gli animi e muove le piazze attorno alla pizza o al pallone, ma che non riesce a collegarsi in uno sforzo unitario con il resto della Nazione.

(Il Mattino, 10 luglio 2017)

Debolezza come strategia

pupo

La rapida soluzione della crisi di governo per l’ultimo tratto della legislatura non riserva sorprese: Paolo Gentiloni ha confermato quasi per intero l’Esecutivo uscente, salvo alcuni piccoli spostamenti e qualche nome nuovo che non modifica la caratura politica del Ministero. Non lo si può dire un governo costituito per il solo disbrigo degli affari correnti, come sarebbe stato un governo dimissionario guidato ancora da Matteo Renzi, perché è invece nella pienezza dei suoi poteri e, formalmente almeno, senza limite alcuno di mandato. Ma il limite è stato chiaramente indicato dal partito di maggioranza, che per bocca del suo Presidente, Orfini, ha definito «inconcepibile» l’ipotesi di un prosieguo della legislatura fino alla scadenza naturale: Il Pd ha insomma accettato per mero senso di responsabilità, non essendo percorribili le due strade indicate nelle consultazioni con il Presidente Mattarella: o elezioni subito, oppure un governo con dentro tutti. La prima via è obiettivamente impraticabile, in attesa del pronunciamento della Consulta sulla costituzionalità dell’Italicum, previsto per il 24 gennaio; la seconda invece risulta impercorribile per l’indisponibilità delle forze politiche di opposizione. Che preferiscono, com’è ovvio, lasciare il partito democratico con il cerino del governo in mano, riservandosi il compito di rappresentare il malcontento e il disagio sociale. Dunque, per Gentiloni c’era poco altro da fare. E il nuovo premier ha svolto diligentemente la missione affidatagli: rimettere velocemente in piedi il governo dopo che Renzi e le sue riforme ne sono state sbalzate di sella, e accompagnare il Paese verso elezioni anticipate, non appena saranno definite dalle forze politiche le condizioni dell’accordo per poter votare con una nuova legge elettorale. Facendo nel frattempo fronte agli impegni internazionali, senza contraccolpi sulla stabilità e la governabilità del sistema.

È chiaro che in questo modo il Dicastero Gentiloni nasce strutturalmente debole. La sua debolezza è peraltro segnalata dal fatto politico più rilevante della giornata di ieri: il mancato ingresso dei verdiniani nella compagine governativa. Se il Presidente del Consiglio incaricato avesse dovuto creare le condizioni per una più lunga navigazione nelle aule parlamentari – in particolare al Senato, dove la maggioranza ha numeri risicatissimi – avrebbe lavorato per portare la formazione centrista nel governo. Ma Gentiloni ha un’assicurazione sulla sua permanenza a Palazzo Chigi, che è data dall’assenza della legge elettorale, e però ha anche la data di scadenza già scritta sulla sua confezione, per quando appunto la legge sarà fatta. Dunque: di Verdini e della sua Ala non c’è bisogno. Di più. Avere il suo appoggio avrebbe rappresentato un impaccio per Matteo Renzi: gli avrebbe attirato qualche strale in più da parte della minoranza interna e delle opposizioni. Lui ha altro per la testa: rifare daccapo, e in tempi accelerati, tutto il percorso che lo aveva portato al governo, marcando la sua estraneità rispetto ai vecchi inciuci da prima Repubblica e rivendicando la chiarezza del suo percorso. In due parole: ho perso, me ne vado. Però provo a prendermi la rivincita, e se vinco ritorno. L’extra-time del governo Gentiloni, insomma, non l’ha voluto lui e non gli serve. Gli occorre invece vincere il congresso del Pd, e andare finalmente al confronto nelle urne con Grillo e i suoi. Non è la continuità di governo che gli interessa rimarcare, e non sarà quello il terreno su cui si misurerà nel prossimo confronto elettorale.

Così, gli aggiustamenti resi necessari anzitutto dallo spostamento dello stesso Gentiloni dalla Farnesina a Palazz Chigi sono come quei piccoli segnali luminosi che le navi mandano mentre si avvicinano al porto: nient’altro che un avviso che l’attracco non è lontano. Il fedelissimo Lotti ottiene allora un ministero senza portafoglio; Maria Elena Boschi accetta invece un riposizionamento, essendosi sovraesposta nella campagna referendaria. Ma non esce dal governo, e anzi va a occupare la poltrona che era stata fin qui proprio di Lotti. Come dire: solo scosse di assestamento. Entra Valeria Fedeli (ex CGIL) all’Istruzione, dove paga il prezzo più alto il ministro Giannini. Un’uscita che però non stupisce: vuoi per la debolezza politica del ministro, proveniente da una formazione politica, Scelta Civica di Monti, praticamente scomparsa, vuoi perché la riforma della scuola non ha dato, almeno in termini di consenso, i risultati sperati. Poi ci sono le new entry: un paio di sottosegretari che diventano ministri (Minniti e De Vincenti) e Anna Finocchiaro che prende il posto della Boschi. Nomi più ingombranti, o in grado di imprimere un segno diverso al Ministero – un Fassino, un Cuperlo, un Rossi Doria – sono rimasti fuori, ma c’è tuttavia un tentativo di ampliare un poco il perimetro del governo ad altre sensibilità, con una storia un po’ più connotata a sinistra. Rispetto alle emergenze del Paese, la scelta più incisiva è però il nuovo ruolo assegnato a De Vincenti, che come ministro della Coesione territoriale potrà proseguire il lavoro positivo già avviato per tentare di ricucire il rapporto del Mezzogiorno con il resto del Paese.

C’è infine una promozione, o quasi: quella di Angelino Alfano che passa dall’Interno agli Esteri. Procurando più di ogni altro un certo sapore di prima Repubblica (e di vecchia Democrazia Cristiana, quando i maggiorenti della Balena Bianca si scambiavano di posto da un Dicastero all’altro per assicurare l’equilibrio tra le correnti). Ma questo è quasi un episodio di colore, la dimostrazione che la vera partita politica non si gioca in quei ruoli, e non si gioca nel voto di fiducia al governo. È il voto dei cittadini quello che indicherà il percorso di uscita dalla seconda Repubblica.

(Il Mattino, 13 dicembre 2016)