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Rothko, l’arte indispensabile

Se si tratta di un Pollock, o peggio di un Rothko, “perdi trenta centimetri del dipinto dietro un divano e la cosa male non fa”, non è come coprire una parte della tela di un Rubens o di un Veronese, che è un vero delitto.

Ma è proprio così? A riferire questa irriverente opinione del pittore Peter Saul sui grandi maestri dell’espressionismo astratto è l’influente critico d’arte americano Robert Storr. Ma a confutarla basterebbe una qualsiasi delle riflessioni raccolte negli scritti sull’arte di Mark Rothko. Alcune di esse costituiscono il testo di “Red”, di John Logan, in scena in queste settimane al Teatro dell’Elfo di Milano (per la regia di Francesco Frongia e la traduzione di Matteo Colombo). Il pittore (impersonato da Ferdinando Bruni) è in scena con un assistente (Alejandro Bruni Ocaña), e con lui parla della sua arte mentre è alle prese con i Seagram Murals, le tele commissionate all’artista per decorare “l’ennesima sala da pranzo per ricchi sfondati”, il Four Seasons Restaurant di New York. Rothko aveva però le idee chiare, in proposito: “Ho accettato questo incarico – si legge in una sua lettera – come una sfida, armato di intenzioni del tutto malevole. Spero tanto di riuscire a dipingere qualcosa che guasti l’appetito d’ogni figlio di puttana che entrerà in quella sala per mangiare”.

Alla fine la cosa non riesce: Rothko non consegnerà mai quelle tele. Logan immagina che la decisione venga presa dopo una visita al ristorante: in mezzo a uomini elegantissimi e donne dai lunghi guanti, a gente che sembra incarnare perfettamente la parabola descritta da Jean Clair ne L’inverno della cultura: “dal culto alla cultura, dalla cultura al culturale, dal culturale al culto del denaro”. E dal culto del denaro all’investimento: non per caso Clair descrive il funzionamento del mercato dell’arte a colpi di hedge funds e cartolarizzazioni finanziarie. Come? Semplice: ti impacchetto l’artista già affermato insieme con quello da promuovere, te li metto nella stessa galleria che funziona come le agenzie di rating, le quali dovrebbero valutare in maniera indipendente ma in realtà favoriscono la speculazione, e il gioco è fatto, il titolo tossico è pronto per entrare nel grande museo, moltiplicando così il suo valore. I riccastri del Four Season, ai quali Rothko non volle più dare in pasto i suoi quadri, sono a loro volta pronti a comprare: per questioni di status, per investire, o per altro, ma in ogni caso non per guardare a lungo il colore, non per lasciarsi dominare dai grandi rettangoli monocromi di Rothko, leggermente sfrangiati ai bordi, e incastrati l’uno nell’altro in un rapporto teso, dinamico, violento.

Cosa voleva infatti Rothko? D’accordo: guastare l’appetito di quei figli di puttana. Ma poi: cos’altro? Due cose: creare un luogo, e trovare una misura veramente umana. Le due cose sono poi una e la stessa cosa. Rothko ricordava bene le impressioni del suo viaggio in Italia: i rossi e i neri degli affreschi pompeiani – probabilmente gli stessi che si ritrovano nel ciclo dei Seagram Murals – e le finestre cieche dell’atrio della Biblioteca Laurenziana di Firenze, capolavoro di Michelangelo. Per Rothko, procuravano al visitatore proprio l’effetto da lui ricercato: costruire uno spazio chiuso, claustrofobico, dal quale fosse impossibile uscire, nel quale le sue tele, di grande formato e in grado di occupare pareti intere, funzionassero non come aperture,ma al contrario come durissime murate, come muri di colore in grado di sopraffare l’uomo, di strapparlo dalla futilità e dalla volgarità della vita quotidiana, per costringerlo – per l’appunto – ad essere finalmente un uomo.

Non è un paradosso che una tale preoccupazione animi tutta la pittura di Rothko. Se egli non ha mai descritto come astratta la sua pittura, è perché non ha mai inteso far altro che cercare il mezzo per procurare ancora un contenuto all’umanità dell’uomo: se ha abbandonato la figura, è perché non aveva più modo, con essa, di “arrivare”. E per questo la misura era importante per lui quasi quanto la proporzione per un artista rinascimentale: nei suoi scritti, si trovano meno osservazioni sui quadri che non sulle pareti alle quali dovevano essere appesi. I metri quadrati delle tele di Rothko ci vogliono perciò tutti, fino all’ultimo centimetro. E le tele devono essere esposte alla giusta altezza, e visti dalla giusta distanza. Cioè il più possibile vicino al pavimento, e a distanza ravvicinata: come in un’inquadratura di Orson Welles, in modo che il potere del quadro si abbatta sull’uomo e lo riconduca, un’altra volta, a se stesso.

A Cannes oggi David Cronenberg presenta il suo ultimo film, Cosmopolis (dal romanzo di DeLillo). E di nuovo c’è Rothko, fin nei titoli di testa. E pure lì Rothko se la deve vedere con un figlio di puttana, il giovane miliardario Eric Packer, mago della finanza, che vorrebbe acquistare addirittura la Rothko Chapel. Dopo tutto, chiede alla mercante d’arte (una conturbante Juliette Binoche), non è questione di soldi? Eh no, non lo è. Non lo è almeno per Marc Rothko E per le sue tele, che resistono solide e inalterate alla liquidazione finanziaria del mondo. E chiedono all’uomo di fare altrettanto. 

L’Unità, 25 maggio 2012

La filosofia cieca col naso all’insù davanti alle torri

C’è un viaggio che la filosofia ha intrapreso da quando è sorta, e da cui forse non è mai veramente tornata: è il viaggio che Platone compì alla volta di Siracusa, la città governata dal tiranno Dionisio, convinto di poter ispirare con il suo sapere il governo della città. La cosà non andò bene: Platone finì in catene e fu venduto come schiavo, ma al di là del destino personale del filosofo (Platone o Gentile, Giordano Bruno o Martin Heidegger), la vicenda indica con forza l’iscrizione originaria della riflessione filosofica nell’orizzonte della politica. Non a caso, quando Jacques Derrida ha rispolverato quest’antica storia, parlando di una ricorrente «tentazione di Siracusa», ha anche aggiunto che «ciò di cui abbiamo bisogno ora è di un’altra figura di alleanza tra la filosofia e la politica». Non dunque di restare tutti a casa, ma di inventare nuove forme di interesse e di legame verso la cosa pubblica.

Colpisce dunque la collezione di risposte rese qualche tempo fa da una dozzina di filosofi americani (o in America letti e ascoltati) a proposito di eventi come l’11 settembre. Si chiedeva se la filosofia avesse risposto in maniera adeguata alla dimensione e al significato dell’evento, e quasi tutti gli interpellati – da Jaakko Hintikka a Simon Blackburn, da McGinn a MacIntyre – l’hanno presa alla larga, proponendo al più considerazioni di metodo, ma nessuna sostanziosa riflessione di merito. Il più drastico di tutti, Jerry Fodor, ha escluso seccamente che la filosofia abbia qualche particolare responsabilità a questo riguardo. Credendo di essere arguto, Fodor ha replicato domandando a sua volta se anche in campo artistico vi sia stata una risposta adeguata all’11 settembre, pensando in questo modo di far risaltare tutta l’improprietà della domanda. Si sbagliava, ovviamente, dal momento che le cronache artistiche e culturali di questi ultimi anni hanno offerto numerosi tentativi in tal senso. Ma è il quadro  generale che queste risposte offrono a destare più di una perplessità sul ripiegamento della filosofia, che non solo sembra assai riluttante a mettersi nuovamente in viaggio per Siracusa, ma sempre proprio voler veleggiare da un’altra parte.

Naturalmente ha ragione Richard Rorty: tra un certo fatto, anche di portata straordinaria, e la riflessione filosofica non può esserci un rapporto di causa ed effetto, e non ha dunque molto senso domandare quali siano state le conseguenze in filosofia dell’attentato al World Trade Center . Eppure, resta l’impressione che la filosofia abdichi a una sua vocazione essenziale, quando si dichiara incompetente in materia. Anche perché non è ben chiaro quale sarebbe allora la sua specifica e indiscussa competenza.

In realtà, in mezzo a filosofi che si schermiscono, qualcuno che un passo avanti lo fa c’è. Per esempio Martha Nussbaum, che vede nell’11 settembre un’occasione per riflettere su problemi di giustizia a livello globale, o John Searle, il quale assegna alla filosofia un compito di pulizia linguistica e concettuale. Che senso ha l’espressione  «guerra al terrorismo» – si chiede: si può essere in guerra contro un «metodo»? Pensieri del genere investono la filosofia di un senso politico, perché suggeriscono se non altro di esercitare qualche sorveglianza sul modo in cui gli Stati Uniti, che hanno lanciato una simile guerra, interpretano dal 2011 il loro ruolo sullo scenario internazionale. Slavoj Zizek, infine, considera essenziale non tanto dare le risposte, ma mostrare in qual modo la formulazione dei problemi sia spesso essa stessa parte dei problemi. Nel caso dell’11 settembre, Zizek per esempio si chiede se la critica del fondamentalismo religioso debba trasformarsi per noi occidentali nella santificazione delle democrazie liberali: un’opera di continua demistificazione, dunque, nel solco della novecentesca critica dell’ideologia.

Qualcosa, però, manca ancora, e quel che manca è la storia. Nussbaum chiede più empiria e più teoria, Searle più analisi del linguaggio, ma in entrambi latita la considerazione che Hegel avrebbe detto propria dello «storico pensante». È curioso però che per notare questa mancanza si debba tornare di molto indietro: al 1979 almeno, anno in cui Lyotard pubblica il suo celeberrimo rapporto sullo stato del sapere. È in quel libro, dal fortunato titolo La condizione postmoderna, che si dichiara la fine delle grandi narrazioni, cioè della filosofie moderne della storia, ed è chiaro che senza una grande narrazione un evento di grande formato come l’attacco alle torri gemelle risulta letteralmente impensabile.

Questa poi è stata, di fatto, la risposta resa dalla filosofia trent’anni dopo: quel che per Fodor è impensabile perché semplicemente esula dai compiti di una filosofia seriamente scientifica, per certi pensatori postmoderni (soprattutto di scuola francese, come Jean Baudrillard) è ugualmente impensabile, anche se alla filosofia è assegnato il sublime compito di presentarlo proprio così, negativamente, come ciò che supera ogni possibile rappresentazione, e dunque ogni trama ordinata di discorso e d’esperienza.

Nell’uno e nell’altro caso la filosofia resta purtroppo senza parole. Dal momento che però la filosofia è rimasta a bocca aperta, in base alla diagnosi lyotardiana, non solo dopo l’11 settembre ma già prima, dal momento cioè che ha considerata esaurita la spinta propulsiva della modernità ben prima che le colonne di fumo offuscassero la skyline della Grande Mela, non bisognerà invertire i rapporti di causa ed effetto? Baudrillard sostiene che un evento è ciò che resiste a una grande narrazione, ma è forse vero il contrario, che cioè proprio la rinuncia alla grande narrazione storica produce eventi grandi e inspiegabili (e  filosofi con il naso all’insù).

Di nuovo, naturalmente, ha ragione Rorty: come un evento non causa una filosofia, così una filosofia (o l’assenza di una filosofia, di un progetto teorico) non causa alcun evento. Ma proprio per questo, non si fa ancor più necessario riannodare in nuove figure di senso il rapporto tra filosofia e politica? Don DeLillo, forse il romanziere americano che più ha riflettuto sull’11 settembre, ha scritto abbastanza sconsolato che ormai «siamo fuori dalla storia e dentro la ripetizione», dentro l’insensatezza di un presente sempre uguale. Ecco: non sarà venuta l’ora di compiere, con tutte le cautele del caso, per carità, e senza arrivare fino a Siracusa, qualche timida manovra di rientro?