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M5S, la Rete per tutti, decide uno

Kim

Roma capitale mondiale della democrazia diretta: con questo altisonante auspicio il Movimento Cinquestelle prova a rilanciare l’immagine, invero parecchio appannata, della giunta capitolina. L’iniziativa prevede l’introduzione delle petizioni popolari online (con la possibilità di discuterle in aula), e il voto elettronico per i referendum. Non prevede – o almeno: gli estensori del progetto ieri non ne hanno parlato – in quale misura questi strumenti incideranno effettivamente sull’amministrazione della città. Questo è il gran buco nero in cui finiscono, al momento, tutti i propositi di democrazia partecipativa che, con la Rete o senza la Rete, vengono variamente sperimentati in giro per il mondo. Democrazia, peraltro, non è solo la possibilità per ciascuno di dire la propria, ma anche l’organizzazione di questa possibilità, in forme che devono pure queste essere nella disponibilità di tutti. Questo punto rimane il vero tallone d’Achille del Movimento, come ha mostrato la vicenda delle comunarie di Genova. Anche in quel caso c’è stata una partecipazione online alle scelte del Movimento, anzi alla più importante di tutte: la selezione del candidato sindaco. Ma la trionfatrice, Marika Cassamatis, è stata sconfessata da Beppe Grillo, che a votazione ormai conclusa e risultati ormai proclamati non le ha concesso l’uso del simbolo. A quale titolo Grillo è intervenuto? In veste di garante del movimento. Ma quella veste non è sottoponibile ad alcuna votazione online: nessuno può toglierla, nessun altro può indossarla. La democrazia diretta si ferma sulla soglia della villa di Grillo.

Forse però non è un caso che l’ideale della democrazia diretta sia stato rilanciato proprio dopo il controverso episodio genovese. Non si è trattato nemmeno dell’unico rilancio. Sul «Corriere della Sera», Davide Casaleggio ha pubblicato un intervento, in occasione del convegno organizzato per l’anniversario della morte del padre, Gianroberto, che si è tradotto in qualcosa di più di un semplice ricordo. Casaleggio junior ha infatti steso una sorta di piccolo manifesto del Movimento, prendendosi così, sotto la testata del primo quotidiano nazionale, il ruolo che già era stato del padre. Due cose colpiscono nella lettera indirizzata al direttore del «Corriere». La prima riguarda lo scenario che Casaleggio tratteggia: siamo alla vigilia di un salto tecnologico destinato a cambiare la faccia del mondo, e in particolare a rivoluzionare il rapporto dell’uomo con la produzione ed il lavoro. È inutile dire che, così stando le cose, è l’intera sfera pubblica, sociale e politica, ad esserne investita. Ma la lettera di Casaleggio non offre alcun elemento per capire quali valori debbano orientare la comprensione (ed eventualmente la direzione) di questi processi. La tecnologia sembra essere il terreno di una spoliticizzazione radicale; ma siccome non c’è cambiamento che non faccia le sue vittime, che non abbia i suoi vinti e i suoi vincitori, che non dia più potere agli uni e meno potere agli altri, la triste impressione è che la politica ci sia, ma se ne stia da qualche altra parte, nascosta dietro la retorica che guarda stupita alle mirabilie del futuro. O più prosaicamente nelle mani di chi detiene le chiavi di quel futuro: una volta magari erano i proprietari della macchina a vapore, oggi forse i proprietari degli algoritmi che configurano la Rete.

La seconda cosa che merita di essere segnalata è la breve riflessione sulla politica italiana proposta da Casaleggio. Che è essenzialmente una rivendicazione dello sviluppo degli strumenti della democrazia diretta come segno di una proposta politica nuova che gli altri partiti non sanno formulare. Questo «discutere in modo partecipato» il programma coglie effettivamente un tratto essenziale del bisogno di democrazia che nei canali tradizionali si fa ormai fatica a riconoscere e soddisfare, ma ha daccapo il torto di non mettere a disposizione della Rete il modo in cui si decide il come, il cosa e il quando viene offerto alla discussione partecipata.

Si tratta di una contraddizione? Credo di sì. Credo che nessuna democrazia – né diretta né indiretta – sia possibile se non è democratico il partito o lo Stato che la organizza e struttura. E però questo rilievo critico conta molto poco: il voto non fa l’analisi del sangue ai candidati e ai partiti, non premia, di fatto, il tasso di democraticità di una forza politica. Se mai ne apprezza l’indice di credibilità, affidabilità, autorevolezza. E operazioni come quella condotta da Casaleggio sulle pagine del primo quotidiano nazionale servono proprio a questo. Servono a mostrarsi un altro volto rispetto a quello delle consuete intemerate grilline. Servono a Davide Casaleggio, per ritagliarsi, senza più tutele paterne, la figura di guida autorevole del movimento anche fuori dai circoli online della piattaforma Rousseau che illumina custodisce regge e governa il Movimento. E servono al Movimento tutto, che infittisce così la sua interlocuzione con l’establishment economico e sociale del Paese, per accreditarsi come una forza tranquilla (così si diceva una volta), in grado di assumere le più alte responsabilità nell’interesse generale del Paese. Auguri.

(Il Mattino, 5 aprile 2017)

La tentazione di abolire i Parlamenti

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La critica – radicale, definitiva, inappellabile – che Michelle Houellebecq rivolge, sul Corriere della Sera, all’indirizzo della democrazia rappresentativa richiede, per essere discussa seriamente, un passo indietro. Di quasi tremila anni.

Houellebecq parla alla vigilia delle elezioni presidenziali in Francia – alla vigilia delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, istitutivi del primo nucleo di comunità europea – e non si limita a prendere le distanze dall’offerta politica del suo Paese («mi asterrò con particolare entusiasmo»), ma, nel formularla, vi mette il carico da novanta, esprimendo un rifiuto completo e senza sfumature delle istituzioni parlamentari come tali, dell’idea che democrazia possa ancora voler dire rappresentanza – oggi, in un tempo in cui la tecnologia sembra rendere possibile l’utopia della democrazia diretta. Questo è il suo primo argomento. Il secondo è invece che non è vero, se mai lo è stato, che il popolo è ignorante, e che dunque non può prendere direttamente decisioni politiche che richiedono particolari competenze. Il terzo infine è che solo il popolo è legittimato a decidere, e nessun’altra istanza è più democratica di quella che al popolo rimette le decisioni su ogni e ciascuna materia su cui occorra deliberare.

Nessuno di questi tre argomenti contiene – bisogna pur dirlo, con tutto il rispetto per il più famoso scrittore francese vivente – una critica particolarmente originale della democrazia moderna. Che non ricorre affatto all’escamotage della rappresentanza solo perché non si riesce a sentir tutti su ogni argomento. Che non si dota di organismi parlamentari solo per togliere la parola al popolo, di cui non si fida. E che infine non costruisce percorsi di legittimazione costituzionale solamente per limitare in chiave oligarchica l’esercizio del potere politico. Per tutto questo, si potrebbe rinviare Houellebecq a qualche buon manuale di diritto costituzionale, per regolare le questioni su ciascuno di questi punti, e intanto domandargli chi diavolo sceglierà – quale Staff, quale Garante, quale Blog – gli argomenti da sottoporre a referendum popolare, e chi governerà nel frattempo, tra un referendum popolare e l’altro.

Così replicando, si mancherebbe l’essenziale. Da quando i moderni hanno costruito la libertà politica grazie all’invenzione dei parlamenti, eletti con voto libero, universale e segreto, al fianco degli istituti democratici è subito spuntata, infatti, la critica dei fautori della democrazia diretta: niente di nuovo sotto il sole. Prima di essere una piattaforma dei grillini, Rousseau era effettivamente un filosofo di questa fatta.

Ma l’essenziale – cioè il vento populista che gonfia le vele di Houellebecq – non lo si coglie senza tornare indietro, di tremila anni. A Omero, al secondo canto di quel primo, immenso monumento della cultura europea e occidentale, che è l’Iliade. Sono i versi in cui, dinanzi ai capi achei riuniti, prende la parola Tersite, l’unico soldato semplice a cui Omero presti una voce distinta in tutto il poema. Dunque: parla Tersite, ed è un atto d’accusa spietato, condito di ingiurie e improperi, contro i capi achei che hanno portato i loro uomini sotto le mura di Troia per una guerra di cui solo loro, i capi, si ingrasseranno spartendosi il bottino. Parla Tersite, e inveisce contro il duce supremo, Agamennone, mosso solo da sete di oro e di giovani donne da conquistare. Parla Tersite – il gaglioffo Tersite, brutto e deforme, calvo e con la gobba – e non ha tutti i torti, perché quando mai c’è stata una guerra al mondo, a cui non si sia stati spinti per brama di potere, di gloria o di ricchezza? Non ha tutti i torti Tersiet, ma uno, fondamentale, lo ha: non sa che sta parlando non solo contro Agamennone e gli altri capi achei, ma anche contro l’Iliade e l’epica stessa. Non lo può sapere, perché lui sta proprio dentro l’Iliade, è dentro la narrazione delle guerra troiana, essendo di quella epopea soltanto un personaggio. Lo sa però Omero, che dopo avergli lasciato libero sfogo per qualche verso lo fa percuotere e zittire dal glorioso Ulisse. E ci consegna l’unica difesa possibile del senso umano della storia dal tersitismo, il primo nome che ha preso il populismo nella storia occidentale.

Se la ragione è di Tersite, e di Tersite soltanto, non ci sarà infatti più nessuna guerra di Troia, ma anche nessun valore, nessuna causa, nessun canto, nessun senso delle vicende umane diverso dal riso, dallo sberleffo e dallo scherno. Non ci saranno eroi nel tempo degli eroi, ma nemmeno poeti nel tempo della poesia, e uomini di Stato nel tempo degli Stati. Tersite non racconta; deride. Ha ragione, ma non ha tutta la ragione; vede il basso e se ne compiace persino, con la sua sguaiataggine, ma così non riconosce nessuna possibile altezza per la figura umana.

Houellebecq dirà allora: cosa però c’è di più democratico di Tersite? Dobbiamo stare con gli uomini del popolo o con la casta dei tronfi capi achei? Ma questa domanda è frutto di un equivoco, frutto dell’idea che democratico sia solo lo scurrile e il plebeo, e dunque solo il movimento che abbassa e degrada, e non anche il movimento che sale verso l’alto, che forma e trasforma anche il vile ed anche il plebeo. Democrazia è questa seconda cosa qua: è la costruzione di un popolo sovrano, non la distruzione di ogni possibile sovranità.

Nella sua lunga conversazione, Houellebecq dice ancora un’altra cosa importante, sull’assenza di una cultura europea: ci sono solo culture locali, e poi una «cultura globale anglosassone.» C’è del vero, in questa affermazione, che meriterebbe un lungo discorso. Ma intanto: quella di Agamennone, Tersite e Ulisse non è una storia che appartenga a una cultura locale, e nemmeno alla cultura globale anglosassone. Se Europa fosse anche solo il luogo in cui queste storie si continuano a leggere, studiare e raccontare non sarebbe piccola cosa. Come non lo sarebbe costruire un quadro istituzionale europee che, certo, non risolvesse i suoi problemi picchiando con lo scettro i Tersite che provano a prendere la parola, ma neppure lasciando che lo scettro cada dalla mano di Ulisse e da ogni mano. Perché, quando cade, qualcuno che lo raccoglie nuovamente c’è, e di solito non è un Tersite, ma qualcuno che lo stringe molto più forte di prima.

(Il Mattino, 25 marzo 2017)

 

Euro e democrazia. Allarme populismo

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Si può cominciare da dove la campagna elettorale è finita – dalla piazza San Giovanni di venerdì sera, gremita all’inverosimile per l’ultimo comizio-spettacolo di Grillo – per chiedersi quanto la politica italiana sia infettata dal populismo, e se le urne ci regaleranno davvero un Parlamento affollato di parlamentari che, però, non credono nella democrazia parlamentare. Che il populismo sia una sorta di febbre che innalza la temperatura politica di un paese mettendone a dura prova la fibra è giudizio largamente condiviso, anche se, almeno entro certi limiti, si tratta di una malattia fisiologica, da cui è impossibile immunizzarsi (a meno di non voler rinunciare al suffragio universale). Le ultime battute della campagna elettorale, ma forse l’intera stagione politica che volge con queste elezioni al termine, fanno però temere che siano stati raggiunti ormai i livelli di guardia: l’astensionismo è dato in aumento, non solo il Movimento 5 Stelle, ed è diffuso nel Paese il discredito nei confronti della politica tutta. Quanto poi alla sfiducia nei confronti delle istituzioni rappresentative, sono gli stessi grillini, alfieri della democrazia diretta e della partecipazione via web, a proclamarla ad ogni occasione, trascinando in un unico giudizio le istituzioni e gli uomini che le rappresentano. Questo, peraltro, è il primo dei tratti caratteristici del populismo: la profonda diffidenza, il fastidio e infine il rigetto per tutte le forme della mediazione politica, identificate senz’altro con il compromesso, l’inciucio, l’imbroglio. Quando Grillo dice che i suoi uomini andranno alla Camera per aprirla come una scatoletta di tonno, lascia intendere che il Parlamento è per lui tutto meno che il luogo della rappresentanza: è piuttosto il covo dove si consumano truffe e raggiri ai danni dei cittadini. La polemica contro la partitocrazia finisce col tracimare, e investe poi anche i più alti organi costituzionali, giudicati volta a volta responsabili o conniventi.

E a proposito del tonno e di immagini simili, altro tratto evidente della retorica populista sono le espressioni grevi e sguaiate, spesso violente, che in queste settimane non ci sono state risparmiate. Sono servite per opporre al politichese una lingua presuntamente genuina, che dica finalmente pane al pane e vino al vino. Su questo terreno in Italia s’era già messa la Lega, nei cui discorsi non è infrequente che compaiano il turpiloquio e il vilipendio, ma anche Berlusconi, che ha provato a ripetere il refrain contro lo spregevole teatrino della politica, o Di Pietro, con le sue sgrammaticature da finto Bertoldo della politica. Oggi c’è Grillo, che di suo ci mette il gusto della battuta spesso denigratoria.

Poi c’è la faccenda del leader, di partiti fortemente personali e carismatici, sorti lontano dalle tradizioni politiche nazionali, che anzi rifiutano e dileggiano (con la conseguenza però che non si riesce nemmeno a capire a quali famiglie politiche europee appartengano, e dove andranno a sedersi il prossimo anno, dopo le europee). La personalizzazione della politica è fenomeno di lunga data, che procede di pari passo con la destrutturazione del sistema politico tradizionale e la sempre più significativa incidenza dei mass media. Il voto di oggi e domani fornisce nuovi, fulgidi esempi, a destra come a sinistra. A parte il solito Grillo, a destra, l’emancipazione del PdL dal suo padre fondatore è terminata il giorno in cui Alfano e compagni si sono resi conto che la campagna elettorale poteva farla solo Berlusconi, e così è stato. Dall’altra parte, appannatosi il fascino tutto personale delle narrazioni vendoliane, è accaduto che l’arcipelago residuo della sinistra antagonista si mettesse, per sopravvivere, sotto l’insegna di un nome e di un cognome, quello di Antonio Ingroia.

Populista è dunque il rifiuto della mediazione, populista è l’identificazione semplicistica con il capo, populista è infine la contrapposizione diretta e immediata fra élite e popolo. Vi sarebbe in verità un altro tratto rilevante, il nazionalismo (e addirittura il razzismo), ma per ora, per fortuna, ne abbiamo fatto l’economia, non essendo andati molto oltre le minuscole liste localistiche al Sud, e le consuete rivendicazioni territoriali della Lega. Sarà importante misurare la loro forza residua nelle regionali lombarde.

Ma alla forma principale con cui si presenta da noi la rivolta contro la casta – il ceto politico corrotto opposto alla gente onesta che lavora – forma che rimbomba nel grido grillino di piazza: “arrendetevi, siete circondati!”, si è aggiunto, complice la crisi, il sentimento di ostilità nei confronti della tecnocrazia europea. Una nuova linea di demarcazione sembra tracciarsi, a queste elezioni, fra quelli che vogliono tener l’Italia dentro l’euro, e quelli che invece pensano di tenerla fuori. Anche in questo caso, non c’è solo il roboante Grillo, ma pure la sinistra radicale e, a far da compagnia, benché più esitante, ancora il Cavaliere, che un giorno sollecita populisticamente propensioni antitedesche e un altro si ricorda invece di appartenere ancora alla famiglia del popolarismo europeo.

Quest’ultimo aspetto è però il più decisivo, benché una campagna elettorale deludente non lo abbia evidenziato abbastanza. Perché molto del nostro futuro dipenderà dall’Europa, le cui istituzioni non hanno però appeal presso l’elettorato e anzi scontano un pesante deficit di legittimità democratica, accentuato dalla crisi, che ha marginalizzato il Parlamento e la Commissione europea, esaltando il ruolo della BCE e gli accordi intergovernativi. Il contraccolpo è ancora una volta un balzo in avanti degli umori populisti, che si sollevano contro burocrati e banchieri centrali. Su questo si sarebbero dovuto misurare i partiti in campagna elettorale; su questo ci auguriamo che, almeno, vogliano farlo seriamente nel nuovo Parlamento

Il Mattino, 24 febbraio 2013

Il comico Grillo tradisce la libertà di Internet

«Il dissenso non è concepito all’interno del Movimento. Paradossalmente i partiti, con tutti i disastri che hanno arrecato a questo Paese, sono più controllabili dai cittadini di quanto lo siano Grillo e Casaleggio».
Sono le parole di Federica Salsi, fresca di espulsione dal Movimento 5 Stelle, insieme a Giovanni Favia. Stavano sulle palle, come ha avuto l’amabilità di spiegare Grillo sul suo blog. Siccome infatti nel movimento nessuno può mettere in dubbio che il comico genovese sia un fior di democratico, i due sfrontati che hanno osato farlo sono stati (democraticamente, suppongo, ma senza formalità, perché il Movimento non le prevede) messi alla porta. La compattezza, anzi la purezza del Movimento è salva.
L’unica cosa che non torna nella dichiarazione della Salsi è, tuttavia, l’avverbio: dove sarebbe il paradosso? Non c’è nulla di paradossale nel fatto che i partiti, capaci di disputare congressi, di svolgere primarie – e, da ultimo, come nel caso del Pd, di indire le primarie per la scelta dei parlamentari su una base elettorale trenta volte più ampia delle cosiddette parlamentarie di Grillo – siano più controllabili del duo delle meraviglie Grillo-Casaleggio. Il paradosso, se mai, è un altro. È che il movimento (non partito: non sia mai!) che predica apertura, trasparenza, partecipazione, democrazia diretta e non so più quale altra preziosissima virtù politica, si stia rivelando il più impermeabile alle ragioni del dissenso, alle divergenze di opinioni, alla formazione non si dirà di minoranze o opposizioni interne, ma anche solo di critiche o lievi dissapori. Non ce ne possono essere, non ce ne debbono essere e non ce ne sono: previa espulsione.
Ma, a pensarci, c’è ancora un altro, più singolare paradosso. Che tutto questo avviene non nelle pieghe di qualche imbroglio regolamentare o statutario (il movimento non ha uno statuto: evidentemente ha solo il Verbo), non nelle antiquate sezioni di partito, non in novecenteschi congressi, ma nel luogo principe dell’intelligenza collettiva, in Rete, terra promessa dell’accesso libero, negli spazi cioè in cui ogni giorno proliferano nuove forme di aggregazione e di comunicazione, nel medium che i grillini vogliono consacrare alla diffusione illimitata della conoscenza, nel paradiso della condivisione. È lì che ieri pomeriggio, in un boxino di spalle all’ennesimo, torrenziale comunicato con il quale Grillo smaschera ogni giorno le malefatte altrui, in poche righe si augurava simpaticamente buon lavoro a Salsi e Favia. Buon lavoro, e fuori dalle palle.
E la comunicazione molti-a-molti tipica delle reti digitali? Sarà per un’altra volta. E la compartecipazione delle informazioni, la trasparenza? Non pervenute neanche quelle. E l’invito rivolto da Grillo, qualche tempo fa, a spedire a Wikileaks qualunque documento riservato possa far luce sui mille misteri d’Italia, con tanto di istruzioni per l’invio? Al diavolo la coerenzA.  E forse sarà effettivamente Wikileaks a diffondere tutti i dati delle parlamentarie del Movimento 5 stelle, visto che al momento non è dato sapere quasi nulla su come siano andate le cose. A meno che, infatti, non vi fidiate del Verbo e dei suoi comunicati online, resterete delusi. I risultati sono quelli diramati, e stop. Cittadini elettori: state contenti al quia, e più non dimandate. Che è la forma elegante, dantesca, del non rompete i maroni praticata da Grillo.
Insomma, la Rete è divenuta, nelle sapienti mani di Beppe Grillo, la forma ipermoderna dell’ipse dixit di antichissima memoria., e Grillo parla ormai come un maestro di sapienza dell’Antica Grecia, anche se lo fa ticchettando su una tastiera o sbraitando davanti a una webcam. Come Pitagora, che si diceva avesse una coscia d’oro e si rivolgeva ai suoi iniziati parlando da dietro una tenda, così Grillo, coscia o non coscia, se ne sta dietro lo schermo, dove si tiene stretti tutti i dati delle votazioni (e il controllo del Movimento). Pitagora non aveva il copyright del teorema che pure porta il suo nome, Grillo invece del logo ce l’ha, e come!, e sa farlo valere. Così predica l’apertura e pratica la chiusura, diffonde contenuti in maniera virale ma si immunizza dal dissenso, esalta l’orizzontalità della Rete, ma tiene rigorosamente verticale il bastone del comando. Ci faccia almeno il piacere di non agitarlo, sempre – s’intende – in nome della democrazia.
Il Mattino, 13 dicembre 2012

I partiti allo sbaraglio

(si avvertono i gentili lettori che l’inizio dell’articolo non è autobiografico)

La politica italiana sembra essere ormai giunta a un grado di confusione tale, da non aver più nulla da farsi invidiare da quel marito che, dopo l’ennesima reprimenda da parte della consorte, finisce col pensare sconsolato: “Come fai, sbagli”. Se la porti al cinema sbagli, perché non ti rendi conto di quante cose ci sono da fare in casa, con tutto questo disordine e i panni da stirare; ma se non la inviti ad andare a vedere un film sbagli lo stesso, perché gli altri ci vanno e quanto tempo sarà che non usciamo insieme la sera, e lo vedi che mi trascuri, ecc. ecc. Anche la politica italiana si trova in una situazione del genere. Se procedi discrezionalmente a nomine e a candidature sbagli, perché sei partitocratico e orribilmente lottizzatorio, impermeabile alle istanze della società civile; ma se pensi allora che puoi rimettere tutto a consultazioni popolari, primarie e selezione di curriculum sbagli lo stesso, perché vieni meno alla tua funzione ordinatrice, abdichi alle tue responsabilità, rinunci ai compiti politici di indirizzo. Un punto di equilibrio in questa vorticosa giostra fra arroccamento difensivo nelle proprie prerogative e abdicazione al proprio ruolo, evidentemente, ancora non lo si è riusciti a trovare.

E difficilmente lo si troverà nei prossimi mesi e settimane, se si farà la gara a riportare all’ovile i voti in libera uscita verso Grillo. Il pendolo pencola infatti là dove indicano i sondaggi. Cosa dicono allora i magici numeri del marketing politico? Che la credibilità dei partiti è ai minimi storici, e che il Movimento Cinque Stelle vede gonfiare i propri consensi in due semplici mosse: da un lato spara a zero contro la casta dei politici, dall’altro promette mirabilie con la partecipazione on line, la democrazia diretta, i meet up e il popolo della Rete. E allora via con le proposte demagogiche: quelli che nominano costretti a giustificarsi anche quando applicano la legge, e quelli che non possono nominare pronti a gridare allo scandalo. In occasione delle nomine dell’Agcom, ad esempio, Italia dei Valori e Sel hanno fatto a gara a scandalizzarsi, quando farebbero molto meglio a dotare anzitutto i loro partiti di quel metodo democratico nella selezione delle classi dirigenti che la Costituzione richiede loro. Però a chi vuoi che importi, visto che hanno il leader? Piuttosto, siccome i partiti hanno abusato con le nomine politiche prive di competenze, oggi sia il turno delle competenze professionali anche per le materie politiche! Poco importa, allora, se il neosindaco di Parma, il grillino Pizzarotti, non ha ancora formato la giunta, forse perché sommerso dai curriculum – o, più probabilmente, perché le decisioni politiche non si prendono così come si valuta il personale di un’azienda – il sindaco di Palermo Orlando, che in fatto di populismo ha pochi rivali, ha pensato bene di sollecitare l’invio di referenze per le candidature a titolo gratuito per enti, aziende comunali, incarichi istituzionali. Prima di lui, d’altra parte, il sindaco di Milano Pisapia ha dichiarato che avrebbe consultato la città – non è ancora chiaro come – per decidere sulla vendita delle quote della Sea, la società che gestisce gli aeroporti milanesi. Che c’è di male, visto che persino la più burocratica e incomprensibile di tutte le istituzioni democratiche, l’Unione Europea, ha deciso che d’ora in poi qualsiasi cittadino può presentare, su qualunque materia rientri nelle competenze dell’Unione, un’autonoma proposta legislativa (salvo rispettare regole e procedure per le quali occorre non essere affatto un cittadino qualsiasi)?

Todos caballeros, insomma: si chiama open government, ma è la stessa stupidaggine, cioè la stessa idea sbagliata della democrazia. Siccome non si riesce più a far funzionare gli istituti rappresentativi, siccome non si riesce a esercitare l’opera di mediazione e di decisione in cui consiste la politica, siccome si è perduta – forse irrimediabilmente – autorevolezza, allora che si fa? Invece di studiare il modo per restituire credibilità ai partiti politici (e senso delle istituzioni un po’ a tutti), si finge di rilanciare con un di più di democrazia: la democrazia indiretta non funziona più? Vi diamo quella diretta! Salvo accorgersi che quelli che, nell’attuale scenario, la offrono, guidano partiti personali, proprietari, padronali: l’esatto contrario, insomma, del tanto celebrato merito e della contendibilità tramite lotta politica.

Come si dice? La via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Ma non scherzano nemmeno le false soluzioni.

Il Mattino, 7 giugno 2012