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Pd nel guado. Molti accordi, poca credibilità

 

Oldemburg Smoke

C. Oldenburg, Smoke and Reflections (1975)

Nel Pd napoletano si sono prodotti due fatti nuovi nelle ultime settimane. Non si tratta di novità sconvolgenti, in grado di cambiare il volto a un partito che di cambiare volti qualche necessità ce l’avrebbe, però sono fatti nuovi, di cui occorre avere contezza se si vuol capire come il partito democratico si appresti a celebrare il congresso provinciale nella più importante città del Mezzogiorno.

Il primo fatto è il dialogo neanche troppo sotterraneo che un pezzo del Pd ha avviato con il Sindaco De Magistris, mentre un altro pezzo continua imperterrito a fare opposizione in consiglio comunale. Due partiti in uno. All’inizio, questa specie di “entente cordiale” è stata presentata come una nobile forma di sensibilità istituzionale, la quale avrebbe richiesto una qualche assunzione di responsabilità per consentire agli organismi della città metropolitana di funzionare. Che abbiano preso a funzionare rimane molto, molto opinabile. Ma, intanto, quella sensibilità si è tradotta in ben altra cosa, cioè in un accordo sugli staffisti da chiamare in servizio, il che ha francamente il sapore di una lottizzazione vecchia maniera. E il fatto nuovo finisce allora con l’essere per l’appunto il ritorno delle vecchie maniere, quelle degli accordi sotto banco e delle pratiche di sottogoverno. Ora, può darsi che il partito democratico non possa fare tabula rasa di un rapporto con la società napoletana fondato essenzialmente sulla gestione clientelare del potere. Può darsi che questa difficoltà non sia solo del Pd ma più in generale di tutta la politica nel Mezzogiorno, condannata a ripercorrere vecchie strade per non riuscire velleitaria e inconsistente. Così, quelli che vorrebbero mettere fuori gioco i signori delle tessere, i ras delle truppe cammellate, i mister centomila preferenze (come si diceva una volta, ed è vero che le preferenze diminuiscono, ma i mister: quelli rimangono) devono scontrarsi ogni volta con la realtà di un’organizzazione sempre meno comunità politica e sempre più somma di potentati, e rimandare quindi a data da destinarsi i buoni propositi (se li hanno). Certo è che, pure a voler essere realisti fino al cinismo e accettare la spregiudicatezza del gioco politico, non si può non constatare che questa coazione a ripetere rende del tutto incomprensibile il progetto del Pd: chi sono i democratici, a Napoli? Quale idea di città hanno? A quali parti della società si rivolgono? Come pensano di recuperare fiducia, autorevolezza, affidabilità, di reclutare e promuovere nuove energie, nuove intelligenze, formare una nuova classe dirigente? Domande inevase, al momento, che purtroppo non sono nemmeno in molti a porsi, da quelle parti.

L’altro fatto nuovo ha un nome: Vincenzo De Luca. Non è, anche questo, un nome nuovo, ma è nuovo il modo in cui il governatore sta seguendo la fase precongressuale. Non si espone in prima fila, fa muovere i suoi proconsoli, Fulvio Bonavitacola e Nicola Oddati, ma sembra interessato a giocare fino in fondo la partita, mentre in passato si limitava a guardarla quasi da spettatore, e comunque a non legare troppo le sue sorti a quelle del suo partito. Stavolta è diverso. Ci sarà un candidato deluchiano alla segreteria provinciale del Pd napoletano? È presto per dirlo. Di sicuro è cominciato un lavoro di ricucitura a sinistra, fra i rotti frantumi di quello che resta dell’area ex DS, che potrebbe avere un punto di approdo comune. Quale però sarà questo punto di approdo? Un nome che tiene in equilibrio le varie anime del partito (a volte vive, ma più spesso morte), oppure un nome che riesce a rivolgersi anche al resto della città? Un nome autorevole, forte, capace di decidere e di incidere, oppure un esecutore di decisioni prese altrove? Valgono insomma le domande di prima: un congresso che si divide secondo vecchie linee di appartenenza, e che non offre nient’altro che l’ennesima geometria di alleanze, parlerebbe infatti pochissimo alla città, che dai democrats non vuole sapere se sarà rottura o intesa fra gli ex DC di Casillo e Topo e gli ex DS più o meno federati da De Luca, ma che tipo di opposizione si vuol fare a De Magistris, quali sono gli assets sui quali puntare, come si difendono gli interessi di Napoli e del Mezzogiorno nella programmazione nazionale ed europea. Di più: prima ancora di sapere il ‘cosa’, si vuol sapere il ‘come’, perché il Pd a Napoli continua ad avere un enorme problema di credibilità, con l’aggravante che da anni ormai va riducendosi inesorabilmente il bacino elettorale del partito.

De Luca si è infilato nelle schermaglie congressuali napoletane perché teme che un partito in mano a Casillo e Topo condizionerebbe pesantemente il suo lavoro alla Regione. Se strada facendo trovasse qualche ragione in più per fare questa battaglia, allora, forse, si potrebbe produrre finalmente un terzo fatto nuovo, il più importante di tutti: che ad avere contezza dei fatti di queste ultime settimane vi sarebbe motivo per interessare una parte più ampia dell’opinione pubblica. Diversamente, il congresso provinciale del Pd scivolerebbe subito via dalla cronaca, e dalla storia di questa città.

(Il Mattino, 1° settembre 2017)

Sud & storia. Ma la memoria non è una sola

Penone

G. Penone, Continuerà a crescere tranne in un punto (1968)

«Ricordo che quando andai a Caprera, in Sardegna, nel periodo in cui lavoravo al film, il custode della casa – museo di Garibaldi volle mostrarmi la pallottola che avevano estratto dalla gamba del Generale. E mi disse che quella era la pallottola con cui i Borboni avevano sparato a Garibaldi. I Borboni, mi disse: non l’esercito italiano».

In procinto di girare il suo prossimo film, Mario Martone ha accettato volentieri di tornare a riflettere sul Risorgimento italiano, al quale ha dedicato un film importante, bello e teso, «Noi credevamo», uscito nel 2010. L’occasione è la proposta di una giornata in memoria delle vittime meridionali dell’unificazione nazionale, che, su proposta del Movimento Cinque Stelle, ha avuto il voto di quasi tutto il consiglio regionale pugliese, compreso quello del Presidente Emiliano.

«Una proposta assurda, figlia di una grande confusione, di tutto quello che denunciavo quando ho fatto «Noi credevamo». Noi italiani abbiamo un rapporto falsato col passato. Abbiamo tutta una serie di incrostazioni, di letture sbagliate della storia che chiaramente inquinano anche il nostro presente. E questa proposta ne è la dimostrazione. Ma proprio perciò le ho raccontato del custode di Caprera: perché mostra come per il senso comune Garibaldi non potesse essere stato ferito dall’esercito italiano (come in realtà fu). Questo vuol dire che la realtà storica è semplicemente ignota o incomprensibile per larga parte degli italiani.

Martone non sceglie esempio casuale. Il suo film si chiudeva proprio con i fatti del 1862, quando tra i monti dell’Aspromonte avvenne lo scontro a fuoco tra i volontari garibaldini e l’esercito regolare intenzionato a bloccare il generale che tentava di risalire nuovamente la penisola per conquistare Roma. L’Unità d’Italia era stato il capolavoro politico di Cavour, non certo la vittoria di Garibaldi. E il film racconta fin dal titolo quante contraddizioni, quante disillusioni e anche quali fallimenti furono vissuti in quegli anni all’ombra delle grandi imprese risorgimentali.

«Nel senso comune manca un’idea dei contrasti che vi furono allora. Non è entrata l’idea che le visioni dell’Italia durante il Risorgimento sono state non semplicemente diverse, ma contrapposte – da un lato i monarchici, dall’altro i repubblicani; da un lato i moderati, dall’altro i democratici –. Queste cose naturalmente ci sono nei libri di storia. Ma nel senso comune questa verità non è passata. Gli italiani hanno un loro pantheon di signori con la barba, che mette insieme indistintamente Vittorio Emanuele, Giuseppe Garibaldi, il conte di Cavour, Mazzini. È ovvio che in questa fase di populismi, di demagogia dilagante, diventino un unico avversario da abbattere in blocco. Ma è una falsificazione della realtà storica. Non ci si rende conto così che Mazzini e Cavour non possono trovarsi insieme in uno stesso Pantheon. Furono acerrimi nemici. Avevano idee politicamente opposte: su come costruire l’Unità d’Italia, come affrontare il rapporto col Meridione, come affrontare tutti gli aspetti della vita civile».

Martone parla con grande rispetto del lavoro storiografico. E racconta di quanto lui stesso, insieme a Giancarlo De Cataldo, hanno potuto attingere dai libri di storia nella preparazione del film. Ma il punto che evidentemente gli preme non riguarda la mera accuratezza della ricostruzione storica, quanto piuttosto “l’uso della storia per la vita”, cioè nel presente, nell’Italia di oggi.

«Dovunque son andato, in giro nel Mezzogiorno, per presentare il film (eravamo a ridosso del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia) ho sentito le critiche, la rabbia, il fastidio verso le celebrazioni, a volte l’odio. Era ed è molto doloroso. Ma domando: tutto questo può mai trasformarsi in una nostalgia per i Borboni? Non significa tornare indietro, e dico: indietro rispetto non tanto ai dibattiti sul passato, ma ai dibattiti sul nostro presente? D’altra parte, cosa vuoi dire a un ragazzo del Sud oggi, cosa dire a generazioni completamente sfiduciate, quando gli racconti cosa è successo allora? Io penso che si tratta non di alimentare nostalgie per il regime borbonico; semmai, di fargli conoscere Pisacane, di farlo appassionare alla sua storia. Ma per questo il blocco unico del Pantheon ufficiale non aiuta. Pisacane era un repubblicano, stava per dir così sul lato opposto rispetto a quelli che hanno fatto l’Unità d’Italia con i Savoia. E lo stesso Garibaldi: tutti ricordiamo il suo famoso “Obbedisco!”. Voleva dire: mi piego per ragioni di opportunità politica. Fu la scelta giusta, che altro doveva fare? In quel momento le condizioni storiche portavano a questo, e la liberazione di Napoli significò la consegna del Regno a Vittorio Emanuele II. Ma Garibaldi aveva tutt’altro animo, era anche lui un repubblicano. E del resto la vera impresa eroica di Garibaldi fu la Repubblica romana. La Repubblica romana è la vera luce del risorgimento.  Allora io farei una giornata della memoria: ma per ricordare le vittime della Repubblica romana, le vittime di un sogno che è stato calpestato.

Le armi borboniche, in effetti, erano puntate contro la Repubblica romana. Ma voglio ricordare cosa ha scritto Alessandro Leogrande a proposito del suo film: “Che siano esistiti dei patrioti meridionali, dei democratici meridionali, e che questi siano stati stritolati da una Storia travagliata, è la miglior risposta da dare a chi oggi intende riscrivere il nostro Ottocento. Non solo da Nord (da un certo Nord) sparando su tutto ciò che odora di unità. Ma anche da Sud (da un certo Sud), sostenendo che il Risorgimento è stato fatto unicamente da «criminali» al sevizio dei piemontesi «simili ai nazisti», e che quello delle Due Sicilie era in fondo un regno fiorente e liberale».

«Ma certo. Il sentimento dell’unità d’Italia è stato un sentimento straordinario, costruttivo, moderno. Sputare su di esso è orribile. Che modo di ragionare è quello di dividere geograficamente, invece di confrontarsi politicamente? Altro però è chiedersi, come io ho provato a fare, quali opposte visioni si scontrarono. Altro è lo scontro politico interno al processo risorgimentale, che – io credo – si prolunga ancora adesso. A che serve allora una generica giornata per le vittime meridionali? Dentro l’unificazione hanno convissuto non uno, ma due sentimenti unitari. Mazzini è morto da clandestino. Cavour aveva deciso per tempo in quale piazza doveva andare eseguita la sua condanna capitale. Quella piazza è a Genova, e oggi c’è invece un monumento a Mazzini. Ma il sentimento che animava i repubblicani – i Mazzini, i Garibaldi, i Pisacane – non si misurava nel senso dell’annessione ma nel senso dell’unione».

Lei ha detto che nel senso comune c’è solo una versione semplicistica, e in fondo agiografica, del Risorgimento. A me colpisce quanto poco il cinema (che sa entrare nell’immaginario collettivo di un popolo) si sia occupato di Risorgimento. Non c’è paragone, mi pare, con l’epopea resistenziale. Ci sono i film di Visconti, c’è un film di Rossellini, i Taviani di Allonsanfàn, Florestano Vancini, i film in costume di Luigi Magni e naturalmente anche qualcos’altro. Ma non mi pare ci sia la costruzione di una vera e corale narrazione risorgimentale.

«Che i film non siano stati tanti dimostra quel che dicevo, la difficoltà di rapporto del nostro Paese con la sua storia e con l’unità d’Italia. L’Ottocento risorgimentale avrebbe potuto dar luogo a una vera e propria mitologia: come gli americani sono riusciti a fare con il West, trasformando in un mito (mito universale, che vale anche per noi) la nascita di una nazione. Ma un mito va affrontato prendendolo di petto. Cosa che noi non abbiamo fatto. Abbiamo invece costruito il nostro Pantheon posticcio. E alla costruzione ha ovviamente dato un contributo decisivo il Ventennio fascista. Ma più in generale io continuo a domandarmi se non rimanga vero che la complessità dei fatti risorgimentali rimanga fuori dalla coscienza collettiva. Come se certe cose non si potessero dire. Come se certi conflitti non si potessero esplicitare. Ed è un problema del nostro Paese, per cui o i conflitti si affrontano con le armi in mano oppure li si rimuove e non li si riesce fare terreno di una dialettica vera, reale.

Tra le cose che nel senso comune passano in maniera distorta c’è anche, a me pare, il rapporto con il Mezzogiorno. O forse è vero che questo rapporto è stato profondamente distorto nell’ultimo quarto di secolo. Il film vede le cose dalla prospettive meridionale, inizia e finisce il suo racconto al Sud. Lei trova che anche su questo tema delle divisioni d un Paese troppo lungo vi sia una vulgata che si tratta di mettere in questione?

Temo di dire cose note. Il processo di unificazione è stato un processo di annessione. È un fatto: si è sviluppato in questo modo. Basti pensare a un episodio, la vicenda più amara per Garibaldi, che spiega tutto. Mi riferisco al fatto che la stragrande maggioranza dei garibaldini, i famosi Mille, sono stati di fatto abbandonati; non furono stati arruolato nell’esercito italiano. È stata la cosa che più di ogni altra ha devastato l’animo di Garibaldi, che più gli ha provocato delusione ed amarezza. Se di unità si trattava, chi ha combattuto dallo stesso lato doveva ritrovarsi anche dopo l’Unità d’Italia. Non fu così. Questo dice tutto sul modo in cui è avvenuto il processo unitario. Che è avvenuto a danno del Sud: neanche su questo – mi pare – ci sono più molti dubbi. Ovviamente la mia prospettiva è quella di un uomo del Sud. I protagonisti del mio film sono cilentani. Ma tengo a dire: non è un punto di vista non anti-unitario, ma è il punto di vista di chi racconta la possibilità di un’unità diversa. Che sarebbe potuta essere e che non è stata. E la celebrazione della giornata delle vittime meridionali dell’unificazione sarebbe di offesa per tutti i meridionali che hanno sacrificato la loro vita per la causa unitaria.

Le chiedo ancora qualcosa a partire dal suo film. Dalle cose che vi mancano. Da un lato i grandi eventi, le grandi battaglie, il 1860. La visione laterale fa sì che i momenti cruciali della storia – che so: l’incontro di Teano – non vi compaiano. Qual è il senso di questa scelta? L’altra cosa che manca è la città. Dico la città del Mezzogiorno, Napoli. Per chi conosce il suo rapporto con Napoli, per chi conosce la sua filmografia – a partire al primo film, Morte di un matematico napoletano – è un taglio che colpisce. Nel film si vedono salotti piemontesi (o parigini) e campagne meridionali.

«Ho cercato, insieme a Gianfranco di Cataldo, di portare ad evidenza tutte le zone d’ombra del processo risorgimentale. Perciò non ci sono le pagine famose. Perfino la Repubblica Romana, che pure è centrale per lo svolgimento del film, non c’è. Ho cercato invece di portare sulla scena i conflitti che ai miei occhi di cittadino italiano mi sono sempre parsi nascosti.

D’altro lato, è vero: il Sud certamente è campagna. È una scelta sociale. Il Sud era ben altro che il Paese di Bengodi che i nostalgici borbonici vogliono farci credere. Vigevano leggi di carattere feudale dal punto di vista sociale. Condizioni sociali e di vita faticosissime. Io non discuto quale fosse stato il bilancio e la prosperità del Regno. Mi domando però quali sperequazioni ci fossero al suo interno. Questo era il contenuto sociale dell’idea che del processo di unificazione avevano i repubblicani, ai quali guardo nel film. Quanto questo contenuto poteva stare a cuore dei monarchici? Nulla. Basta invece leggere la Costituzione  della Repubblica Romana, difesa da Garibaldi e Mazzini, per trovarvi cose come il suffragio universale, le terre ai contadini. C’era un’idea di un vero progresso sociale che doveva accompagnare il moto risorgimentale. C’era l’idea di uguaglianza. Con la sconfitta dell’idea unitaria repubblicana è questo il sogno che svanisce. Riportandoli a una dimensione di nostalgia borbonica, noi certo non onoriamo le vite dei meridionali che si sono battute per questo sogno. Ma a questo sogno è dedicato il film».

A proposito del titolo, “Noi credevamo”. Quello che colpisce non è solo la declinazione al passato, che accentua la dimensione del disincanto e della disillusione (lè la chiusa del film: “Eravamo tanti. Eravamo insieme. Noi credevamo”). Ma anche la scelta di un soggetto plurale, collettivo, che sembra essere il soggetto politico mancato, disatteso, di tutta la vicenda nazionale.

«Ma quel noi è vivo ancora adesso. Come sa, il titolo viene dal libro di Anna Banti, così come una robusta parte del film (poi il film racconta molte altre cose, per cui non è una messinscena del romanzo). Ma Noi credevamo implica anche un presente.

Siamo noi, oggi, quelli che credevano ieri?

Ma certo. Il punto in questione siamo noi oggi. Che cosa vogliamo fare del nostro passato e del nostro futuro. riusciamo a recuperare un rapporto sincero, onesto, pieno col passato? Farlo però significa anche recuperare una prospettiva politica: che ha perso, che è stata sconfitta.

Un’ultima domanda vorrei farle. E riguarda il giudizio sulla politica che viene fuori dal film. Non dico sui singoli protagonisti, ma sulla politica nel suo insieme. Uno degli elementi su cui si gioca il film è la contrapposizione fra gli ideali che vivono nella clandestinità, nella cospirazione, nella lotta armata, e il piano lontano, distante, cinico, dei giochi politico-diplomatico-militari. L’impressione è che l’agire politico, schiacciato sulla dimensione della “politique d’abord”, ne esca con le ossa rotte.

«Lei pensa a Francesco Crispi»

Ecco, non voglio dire che la sua figura è più complessa di come compare nel film, non sono uno storico, ma mi interessa una riflessione su questa contrapposizione. Anche dal punto di vista del ragazzo che oggi vede il film .

«Il ragazzo che oggi vede il film non è scoraggiato da ciò che vede, ma da ciò che ha intorno a sé. Il problema non è all’interno del film ma all’interno della politica italiana ed europea. Ecco: partiao dall’Europa. È molto evidente nel difficilissimo rapporto che c’è tra come è governata l’Europa negli alti livelli finanziari, politici, e la sostanza di vita dei cittadini europei. Si ripropone a livello europeo qualcosa che ha attraversato la nostra storia italiana: una sorta di costrizione dei vasi di comunicazione fra i bisogni delle persone e l’elaborazione politica che soffoca il sogno europeo. I vasi continuano a essere molto stretti.

Ciò che portava alla disillusione allora porta alla disillusione oggi. La sperequazione è la stessa. Anche oggi possiamo chiederci: è l’Europa un continente povero? Non che non lo è. Il problema è la distribuzione della ricchezza. Il problema è quello che accade fra la Germania e la Grecia. Come vede, il discorso si riapre. Ed è qui che si infilano le semplificazioni populiste. Ma per rifiutarle occorre vedere il problema in tutta la sua verità e complessità, mettendo in luce i conflitti che attraversano la realtà politica europea, non solo italiana. Glielo dice uno che ama l’idea di un Europa unita. A maggior ragione bisogna allora battersi contro l’idea di un’Europa unita per annessione.

A maggior ragione bisogna provare a declinare un’idea di eguaglianza a livello europeo, e far passare un’idea dell’unificazione non come un’annessione tedesca, ma come qualcosa che spinge da tutti i lati».

Qualcosa che spinge da tutti i lati. In tempi di disaffezione dalla politica, di disincanto e di scarsa partecipazione alla cosa pubblica, questa immagine della vita civile e politica come una cosa mossa da tutti i lati mi sembra davvero uno dei migliori antidoti alle volgarizzazioni populiste e alle nostalgie neo-borboniche. E chissà, magari si ritroverà anche nel prossimo film che Martone si appresta a girare.

(Il Mattino, 11 agosto 2017)

Le alleanze e il ritorno dei riti DC

guttuso

Per la gioia e la fortuna dei retroscenisti la direzione del partito democratico questa volta non è andata in diretta streaming. Ma c’è poco da immaginare gustosi retroscena, o da inventarsi virgolettati non confermati e non smentiti, come usa fare: la sostanza dello scontro politico è chiarissima. Ci sono da una parte le voci che chiedono a Renzi di aprire a una coalizione elettorale, perché se va da solo il Pd perde, e dall’altra c’è il Segretario, che respinge la richiesta. Sul primo fronte si è schierato, oltre alla minoranza del ministro Orlando, Dario Franceschini; con Renzi, invece, stanno Matteo Orfini e Maurizio Martina, il presidente e il vicesegretario del partito.

Detta così, sembra che la Direzione di ieri si sia trovata dinanzi a una scelta come quelle che gravavano sui congressi e i consigli nazionali della Democrazia cristiana, in piena prima Repubblica, quando si trattava di varare nuove formule di governo, o di cercare equilibri politici più avanzati. In realtà, c’era ben altra sostanza nella decisione della DC, alla fine degli anni Cinquanta, di aprire alla sinistra socialista di Pietro Nenni, rispetto a quella che sarebbe richiesta al PD per cercare un’intesa elettorale nientedimeno che con… i fuoriusciti dal Pd  (raccolti provvisoriamente sotto le insegne più concilianti di Giuliano Pisapia).

Ma soprattutto c’è una differenza di fondo che passa inosservata quando si costruiscono simili narrazioni, fondate su improbabili paragoni storici: non solo Bersani e compagnia non sono minimamente paragonabili al partito socialista, ma anche il Partito Democratico è tutt’altra roba che non la Democrazia Cristiana. E non solo o non tanto perché l’uno sia più a sinistra dell’altra, ma perché sono completamente diversi i contesti politici e istituzionali. La DC apriva alla sua sinistra dentro un sistema bloccato, che non prevedeva formule di governo che non fossero imperniate sulla sua centralità. Non c’erano alternative, insomma. Tutt’altra è la situazione attuale: dalle urne può uscire di tutto, tanto una prevalenza del centrosinistra quanto una prevalenza del centrodestra, tanto il PD primo partito quanto i Cinquestelle primo partito. Può accadere che il blocco populista prevalga, quanto che prevalgano le forze riformiste, e i moderati di centrodestra possono inclinare da una parte o dall’altra.

A uno scenario così incerto, si aggiunge l’indisponibilità di Berlusconi e Grillo a scrivere una legge elettorale che premi le coalizioni: per l’uno non c’è motivo di consegnare a Salvini la leadership politica e ideologica del centrodestra, e per l’altro non c’è facilità di costruire alleanze dopo cinque anni spesi a rivendicare la loro estraneità assoluta da qualunque logica di coalizione. Non si capisce dunque perché Renzi e il Pd dovrebbero invece legarsi le mani, mentre Berlusconi e Grillo tengono libere le loro.

E non si capisce neppure dove si vada a parare con la preoccupazione che Franceschini ha con tanta insistenza manifestato: da soli si perde. Non è che si perde da soli, è che in un sistema proporzionale tutti vanno da soli dinanzi agli elettori, con la propria proposta politica e programmatica. Sarebbe dunque il caso che il Pd si attrezzasse a costruirla, e ieri, in effetti, Renzi ha aperto a una conferenza sul programma, rivendicando anzi di averla proposta ancor prima che Orlando ne facesse il motivo della sua candidatura alla segreteria. Ma anche in questo caso: non si capisce come un partito che ha governato per l’intera legislatura possa mettere da parte i risultati della sua esperienza di governo, e non invece chiedere su di essi il giudizio degli elettori. Così, non si capisce neppure come il Pd possa, inseguendo il mito ulivista della coalizione, sventolare credibilmente il vessillo della «discontinuità radicale» col passato invocata a Santi Apostoli da Pisapia e Bersani. Senza dire che pure questo paragone storico non fa al caso del Pd: se mai c’è stata infatti una coalizione smandruppata, questa è stata l’Unione guidata nel 2006 dal secondo Prodi, con cui si è malinconicamente chiusa, fra non pochi risentimenti e qualche rancore, la stagione dell’Ulivo.

Quindi? Quindi torniamo al confronto in Direzione, e al vero motivo di questo agitarsi intorno alle alleanze. Che è uno solo, ed è tutto strumentale, e poco o nulla a che vedere con la vagheggiata coalizione. La quale coalizione, poi, se anche si facesse, sarebbe, con tutta probabilità, ancora al di sotto del 50,1% necessario a conquistare la maggioranza. E dunque di cosa si tratta, se non di mettere il bastone fra le ruote a Renzi, di logorarne la leadership, di denunciarne l’insufficienza, di farsi anche sparare addosso da quei potenziali alleati di sinistra che un accordo con Renzi non lo troverebbero mai, e così di costruire con un po’ di quel che è dentro e un po’ di quel che è fuori del Pd il dopo-Renzi? Ma è dal 5 dicembre, dal giorno dopo la bocciatura del referendum istituzionale che va avanti questo tentativo: perseguito vuoi uscendo dal partito (Bersani), vuoi sfidando Renzi apertamente al Congresso (Orlando), vuoi infine dopo le amministrative, con i pesanti distinguo di Franceschini.

Che però ieri, dopo aver ribadito le sue critiche, ed essersi attirato una durissima replica da parte di Renzi nelle conclusioni, ha disciplinatamente votato sì alla relazione del Segretario. E questa onesta dissimulazione sì, merita qualche storico paragone con i vecchi consigli nazionali della Democrazia Cristiana.

(Il Mattino, 7 luglio 2017)

De Luca e la trappola del fuori onda

cc

Ennesimo fuori onda, ennesime polemiche. Il Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, chiede a gran voce al neoquestore di smentire le parole che Vincenzo De Luca ha pronunciato in via confidenziale, riferendo nel corso di un incontro al deputato del Pd, Leonardo Impegno, un giudizio che il neo-questore di Napoli, De Iesu, avrebbe pronunciato in via privata: la città è peggiorata, De Magistris ha governato come un pazzo.

Ora, seguitemi: se Tizio dice che Caio pensa peste e corna di Sempronio, non è che Sempronio sia tenuto a smentire quel che Caio va dicendo in giro. Anche perché la smentita di Sempronio potrebbe suonare non semplicemente come una smentita, ma come un (involontario) apprezzamento. «Io non ho mai detto peste e corna di Sempronio» significa, per chiunque lo ascolti, che di Sempronio penso bene: e perché mai Caio dovrebbe dare a intendere una cosa del genere?

Il questore ci ha pensato un po’, poi ha smentito comunque, penso per amor di concordia e senso delle istituzioni: ha detto che nel corso dell’incontro con De Luca non ha «evidenziato considerazioni negative» sulla gestione comunale. Domanda: e se invece avesse detto di non avere evidenziato «considerazioni negative, ma neppure positive»? Sarebbe suonata come una specie di indiretta conferma, al di là della lettera ufficiale?

Forse. E, senza forse, sarebbe molto meglio se De Luca non incorresse in nuove gaffe.

Ma si è trattata veramente di una gaffe, o non piuttosto dovremmo parlare di una sorte di intercettazione non autorizzata? Certo, De Luca dovrebbe avere imparato come funzionano le cose, nella democrazia del fuori onda. Dove può succedere che registrino le tue parole anche dopo che ti hanno assicurato che stai parlando «off record»; o che ti piazzino un microfono nei tuoi paraggi senza che tu te ne accorga; o ancora che ti telefonino sotto falso nome e camuffando la voce ti strappino dichiarazioni con l’inganno. A De Luca è già capitato di incorrere in simili infortuni, e poiché non fa quasi mai uso di lievi ed alate parole le sue frasi fanno ancora più rumore.

Ma resta il fatto che non di annunci fatti alla stampa si è trattato, ma di parole che il governatore stava usando in via del tutto riservata, con un compagno di partito, per chiedere un’opposizione senza sconti all’Amministrazione De Magistris. Certo, il governatore parlava in un luogo pubblico, ma cosa vuol dire? Se ad esempio io tengo un comizio e parlo da un megafono, e ad un certo punto scosto il megafono per rivolgermi a bassa voce a una persona che è sul palco con me – poniamo: per farle un complimento galante – è giusto dire che le ho fatto pubblicamente un complimento? Nessuno lo direbbe. Eppure, se quelle parole fossero carpite da qualche potente microfono piazzato lì sul palco, diverrebbero immediatamente di dominio pubblico, e la loro diffusione sarebbe giustificata proprio dal fatto che sono state rese in un luogo pubblico.

A De Luca si può dunque dire di metterci un di più di attenzione, quando si trova in circostanze come quella di ieri: prima di un incontro pubblico, con telecamere, giornalisti e microfoni in giro. Ma un po’ più di attenzione dovremmo mettercela tutti, perché non è un bel vivere quello in cui saltano le distanze e le separazioni fra la sfera pubblica e la sfera privata, fra pubblicità e riservatezza, fra dichiarazioni e confidenze. Il nostro tempo è segnato da una continua erosione della privacy, da una incessante captazione di dati personali, da una costante pressione a rovesciare in pubblico tutto quello che un tempo si svolgeva in privato: tra mura domestiche, in circoli ristretti, fra pochi amici. Non c’è quasi più nulla che garantisca non dico segretezza, ma almeno discrezione. Gli algoritmi che spazzano la rete sono in grado di tracciare il nostro profilo individuale forse meglio di quanto noi stessi sapremmo fare, sul nostro conto; sui social media finisce tutto, dalla culla alla tomba (ecco che fine ha fatto il welfare State!); «amico> è ormai parola che non indica più nulla di intimo, ma solo il raggio delle possibili condivisioni online. E naturalmente la gogna mediatica funziona a pieno regime. In queste condizioni, provare a tirare una linea fra quello che appartiene al discorso pubblico e quello che invece può, o deve, rimanerne fuori è un’impresa disperata. Ma c’è un’altra conseguenza a cui badare. Perché il crollo delle pareti fra l’ambito pubblico e l’ambito privato comporta anche una distorsione dell’agenda pubblica. Cambia la gerarchia degli argomenti di cui si discute, e si mescolano le notizie che andavano prima su pagine e media ben distinti. De Luca stava dicendo, e avrebbe poi ripetuto a voce alta che la linea del Pd a Napoli non può avere incertezze e condiscendenze verso le uscite alla Masaniello, i neoborbonismi e le pulcinellate. Tutti capiscono cosa pensi e a chi si riferisca: non c’era bisogno di alcun fuori onda per cogliere la sostanza del giudizio politico. Ma l’ennesima indiscrezione involontaria ha messo tutto questo in secondo piano, e sulla ribalta c’è finita, ancora una volta, la coda lunga delle polemiche, delle smentite, delle proteste.

(Il Mattino, 31 marzo 2017)

Se il partito dà ragione a De Magistris

disco solare

Il Pd napoletano sospende il tesseramento: non ci sono le condizioni. Poco prima che fosse diramata la notizia, il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, parlando del partito democratico aveva detto: «non possiamo interrompere una decadenza. Il Pd napoletano è in fase di liquidazione». Dispiace che il Pd abbia fatto di tutto per dare ragione al Sindaco. Vengono al pettine nodi che non sono mai stati risolti, che si trascinano da tempo, che hanno portato il Pd, alle ultime elezioni, a sprofondare all’11%. De Magistris si è preso il merito di avere offerto un’alternativa ai democratici, e progetta di trasferirla sul piano nazionale connettendo esperienze e movimenti, reti civiche e amministratori coraggiosi. In realtà, sul piano nazionale non c’è nulla di neppure lontanamente paragonabile all’esperienza napoletana, che resta segnata dall’estemporaneità, ma che prospera per via del drammatico collasso del partito democratico napoletano. Non più tardi di qualche giorno fa, Valeria Valente si è dimessa da capogruppo del Pd, dopo che i consiglieri del suo partito le hanno chiesto di farsi da parte per via dello scandalo dei candidati a sua insaputa presenti nelle liste. Alla luce della decisione presa ieri dalla commissione per il congresso (a quanto pare presa a maggioranza: non è stato possibile trovare un accordo neppure su un atto così rilevante), quel che è capitato alla Valente somiglia – al di là della sua gravità e di eventuali responsabilità che dovranno essere accertate – alla ricerca di un capro espiatorio, o perlomeno a un modo di dimostrare quel che evidentemente non poteva essere dimostrato: che la partita delle irregolarità più o meno gravi, essendo circoscritta a quegli episodi, si chiudeva lì, una volta per tutte.

Non si è chiusa per niente, invece. Certo, è inutile far finta di non sapere che, nei partiti, il tesseramento è un momento di scontro aspro, da cui dipendono gli equilibri dei gruppi dirigenti, e in cui quindi non mancano colpi bassi di ogni tipo. Pensare che a ogni tessera corrisponda un militante che, in coscienza, ha deciso, per ragioni esclusivamente ideali, di partecipare alla vita politica del partito, significa prendersi in giro. Oggi non è così, se mai lo è stato. Tuttavia, con l’assottigliarsi delle ragioni ideologiche e delle scelte di campo, dopo la fine della prima Repubblica, è divenuto sempre più difficile tenere la pratica del tesseramento al riparo da qualunque scorribanda. Questa però è una disamina che vale a livello globale, nemmeno soltanto nazionale. In Italia, il partito democratico ha provato a rinverdire le adesioni al partito con lo strumento delle primarie, che, per via della forte personalizzazione del confronto, mobilitano – almeno in linea di principio – anche una parte di elettorato interessata a aderire indipendentemente dalle cordate locali costruite dal personale politico e amministrativo che prende parte, nei rami più bassi, alla competizione.

Un conto però sono queste valutazioni di carattere complessivo – che dovrebbero peraltro spingere a una regolamentazione di partiti e lobby cui si parla da tempo, ma che non vede mai la luce – ben altro è il caso napoletano, l’odissea di un partito che ha smarrito completamente la bussola, e che sbatte continuamente contro gli scogli degli scandali. Che è già passato attraverso l’esperienza del commissariamento, che ha già dovuto cancellare turni di elezioni dei propri candidati, che ha ridotto al lumicino l’iniziativa politica in città, che dopo le dimissioni della Valente deve ricominciare daccapo l’opposizione a De Magistris, che rinvia da tempo immemorabile operazioni di autentico rinnovamento,  o che, quando le fa, le strozza sul nascere, e che insomma fa davvero troppo poco per contraddire il giudizio sprezzante di De Magistris: un partito in decadenza.

(Il Mattino, 9 marzo 2017)

 

Quel che resta dell’ultimo partito

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La situazione non è commendevole. E siccome non è la prima volta che il partito democratico a Napoli ne combina di grosse, si capisce che da Roma abbiano dovuto correre ai ripari e mandare un dirigente nazionale, Emanuele Fiano, per verificare la regolarità del tesseramento. Ieri è infatti esploso un nuovo caso: si va nella sede del partito coi documenti e ci si iscrive, poi c’è qualcuno che passa e paga per te. Una specie di tessera sospesa, come il caffè.

È dalle primarie del 2011 che al Pd napoletano non ne dice buona una: tra anomali e contestazioni, numeri gonfiati e candidati a loro insaputa, per il partito democratico non c’è pace. Così anche questa volta c’è il forte sospetto di infiltrazioni e irregolarità nel percorso congressuale appena avviato. Le primarie che si svolgeranno il 30 aprile sono tuttavia primarie aperte, e potranno parteciparvi sia gli iscritti che i non iscritti, quindi i casi segnalati non investono la competizione principale. Ma pesano sugli equilibri locali, che evidentemente contano ancora qualcosa, se i numeri del tesseramento, che a Napoli erano precipitati a poche migliaia, si sono improvvisamente gonfiati, e bisogna ora aggiungere uno zero per dar conto delle nuove file di aderenti al partito.

Ma togliamo pure lo zero – e sarebbe provvedimento troppo drastico, perché accade sempre che nelle annate congressuali cresca considerevolmente il numero degli iscritti – togliamolo ed avremo comunque una cifra che gli altri partiti non hanno, non raggiungono, nemmeno sfiorano. I partiti politici italiani non hanno uno statuto, non riuniscono organi collegiali, non tengono congressi. In venti e più anni, Berlusconi non ha indetto una sola assise congressuale: non ce n’era bisogno. In queste ore si leggono indiscrezioni sul rinnovamento delle file dei parlamentari che sono legate quasi soltanto alla volontà del Cavaliere. Poi, certo, Berlusconi si confronta e ascolta qualcuno dei suoi, e a volte è costretto pure a rimangiarsi le intenzioni più bellicose, ma non c’è nulla nel processo decisionale che sia in qualche modo riconducibile a regole di partito, o a una legittimazione anche solo formalmente democratica. Quanto al Movimento Cinquestelle, lì la situazione è ancora più misteriosa, perché ci sono i meetup e le votazioni online, ma nessuno capisce bene come stiano in relazione con gli ukase di Grillo, nessuno può guardare dentro la misteriosa piattaforma Rousseau che regola il traffico in Rete, nessuno, infine, sa quando può essere raggiunto da una implacabile e semi-teologica mail dello «Staff»: si sa solo che è come il Natale, quando arriva arriva.

Ora, queste cose non le ricordo per suggerire comprensione, e magari per mettere rapidamente una pietra sopra i piccoli e grandi imbrogli che inquinano la competizione nel partito democratico. C’è da augurarsi anzi che Fiano, o chi per lui, voglia davvero scoperchiare tutto quello che c’è da scoperchiare: finché non lo si farà, il Pd non ripartirà mai veramente. Ma è un fatto che questa volta qualcosa, almeno, ha funzionato: in alcuni circoli si è intervenuti in via preventiva, in altri si è chiuso il tesseramento in anticipo, e soprattutto nei casi segnalati sono stati esponenti del partito ad attivare verifiche e controlli. È chiaro che non basta, ma quel che ci vuole in più non è certo di abolire i partiti, sbaraccare tesseramento e congressi, e impoverire ulteriormente la dialettica politica. Quel che ci vuole è una legge sui partiti che dia concretezza giuridica all’indicazione contenuta nell’articolo 49 della Costituzione, secondo la quale i partiti devono concorrere «con metodo democratico» a determinare la politica nazionale.

Di metodo democratico ce n’è invece sempre meno traccia nella vita interna di quasi tutte le formazioni politiche italiane. Il Pd, pur con tutte le storture che la cronaca non manca di raccontare, qualcosa del genere, dopo tutto, ce l’ha (e, a dire il vero, ce l’ha anche la Lega): tiene le primarie, che rimangono un campo aperto e contendibile a più di un candidato, organizza il tesseramento, elegge gli organismi direttivi, ha un’articolazione interna fatta di correnti, di minoranze e di maggioranze. Poi capita che alcuni escano, che altri lamentino lo stile di conduzione del partito, che altri critichino lo statuto e altri ancora trovino insoddisfacente la semplice «conta», ma tutto sommato capita quel che capita, più o meno, in un partito politico. Comprese certe schifezze.

Se però quegli stessi che dal Pd sono usciti non chiudono del tutto la porta ma anzi rinviano ad un prossimo futuro l’occasione di ritornare insieme, vuol dire che lo spazio che il partito democratico occupa rimane decisivo per gli equilibri del Paese, centrale rispetto agli sviluppi futuri della politica italiana. E questa, beninteso, è un’aggravante a carico di quei soggetti che inquinano, per stupidità o prepotenza, il normale andamento della competizione. A Napoli come ovunque abbiano a presentarsi.

(Il Mattino, 2 marzo 2017)

Sinistra senza voce di fronte alle urla della nuova destra

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Come quello che dice: capotavola è dove mi siedo io, così nel Pd (ma anche fuori del Pd) non sono pochi quelli che dicono che sinistra è là dove si trovano loro. Così l’ha messa Renzi ieri, e almeno su questo bisogna dargli ragione: non c’è persona di sinistra, da Marx in giù, che non abbia pensato almeno una volta che di sinistra sono solo le cose che dice lui.

Ma la giornata di ieri, e i fatti di questi settimane, raccontano tutt’altra cosa. Mentre il partito democratico avviava il suo percorso congressuale, con le dimissioni di Renzi, Nicola Fratoianni veniva eletto segretario della neonata formazione di Sinistra italiana. Di sinistre ce ne sarebbero, anzi ce ne sono dunque due, ufficialmente parlando. Però non basta. Perché in mezzo a quelle due ce ne sono già altre tre o quattro, se pure dai contorni ancora ufficiosi: c’è “Possibile”, il movimento di Pippo Civati; c’è il campo progressista di Giuliano Pisapia, in via di costituzione; c’è il drappello di Sinistra e Libertà, guidato da Arturo Scotto, che ha lasciato Sinistra italiana ancor prima che tenesse il congresso; e c’è la neonata associazione “Consenso” di D’Alema, che vorrebbe tanto fagocitare tutte le altre. E infine c’è la minoranza che uscirà dal Pd, in tutto o in parte, ma che non si sa ancora se farà un’altra cosa, diversa da tutte le altre, oppure si unirà a questa o quell’altra formazione già esistente.

In questa situazione, sarebbe facile fare dell’ironia, se la rappresentazione che la sinistra offre in questa fase non esprimesse un dramma vero, una difficoltà reale nell’affrontare uno dei frangenti più difficili della sua storia. Come un film già visto: la destra ritorna infatti prepotente, con parole d’ordine e identità ben riconoscibili, da Trump alla Le Pen, e la sinistra per tutta risposta si divide. Manca solo l’accusa di socialfascismo, perché il remake del Novecento sia completo.

Ieri Veltroni ha detto che il Pd è nato da una fusione, non da una scissione. È stata cioè una singolare eccezione. Perché nella sua storia la sinistra ha offerto molti più esempi di divisione che non di unione. Certo, li ha offerti su un terreno ogni volta diverso, perché le vicende storiche non si ripetono mai uguali, ma con almeno un motivo comune, rintracciabile nella presunzione di possedere una qualche ragione autentica, che la compromissione col potere, oppure con il governo, o con la modernità, o ancora, in termini politici, con il centro e i moderati ogni volta, rischierebbe di disperdere e consumare.

Non c’è altro modo di spiegare come i tre alfieri della minoranza, Rossi Speranza ed Emiliano, abbiano potuto ritrovarsi sotto la bandiera della rivoluzione socialista. Nessuno di loro può presentarsi infatti come un rivoluzionario di professione. Nessuno di loro ha trascorsi massimalisti. Nessuno di loro appartiene alla sinistra antagonista e anticapitalista. Però tutti e tre imputano al partito democratico di Matteo Renzi di aver smarrito le ragioni vere della sinistra, quelle che ne preservano l’autentica sostanza.

Intendiamoci: non mancano sicuramente motivi di più bassa lega per spiegare le manovre di questi giorni: i posti, le liste, la leadership. Ma resta il fatto che la coperta sotto la quale questo gioco si svolge è offerta da quel significante vuoto – si dice così – che viene riempito dall’interpretazione di volta in volta offerta di ciò che è veramente di sinistra.

Una parola-baule, insomma, dentro la quale ci si infilano cose molto diverse. E che però Renzi ieri non ha voluto lasciare alla minoranza, contestandone la pretesa di mantenerne il copyright. Di più: accusando i suoi avversari di conservare della sinistra solo la fraseologia, la prosopopea, i simboli del passato e le bandiere, senza però preoccuparsi minimamente di dargli forma compiutamente sul terreno concreto dell’azione di riforma.

Con i termini che ha impiegato – inclusione, attenzione alle periferie, diritti, terzo settore, ambiente – Renzi ha provato a sgranare il rosario di ciò che il Pd dovrà essere, o almeno di ciò che dovrà discutere, al congresso. Intanto però, ai nastri di partenza si può trovare, nel campionario delle idee della sinistra di oggi, tanto l’inno alla modernità, quanto la critica radicale della modernità; tanto l’europeismo più acceso quanto l’antieuropeismo più preoccupato; tanto il cambiamento della Costituzione quanto la sua tetragona difesa.

Secondo Bobbio, è uguaglianza il discrimine lungo il quale si costituisce l’identità della sinistra. Ma strumenti, politiche, istituzioni che debbono servire per contrastare le disuguaglianze non discendono univocamente da quella semplice idea. Basta vedere.

In primo luogo, le istituzioni. Renzi si è speso su una riforma della Costituzione che doveva dare al Paese istituzioni più semplici e meglio funzionanti. Per la minoranza che il 4 dicembre ha votato no, quelle riforme agevolavano una pericolosa deriva autoritaria: riducevano gli spazi di democrazia, compromettevano garanzie fondamentali. Erano parte di una cultura politica che privilegia il momento della decisione rispetto a quello della partecipazione. In altre parole: erano di destra. Stessa cosa l’Italicum: per Renzi, la nuova legge elettorale definiva finalmente i lineamenti di una democrazia decidente; per le minoranze, in combinato disposto con la riforma costituzionale, metteva in pericolo gli equilibri democratici del Paese.

In secondo luogo, le politiche. Il governo Renzi è intervenuto con leggi di riforma in diversi settori: nella pubblica amministrazione, nella scuola, nella giustizia, nel lavoro. Gli accenti che ha usato la minoranza in queste settimane di passione non hanno mai previsto una sola parola di difesa dell’attività di governo. Sbagliato il Jobs act, che nelle intenzioni del governo modernizza il mercato del lavoro, mentre per l’altra sinistra porta la macchia incancellabile di avere il gradimento di Confindustria e l’ostilità dei sindacati. Sbagliata la posizione sul referendum anti-trivelle: per la sinistra di governo bisognava contrastare ostilità preconcette, di carattere puramente ideologico, mentre per l’altra sinistra bisognava piuttosto contrastare i petrolieri, e magari il potere corruttivo dei loro denari. Sbagliata la riforma della scuola, che per il governo andava in direzione di una maggiore autonomia scolastica, e per gli oppositori invece mortificava irreparabilmente la figura docente. E ancora: sulla giustizia, la sinistra contiene fermenti garantisti e livori giustizialisti; sugli 80 euro, per gli uni sono stati la più grande operazione di redistribuzione fatta in questi anni; per altri sono stati poco più di una mancetta – come i bonus ai 18enni o ai docenti della scuola –, soldi che sarebbero stati meglio spesi in investimenti infrastrutturali.

Infine gli strumenti, cioè il partito. Renzi ha sicuramente assecondato una certa voga anti-politica. Di tagliare poltrone non ha mai rinunciato a parlare. Dell’abolizione del finanziamento pubblico ha fatto quasi un punto d’onore. Quanto però a valorizzare il partito come comunità, o come strumento di elaborazione intellettuale, non ha mai avuto molta voglia. Gli iscritti sono così calati: fisiologicamente per gli uni, patologicamente per gli altri. Il che si è tradotto in convinzioni di segno opposto anche in questa materia: sulla natura della leadership, sull’uso dei nuovi strumenti di comunicazione, sull’importanza del radicamento territoriale, sulle funzioni da assegnare alla dirigenza del partito.

Insomma, il partito democratico – e più in generale il frastagliato arcipelago della sinistra – ha dovuto in questi anni discutere praticamente su tutto, provando a fornire declinazioni diverse su ciascuno di quei temi. Ma nella stretta finale le distinzioni vengono meno, le differenziazioni sfumano, e rimane il significante da riempire sempre allo stesso modo: da un lato ci sono quelli che Renzi è un intruso (e un sopruso), dall’altro quelli che le anticaglie meglio mollarle una volta per tutte, la sinistra non può più essere quella.

E allora cos’è? È Zeman, ha detto una volta D’Alema e anche a lui, almeno su questo, bisogna dargli ragione: gioca bene ma prende tanti gol. A dire il vero, fa pure qualche autogol.

(Il Mattino, 20 febbraio 2017)

Un sindaco a Santa Lucia. La solitudine di De Luca

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Era chiaro, fin dalla tarda sera del 4 dicembre, che lo scenario politico del Paese si sarebbe parecchio complicato, e non solo a livello nazionale, per effetto della vittoria del No al referendum costituzionale. Renzi è (temporaneamente) uscito di scena, ma non solo lui: tutti gli uomini che si sono più o meno identificati con la sua battaglia per la riforma della costituzione hanno riportato ammaccature più o meno grandi. Così anche Vincenzo De Luca. Il governatore della Campania, che si è molto speso in quella sfida, si è anzi trovato al centro di una bufera mediatica (la frittura di pesce e l’elogio del voto clientelare) che, abbia avuto o no conseguenze sull’esito del referendum, ne ha sicuramente danneggiato l’immagine, aumentando la distanza con i vertici nazionali del partito (e una certa voga alla caricatura). La coda giudiziaria di quella vicenda è francamente risibile, e sembra rientrare soltanto nel bruttissimo vezzo italico di criminalizzazione della politica (che dura da quel dì). Ma anche quella è la spia di un momento non felice.

De Luca pensa ora di superare i nodi politici aggrovigliatisi dopo il 4 dicembre proponendosi non come un presidente della Regione, eletto direttamente dai cittadini ma legato a un rapporto di fiducia con il consiglio regionale e le forze politiche che nel consiglio lo sostengono, ma come sindaco della Campania, uomo solo al comando In grado di rivendicare per sé la massima autonomia decisionale possibile. È la risposta giusta? Si vedrà. Di sicuro è la risposta che ha sempre fatto parte del suo stile di governo, legato a un esercizio vigorosissimo della carica di primo cittadino (a Salerno, per circa un ventennio), un esercizio che ha ristretto ai minimi termini la dialettica politica.

Il banco di prova è adesso la sanità, sicuramente la parte più corposa del bilancio di una Regione (e del lavoro di un governatore). De Luca ha chiesto di poter entrare nel ruolo di commissario, per rimediare allo sfacelo in cui, dopo quasi un decennio di commissari di nomina governativa, la sanità campana è precipitata, finendo di gran lunga ultima nella graduatoria che ogni anno stila il Ministero della Salute. Ieri questo giornale ha presentato i dati da brivido sui livelli di assistenza sanitaria in Campania: che vi sia assoluta necessità di cambiare modalità di gestione della sanità regionale è, dunque, fuor di dubbio. Ma la nomina, che il giorno prima del referendum sembrava assolutamente scontata, ora non lo è più: esitazioni vi sono sia a Roma – dove il ministro Lorenzin sembra molto riluttante a firmare il relativo decreto –, che a Napoli, in seno alla maggioranza e dentro il partito democratico, dove si registrano non pochi malumori e perplessità dinanzi alla prospettiva di mettere tutto il comparto sanitario nelle mani di un solo uomo, abituato peraltro a lasciare soltanto le briciole agli altri.

De Luca naturalmente si propone come uomo determinato, deciso, che bada al sodo e punta al risultato, insofferente non solo della «palude burocratica» che continua a indicare come il nemico numero uno da battere e in cui teme invece di rimanere invischiato, ma pure delle liturgie politiche, dei faticosi confronti in consiglio e nel partito. Resta il fatto però che la via di chiudere il proprio ruolo in una dimensione tutta gestionale e amministrativa, senza una reale interlocuzione politica con i diversi livelli di governo e con gli altri protagonisti della vicenda campana rischia di aggravare l’isolamento di De Luca. Certo, lui preferisce in realtà mantenersi in una simile condizione, proprio per non dare conto a nessuno delle proprie scelte. Ma quello che nei momenti di fortuna è sicuramente un punto di forza del governatore, può rivelarsi in futuro una debolezza, se il vento continuerà a cambiare.

E in realtà, dopo il 4 dicembre, il vento è già, almeno in parte, cambiato. De Luca però procede senza reti di solidarietà politica fra gli esponenti del suo stesso partito: rinuncia per esempio a chiamarli ad una discussione sul significato politico del voto, che è stata dunque semplicemente bypassata, come se non riguardasse la Campania nemmeno di striscio, e di fatto rinuncia a rilanciare l’azione del partito democratico. Continua anzi a preferire non identificarvisi e tenerlo quasi da parte. Non è detto che, a tempo debito, questa posizione non gli verrà imputata. E rinuncia anche a parlare ai cittadini campani in forme diverse da quelle dei monologhi su radio e televisioni private, dove dà di sé l’immagine di un uomo affaticato dal grande peso del lavoro svolto ma poco aperto a un confronto reale con i cittadini.

Ci sono dei momenti in cui tocca alzare lo sguardo ed essere inclusivi. Questo lo è certamente. Non solo per il partito, che pure è da tempo allo sbando e non può essere né commissariato, né sbaragliato, ma ricostruito in tutte le sue articolazioni, convogliando le migliori energie rimaste finora fuori. Ma anche per la Campania, il cui rilancio non potrà mai essere il frutto di una efficiente azione amministrativa condotta da un unico centro, ma la sintesi di tutte le forze politiche, sociali e imprenditoriali del territorio. Per le quali non basta un pur bravo sindaco.

(Il Mattino, 29 dicembre 2016)

C’erano una volta i partiti

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In Liguria, Cofferati sbatte la porta e se ne va: dopo l’inascoltata denuncia di gravi irregolarità, proclamati i risultati e sancita la vittoria di Raffaella Paita, uno dei fondatori del Pd saluta tutti e lascia la politica. In Campania, invece, non c’è due senza tre: alta è infatti la probabilità che il partito democratico si risolva per il terzo rinvio delle primarie, o addirittura per l’annullamento, dopo la strombazzata disponibilità di Gennaro Migliore a parteciparvi. Anche perché la data già fissata, il primo febbraio, cade nel bel mezzo delle elezioni del presidente della Repubblica, e così c’è un ottimo motivo per infilarsi nuovamente nel tunnel di mortificazioni che il Pd campano ama infliggersi da quel dì.

Ora, è vero che l’esperienza delle primarie è recente: il Pd vi si dedica da meno di dieci anni, che per una forza politica sono un tempo relativamente breve. Ma un caso come quello campano non si era ancora verificato: e dire che non ci sono stati terremoti, alluvioni o altri cataclismi. Che cosa allora impedisce al partito democratico di celebrare le primarie? Che cosa impedisce di osservare quel minimo rispetto che si deve al corpo elettorale, che consiste nello stabilire un appuntamento e, poi, nell’osservarlo? Dopo tutto, le primarie liguri sono state convalidate: non si può dire dunque che, agli occhi della direzione romana, disordini o manipolazioni non possano essere circoscritti in modo che non inficino il risultato finale. Né d’altra parte si capisce perché eventuali timori di brogli non abbiano allora impedito di indirle, visto che c’erano già precedenti. Cosa, allora? Vi è una sola risposta possibile: il profilo politico che il partito democratico campano assumerebbe dopo lo svolgimento delle primarie e la vittoria di uno dei due competitor più accreditati, De Luca o Cozzolino. È una preoccupazione legittima – da parte ovviamente dei loro avversari – se fosse però tenuta nel rispetto delle regole: per esempio attraverso la candidatura di un altro esponente politico che provasse a batterli. In effetti, con la discesa in campo di Migliore, pare che stia per accadere proprio questo: salvo che, per giungere a un tale esito, c’è stato bisogno di un paio di rinvii, forse tre, e di calpestare le decisioni fin qui prese. Che prevedevano un allargamento delle primarie a esponenti di altre forze politiche, e una raccolta di firme entro date stabilite. Ma ormai di stabilito non c’è più niente: c’è un processo politico al quale le labili regole del Pd campano si piegano volta per volta, per rendere possibile il difficile parto del nuovo, nuovo che sarebbe infine rappresentato da Gennaro Migliore.

Ma allora si faranno, queste benedette primarie? Non il primo febbraio ma magari due settimane dopo, non con le vecchie regole ma magari con regole nuove, non con i soli esponenti del Pd ma anche con l’apporto di altri (minuscoli) partiti, e non solo con i candidati della prima ora ma con candidati freschi, freschissimi, praticamente di giornata? Calma e gesso: non è affatto sicuro. Non si trova infatti un solo dirigente democratico disposto a giurarlo, nessuno per il quale basti l’argomento: sono previste, dunque si faranno. Lo stesso Migliore, mentre tende una mano agli altri contendenti, dichiarandosi pronto a entrare in lizza, usa l’altra per vestire i panni del candidato unitario, cioè del candidato che sta in campo per superare, non per partecipare alla contesa.

Migliore, bontà sua, si dichiara da sempre favorevole alle primarie, ma, aggiunge, «non se queste dissolvono i partiti». Ora, come facciano le primarie a dissolvere i partiti non è chiaro: è vero, ne cambiano la natura, riducendo il peso di iscritti, apparati, organismi dirigenti. Ma questo lo si sa dal 2007 (e doveva saperlo pure Cofferati, che lo scopre forse con qualche ritardo), cioè da quando il Pd è nato grazie alla liturgia delle primarie come suo «elemento fondativo». Quanto invece alla temuta dissoluzione, il sospetto è che ci si vada molto più vicini coi brogli, certo, ma pure con questo continuo stop and go, con questo sorta di «coitus interruptus» (e più volte interrotto), con questa incertezza che regna sovrana: con le primarie sì, ma solo fino ad avviso contrario; oppure primarie sì, ma solo se ci piacciono i candidati; o infine sì, ma solo se non c’è partita.

Nel corso della prima Repubblica, non si è data attuazione all’articolo 49 della Costituzione per il timore che, irrigidendo i partiti con norme, regolamenti e statuti e favorendo così, in caso di violazioni e ricorsi, le intrusioni della giustizia ordinaria, se ne sarebbe limitata fortemente l’autonomia. Una concezione tutta politica, tipica dei grandi partiti del Novecento e in particolare del partito comunista, che dall’opposizione aveva qualche timore in più. Ma quei partiti avevano collanti ben altrimenti potenti: in termini di ideologia, di disciplina, di partecipazione di massa. Tutto questo è scomparso, o quasi. L’articolo della Costituzione è rimasto inattuato, gli iscritti calano vistosamente: senza un minimo di certezza e legittimità delle procedure chiamarlo partito, francamente, è fargli un complimento.

(Il Mattino, 18 gennaio 2015)