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In Rete troppa libertà senza responsabilità

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(E. Baj, Apocalisse, 1978)

La rete metafora della conoscenza, la rete metafora dell’appartenenza, la rete metafora dell’organizzazione: è curioso che non venga mai in mente la rete come metafora della trappola. Eppure nelle reti, da sempre, si rimane anche intrappolati.  I giovani che condividono storie su Instagram – il social più in voga fra i “millennials” – non se ne avvedono, ma la trappola scatta comunque: tu racconti una storia, pubblichi una fotografia, condividi un pettegolezzo, e da quel momento quel brano di vita non ti appartiene più. Hai voglia a cancellarlo, da qualche parte rimane. Qualcuno l’ha salvato, qualcun altro ha fatto lo screenshot, qualcun altro ancora l’ha inoltrato: nulla di ciò che è stato pubblicato scomparirà. Nel Vangelo di Luca, quando Gesù parla della fine dei tempi, e dei segni grandiosi del cielo che la precederanno, per rassicurare i discepoli dice proprio così: se saprete perseverare nella fede, nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. L’apocalisse è dunque quel tempo in cui tutto sarà restituito così com’è stato. L’“una volta” che diviene “per sempre”. Ora quel tempo è venuto, e l’apocalisse si compie sul web: nulla di ciò che viene caricato in rete, infatti, sarà più perduto.

Solo che non è la saggezza e la bontà di un dio a gestire questa enorme massa di dati personali: è, più spesso, la cattiveria o semplicemente l’incoscienza degli utenti, che non si fa più alcuno scrupolo di usarli per divertirsi o per denigrare, per spettegolare o per deridere. Né c’è più alcuna vera privacy. I giovanissimi abituati alle pratiche del social networking trovano del tutto naturale confessare segreti (veri o falsi, non importa) in rete. Ma un conto è affidarli a una parola confidenziale, un altro è mettere quella stessa parola in una chat. La prima vola via, la seconda resta. Resta, e rimbalza e scappa. Resta, e si moltiplica: altro miracolo della rete. E, badate, non resta una sciocchezza qualunque; resta invece lo scatto più pruriginoso, la maldicenza più insinuante, l’insulto più offensivo. E soprattutto rimane affidato alla rete un ruolo da sempre cruciale in ogni modello di socievolezza, che è quello della costituzione dei gruppi primari e delle relazioni informali in cui si formano innanzitutto le nostre identità. Si formano, o si distruggono. Senza che “quelli che c’erano prima” – genitori, educatori, insegnanti, insomma: adulti – ne sappiano più nulla, o quasi.

C’è tuttavia un’aria di ineluttabilità intorno al mondo della comunicazione online. Come se qualunque accorgimento tecnologico fosse vano, e qualunque intervento normativo fosse sbagliato. Ma è falsa sia la l’una cosa che l’altra. E si tratta di falsità interessate, perché i gestori degli spazi online sui quali ciascuno di noi pubblica di tutto e di più traggono profitto dai grandi numeri della rete: da ogni clic, da ogni like, da ogni informazione personale che riversiamo sui social. Traggono profitto: profilano potenziali clienti e vendono spazi pubblicitari. Più sanno di noi, meglio ci bersagliano con le loro proposte commerciali. Più tempo trascorriamo con loro, più sono loro a gestire il nostro tempo.

Ora, nonostante il riferimento all’apocalisse, non è un tono apocalittico quello che vorrei assumere. Vorrei solo che si mettesse da parte un po’ di retorica sulle straordinarie opportunità della rete (ci sono tutte) o sugli spazi di libertà che la rete assicura (pure quelli ci sono, e sono importanti, anzi ormai irrinunciabili). Ma opportunità e libertà devono fare il paio con responsabilità. Non è possibile che un quotidiano abbia mille motivi di rispondere del proprio operato dinanzi alla legge e le piattaforme pochi, o nessuno. Né può essere – per rimanere al caso delle storie di Instagram, o di Snapchat – che basti il loro automatico cancellarsi nel giro di 24 ore a regalare una sorta di extraterritorialità morale e giuridica. Quella roba rimane, altro che se rimane. E prima o poi qualcuno la mette nuovamente in giro. Ma ritenere che l’unico responsabile di una diceria sia il ragazzino che sparla con l’amico è fare dell’ipocrisia. Significa non interrogarsi sul modo in cui quella diceria diviene, a volte, una valanga, in grado di schiacciare e far morire di vergogna qualcun altro, come purtroppo è già accaduto.

Se i social sono oggi (come effettivamente sono, ancor più dei quotidiani) parte importante dello spazio pubblico, della formazione di opinione e dunque anche della salute complessiva di una società, non può esservi a disciplinarli un’unica regola, che ciascuno risponde per sé. Perché in tutti gli altri luoghi pubblici, aperti al pubblico o destinati al pubblico, vigono delle regole che impongono una certa manutenzione di quegli spazi, e qualche controllo sul loro corretto utilizzo. Finché le cose vanno più o meno lisce, funestate solo ogni tanto da qualche triste caso di cronaca, quasi non si avverte, peraltro, il paradosso di un luogo pubblico, ormai indispensabile allo stesso funzionamento della democrazia, tenuto in mani tutte private. Ma quando qualcosa non dovesse più andare per il verso giusto, che si fa? Di nuovo, non è una domanda apocalittica, se non altro perché c’è già adesso un pezzo che sta andando storto: a compromettere – come sta accadendo – la distinzione fra pubblico e privato si compromette, infatti, la democrazia. E allora domando di nuovo: che si fa?

(Il Mattino, 5 settembre 2017)

La tv senza pensiero non può guardare al futuro

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Le dimissioni di Campo Dall’Orto – ormai nelle cose, al di là degli aspetti formali – sono solo l’ultimo atto di una crisi che risale indietro nel tempo. Crisi aperta, a inizio d’anno, dalla rinuncia del direttore editoriale per l’offerta informativa, Carlo Verdelli, e culminata, a inizio settimana, con la bocciatura del piano editoriale presentato dal direttore generale al consiglio di amministrazione. Trattandosi della principale azienda culturale del Paese, il bilancio di questi anni andrebbe fatto non solo in termini di numeri – di ascolti, di bilanci, di dipendenti – ma anche in termini di pensiero. Parola impegnativa e ingombrante, che tuttavia qualche volta occorre mobilitare per dare un senso a vicende che altrimenti rimbalzano tra la dichiarazione del sindacato e quella del consigliere, tra la presa di posizione del politico e quella del giornalista: punti di vista tutti rispettabilissimi, ma che di solito si spendono soltanto in attesa delle nuove nomine, del nuovo palinsesto, del nuovo programma, per poi tornare tutti al punto di partenza.

Già, ma qual è il punto di partenza? Il tweet di Matteo Renzi che nel 2012, quando ancora non era nemmeno segretario del Pd, diceva «via i partiti dalla Rai»? Diciamo la verità: da qualunque cosa si sarebbe scritto allora, e si scrivesse oggi, che i partiti devono chiamarsi fuori, si sarebbero sollevate, e ancora si solleverebbero, ondate oceaniche di consenso. Ma se davvero si vuole tirare via i partiti – cioè la politica, finché si sta agli articoli della Costituzione – l’unica cosa da farsi, in coerenza con un simile grido di battaglia, sarebbe puramente e semplicemente la privatizzazione dell’azienda. Il mercato taglierebbe tutto quello che la politica non riesce a tagliare, e gli italiani non pagherebbero più il canone. È una soluzione. Ma l’Italia si priverebbe della principale infrastruttura tecnologica con la quale competere nell’arena globale dei media. In piena rivoluzione digitale, mentre nuovi connubi nascono dall’incrocio fra telefonia, internet e televisione, mentre mutano forme, strutture e modelli di formazione dell’opinione pubblica – che alla democrazia è necessaria come ai pesci l’acqua – l’Italia farebbe la scelta di lasciare libero il campo ai competitor privati stranieri in un settore assolutamente strategico per la produzione e la distribuzione dei contenuti e cioè, lo si sappia o no, per la stessa formazione di una comune “mentalità”.

Certo, mantenere una tv pubblica non può voler dire spartirsi posti in consiglio di amministrazione e proseguire pigramente con i talk show del mattino e della sera (condotti da giornalisti-artisti o artisti-giornalisti: poco cambia). L’errore di Renzi, se c’è stato, è stato quello di aver creduto che bastasse affidarsi alla cultura manageriale di un solido professionista per rimettere in sesto i conti della Rai e farla ripartire. Siccome era difficile smuovere il pachiderma aziendale, siccome la forza di inerzia delle cose è la più straordinaria resistenza al cambiamento che si incontra in qualunque settore della vita pubblica, ma in Rai di più, Renzi deve aver pensato che bisognava affidarsi ad un manager accreditato, di comprovata esperienza nel settore, dotarlo dei più ampi poteri e stare poi a guardare, perché ne sarebbe venuto tutto il resto.

Il resto non è venuto. E non perché Campo Dall’Orto non avesse idee giuste e brillanti, e neppure perché in Consiglio di Amministrazione sedevano invece le bieche forze della conservazione. È la visione di insieme che è mancata: il pensiero di quel che all’Italia serve, prima ancora di quello che serve all’azienda. Se infatti la Rai è un’azienda pubblica, è proprio perché ha senso mettere la questione nei termini più generali, nei termini cioè del contributo che il principale produttore nazionale di immagini, narrazioni e «luoghi comuni» può dare alla vita sociale e civile del Paese. Se manca quel contributo, e manca la volontà politica di rivendicarlo, allora manca l’essenziale. Manca la spinta. E finisce prima o poi che non si trovano più ragioni vere per distinguersi dalla tv commerciale, non si capisce più perché non accodarsi o perfino alimentare il populismo imperante, e non si trovano più nemmeno i motivi per accettare le sfide professionali di ridisegnare, possibilmente senza confonderli, gli spazi dell’informazione e dell’intrattenimento. E mentre si sventola la carta dell’innovazione, si finisce in realtà per invecchiare dietro i vecchi vizi e le vecchie abitudini di mamma Rai, che tutto trangugia, tutto digerisce, tutto fagocita e (eventualmente) espelle.

Credo di aver usato tre parole soprattutto, e di averle usate insieme. Sono tecnologia, cultura, politica. Quelli che pensano che basti pigiare il pedale sull’innovazione tecnologica per fare nuova la Rai non sanno cosa pensano. Quelli che credono all’opposto che l’ora della cultura scocchi solo quando si tengono alati discorsi, rinunciando alla popolarità dei nuovi linguaggi e dei nuovi media: anche loro non sanno cosa pensano. E quelli che invece credono che tutti i guai vengono dalla politica, anziché pensare, si limitano a ripetere i peggiori pensieri altrui, lasciando la Rai, senza neppure accorgersene, in balia di tutte le resistenze e le camarille interne all’azienda.

Tecnica cultura e politica sono in realtà i vertici di una stessa figura, quella che da duemilacinquecento anni chiamiamo democrazia. Tocca fare la fatica di metterli insieme, se quella figura deve avere ancora un senso.

(Il Mattino, 27 maggio 2017)

La tentazione di abolire i Parlamenti

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La critica – radicale, definitiva, inappellabile – che Michelle Houellebecq rivolge, sul Corriere della Sera, all’indirizzo della democrazia rappresentativa richiede, per essere discussa seriamente, un passo indietro. Di quasi tremila anni.

Houellebecq parla alla vigilia delle elezioni presidenziali in Francia – alla vigilia delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, istitutivi del primo nucleo di comunità europea – e non si limita a prendere le distanze dall’offerta politica del suo Paese («mi asterrò con particolare entusiasmo»), ma, nel formularla, vi mette il carico da novanta, esprimendo un rifiuto completo e senza sfumature delle istituzioni parlamentari come tali, dell’idea che democrazia possa ancora voler dire rappresentanza – oggi, in un tempo in cui la tecnologia sembra rendere possibile l’utopia della democrazia diretta. Questo è il suo primo argomento. Il secondo è invece che non è vero, se mai lo è stato, che il popolo è ignorante, e che dunque non può prendere direttamente decisioni politiche che richiedono particolari competenze. Il terzo infine è che solo il popolo è legittimato a decidere, e nessun’altra istanza è più democratica di quella che al popolo rimette le decisioni su ogni e ciascuna materia su cui occorra deliberare.

Nessuno di questi tre argomenti contiene – bisogna pur dirlo, con tutto il rispetto per il più famoso scrittore francese vivente – una critica particolarmente originale della democrazia moderna. Che non ricorre affatto all’escamotage della rappresentanza solo perché non si riesce a sentir tutti su ogni argomento. Che non si dota di organismi parlamentari solo per togliere la parola al popolo, di cui non si fida. E che infine non costruisce percorsi di legittimazione costituzionale solamente per limitare in chiave oligarchica l’esercizio del potere politico. Per tutto questo, si potrebbe rinviare Houellebecq a qualche buon manuale di diritto costituzionale, per regolare le questioni su ciascuno di questi punti, e intanto domandargli chi diavolo sceglierà – quale Staff, quale Garante, quale Blog – gli argomenti da sottoporre a referendum popolare, e chi governerà nel frattempo, tra un referendum popolare e l’altro.

Così replicando, si mancherebbe l’essenziale. Da quando i moderni hanno costruito la libertà politica grazie all’invenzione dei parlamenti, eletti con voto libero, universale e segreto, al fianco degli istituti democratici è subito spuntata, infatti, la critica dei fautori della democrazia diretta: niente di nuovo sotto il sole. Prima di essere una piattaforma dei grillini, Rousseau era effettivamente un filosofo di questa fatta.

Ma l’essenziale – cioè il vento populista che gonfia le vele di Houellebecq – non lo si coglie senza tornare indietro, di tremila anni. A Omero, al secondo canto di quel primo, immenso monumento della cultura europea e occidentale, che è l’Iliade. Sono i versi in cui, dinanzi ai capi achei riuniti, prende la parola Tersite, l’unico soldato semplice a cui Omero presti una voce distinta in tutto il poema. Dunque: parla Tersite, ed è un atto d’accusa spietato, condito di ingiurie e improperi, contro i capi achei che hanno portato i loro uomini sotto le mura di Troia per una guerra di cui solo loro, i capi, si ingrasseranno spartendosi il bottino. Parla Tersite, e inveisce contro il duce supremo, Agamennone, mosso solo da sete di oro e di giovani donne da conquistare. Parla Tersite – il gaglioffo Tersite, brutto e deforme, calvo e con la gobba – e non ha tutti i torti, perché quando mai c’è stata una guerra al mondo, a cui non si sia stati spinti per brama di potere, di gloria o di ricchezza? Non ha tutti i torti Tersiet, ma uno, fondamentale, lo ha: non sa che sta parlando non solo contro Agamennone e gli altri capi achei, ma anche contro l’Iliade e l’epica stessa. Non lo può sapere, perché lui sta proprio dentro l’Iliade, è dentro la narrazione delle guerra troiana, essendo di quella epopea soltanto un personaggio. Lo sa però Omero, che dopo avergli lasciato libero sfogo per qualche verso lo fa percuotere e zittire dal glorioso Ulisse. E ci consegna l’unica difesa possibile del senso umano della storia dal tersitismo, il primo nome che ha preso il populismo nella storia occidentale.

Se la ragione è di Tersite, e di Tersite soltanto, non ci sarà infatti più nessuna guerra di Troia, ma anche nessun valore, nessuna causa, nessun canto, nessun senso delle vicende umane diverso dal riso, dallo sberleffo e dallo scherno. Non ci saranno eroi nel tempo degli eroi, ma nemmeno poeti nel tempo della poesia, e uomini di Stato nel tempo degli Stati. Tersite non racconta; deride. Ha ragione, ma non ha tutta la ragione; vede il basso e se ne compiace persino, con la sua sguaiataggine, ma così non riconosce nessuna possibile altezza per la figura umana.

Houellebecq dirà allora: cosa però c’è di più democratico di Tersite? Dobbiamo stare con gli uomini del popolo o con la casta dei tronfi capi achei? Ma questa domanda è frutto di un equivoco, frutto dell’idea che democratico sia solo lo scurrile e il plebeo, e dunque solo il movimento che abbassa e degrada, e non anche il movimento che sale verso l’alto, che forma e trasforma anche il vile ed anche il plebeo. Democrazia è questa seconda cosa qua: è la costruzione di un popolo sovrano, non la distruzione di ogni possibile sovranità.

Nella sua lunga conversazione, Houellebecq dice ancora un’altra cosa importante, sull’assenza di una cultura europea: ci sono solo culture locali, e poi una «cultura globale anglosassone.» C’è del vero, in questa affermazione, che meriterebbe un lungo discorso. Ma intanto: quella di Agamennone, Tersite e Ulisse non è una storia che appartenga a una cultura locale, e nemmeno alla cultura globale anglosassone. Se Europa fosse anche solo il luogo in cui queste storie si continuano a leggere, studiare e raccontare non sarebbe piccola cosa. Come non lo sarebbe costruire un quadro istituzionale europee che, certo, non risolvesse i suoi problemi picchiando con lo scettro i Tersite che provano a prendere la parola, ma neppure lasciando che lo scettro cada dalla mano di Ulisse e da ogni mano. Perché, quando cade, qualcuno che lo raccoglie nuovamente c’è, e di solito non è un Tersite, ma qualcuno che lo stringe molto più forte di prima.

(Il Mattino, 25 marzo 2017)

 

La sinistra al tempo di Trump

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«Fare il congresso come alternativa al trumpismo, al lepenismo, al massimo al grillismo». Già, ma qual è l’alternativa? Perché le prossimi settimane si consumeranno in una lunga guerra sulle date, le scadenze, il regolamento, il tesseramento, la legge elettorali, il voto, ma poi un’alternativa a quel Cerbero a tre teste che ha preso forma «là fuori», come ha detto Renzi ieri, alla Direzione nazionale, bisognerà pure che il partito democratico la trovi.

Trumpismo vuol dire almeno due cose: nazionalismo economico e fine dell’età dei diritti. Dagli anni Novanta in poi, le sinistre riformiste sono state invece quasi tutte internazionaliste in economia e progressiste in tema di diritti civili. In particolare in Italia questo impasto ha sicuramente aiutato la sinistra, dopo l’89, a venir via dalla tradizione del comunismo nazionale. Così, l’antica contrarietà nei confronti del sistema monetario europeo – che è stato il principale veicolo di integrazione su scala continentale – si è capovolta, negli anni Novanta, nella più ferma determinazione a entrare invece nella moneta unica. E la prudenza con la quale il partito comunista seguiva i radicali nelle battaglie sui temi del divorzio e dell’aborto è invece divenuta, negli anni Novanta, la determinazione a dare al paese una legge sulle unioni civili e il divorzio breve, che sono indubbiamente frutto dell’ultima stagione di governo del Pd.

Un cambio, come si vede, assai netto. Ma ieri il Pd è stato percorso dal dubbio, che di sicuro lo accompagnerà a lungo, che quel cambio non andava nella giusta direzione, ma era parte di un moto alternato il quale, raggiunto il punto massimo di oscillazione della banda, dovrebbe procedere ora nel verso opposto.

Cosa c’è però nel verso opposto? Quale domanda è oggi prevalente: la domanda di nuovi diritti, o la domanda di sicurezza? Il partito democratico dovrebbe scommettere sulla capacità di tenere insieme i due corni del dilemma, ma trumpismo e lepenismo spingono perché si divarichino invece sempre di più. Ancora: apertura o chiusura? Democrazia significa passione per l’apertura, ma, per un contraccolpo che farebbe invidia a Hegel e alla sua logica dialettica, nel momento in cui massima è la possibilità di connessione globale fra uomini, merci, servizi, più forte si avverte il bisogno di richiudersi invece tra i propri simili, nel proprio orizzonte culturale, nazionale, etnico. La sfida ideologica e culturale è di amplissima portata.

E ancora: innovazione o protezione? Per vent’anni circa, la sinistra ha sposato la prima, portandosi fuori del recinto storico dei partiti socialisti e socialdemocratici del Novecento. La costellazione formata da Clinton, Blair, Schroeder doveva indicare, nel cielo dei valori della sinistra, il cammino. La Terza Via. E quel cammino era scandito dall’imperativo della modernizzazione, del dimagrimento dei compiti dello Stato, da parole come merito e flessibilità. Ieri queste parole non le ha usate quasi nessuno, e la preoccupazione maggiore è sembrata anzi quella di ricucire il rapporto con i tradizionali mondi di riferimento del centro sinistra: la scuola, la pubblica amministrazione, i sindacati e il mondo del lavoro.

Più Stato nell’economia; spesa sociale fuori dal patto di stabilità; piano per il lavoro straordinario. Certo il cambio di vocabolario, nella discussione interna, ieri si è avvertito. Come però si riempiono queste parole è ancora terreno di ricerca e di confronto: non facile, in mezzo a posizionamenti e tatticismi di varia natura. Al primo posto sembra essere l’esigenza di ridisegnare i contorni di uno Stato assicurativo di tipo nuovo, che si orienti non sui vincitori della globalizzazione ma sui vinti, su quelli che in questi anni sono rimasti indietro.

A loro si sono rivolti i fautori della Brexit, a loro è arrivato forte e chiaro il messaggio di Trump, e a loro rischia di arrivare anche, alle prossime presidenziali francesi, la parola altrettanto vigorosa di Marine Le Pen. Ma se le destre offrono un’interpretazione del bisogno di protezione in chiave nazionalista, di ripiegamento identitario, qual è la chiave che la sinistra è in grado di usare? Quali sono i contenitori collettivi entro cui stringere nuove reti di solidarietà, di cittadinanza, di prossimità? Finora i democratici si sono sentiti cittadini del mondo, o almeno dell’Europa. Sono stati quelli che viaggiavano con il progetto Erasmus, e solidarizzavano con i migranti. Quelli che difendevano lo «ius soli», ma pure la «lex mercatoria» che ha accompagnato l’estendersi globale dell’economia e della finanza. Ma domani?

Renzi si trova veramente su un crinale. Non solo perché, annunciando il congresso, ha chiuso la fase apertasi con la vittoria alle primarie del 2013 e deve ora ricostruire la stessa infrastruttura culturale del partito. Ma perché questo passaggio è iscritto in un mutamento epocale. Da Obama a Trump: è come il mondo è cambiato in poco meno di un decennio. Che corrisponde quasi esattamente all’arco di vita temporale del partito democratico. Il che dà l’idea che, ben oltre le schermaglie della direzione – congresso o non congresso, elezioni o non elezioni – la sfida è davvero di quelle che fan tremar le vene e i polsi.

(Il Mattino, 14 febbraio 2017)

La grande democrazia in affanno

cattura4Era più facile avere certezze sul dopo voto, che non sul voto stesso. Sul voto, fino all’ultimo, non si è potuto dir molto, se non che: gli exit poll danno in lieve vantaggio Hillary Clinton, come nei pronostici della vigilia; l’affluenza alle urne è stata alta e fin da subito si sono viste file ai seggi, come non accadeva da tempo. Soprattutto, il Paese è spaccato a metà: cosa, questa, che è accentuata dalla distanza politica e ideologica tra i due candidati: l’outsider Trump che ha sbaragliato soprattutto il partito repubblicano, da una parte; la democratica Clinton che non appassiona anzitutto i democratici dall’altro. L’una è stata più aperta e rassicurante, convincente soprattutto fra le donne e le minoranze di neri e latinos, ma anche vicina ai grandi poteri economici e finanziari, promessa di continuità senza il brivido dell’avventura o la scommessa dirompente di un break. L’altro è stato dichiaratamente anti-establishment e sopra le righe, in rotta coi politici di Washington e con le élites, portavoce degli americani stufi e risentiti, impoveriti e spaventati.

Ora che la Clinton sembra aver vinto sul filo di lana (ma potremo dirlo veramente solo quando lo spoglio sarà concluso) si può riconoscere che la vittoria di Trump avrebbe provocato un terremoto, mentre quella di Hillary avrebbe l’effetto di rasserenare perlomeno i mercati e le cancellerie europee.

Anche se è finita, però, questa campagna elettorale ha lasciato il segno.

Sul sito della CNN, hanno provato a riassumerla con le parole più cliccate nel corso di questi mesi. Al primo posto sta la parola «trumpery», che non è solo un gioco di parola formato con il cognome del candidato più discusso della storia americana recente. «Trumpery» vuol dire infatti vistoso, appariscente, e non c’è dubbio che il miliardario americano non abbia fatto molto per passare inosservato. Ma non è solo questo; a colpire è la somiglianza che la corsa presidenziale ha avuto con il genere di trasmissioni televisive – popolari anche da noi – in cui non contano bravura, competenza o professionalità, quanto piuttosto capacità di far colpo, disinvoltura nell’infrangere i codici comunicativi standard, forza per imporsi anzitutto con la propria stessa presenza.

Lo choc, insomma. Perché però l’America avrebbe avuto bisogno di uno choc? E perché Trump, comunque sia andata a finire, ha potuto proporsi come un probabile vincitore della corsa alla Casa Bianca? Probabile, «presumptive», è del resto la seconda parola della lista, quella che il tycoon ha cominciato a proporre in maniera martellante subito dopo che Ted Cruz ha abbandonato le primarie, lasciando il campo libero a «The Donald».

La risposta è forse nell’affanno in cui versano i sistemi democratici, di là e di qua dell’Atlantico. Sembrano infatti presi in questa alternativa: o si tengono dentro la carreggiata del buon senso, del ragionevole, del prevedibile (che in America voleva dire Clinton), ma allora non accendono speranze e producono disaffezione; oppure suscitano sentimenti vivaci, passioni contrastanti (che in America voleva dire Trump), ma allora pagano questa vitalità con sgrammaticature e strappi rispetto al tessuto di diritti e di civiltà costruito in una lunga storia secolare.

Un assaggio della tensione con cui questa vigilia è stata vissuta è stato il primo ricorso che lo staff di Trump ha presentato ad urne ancora aperte, in Nevada, dinanzi alle file di elettori ispanici presenti nei seggi anche dopo l’orario di chiusura. Tutto regolare, secondo le autorità, ma per Trump è il segnale di una mobilitazione delle minoranze che potrebbe decidere il risultato finale.

Ora però non mancano i motivi di preoccupazione. Se avremo una prima donna Presidente degli Stati Uniti d’America non è detto che non avremo comunque un Congresso a maggioranza repubblicana. È chiaro comunque che un’elezione ottenuta di misura, in maniera poco convincente e tra molte perplessità – non ultime quelle sollevate dallo scandalo delle email in cui la Clinton è rimasta invischiata – non sarebbe il miglior viatico per il futuro inquilino della Casa Bianca.

E dopo le incognite che hanno gravato sul voto, verranno le incognite del dopo voto. Certo, l’enigma maggiore era Trump. Sulle politiche monetarie e fiscali, aveva tirato fuori solo la generica promessa di abbassare le tasse (un «must» dei conservatori), mentre in politica estera pesava l’inquietante amicizia con Putin. Ma se lo slogan del miliardario, di fare di nuovo l’America grande e rispettata nel mondo, ha avuto presa, è perché dall’altra parte non c’erano grandi risultati di politica estera da esibire. Dalle primavere arabe in poi, la guida di Obama è sembrata molto più riluttante e indecisa di quelle offerte dai Bush, o da Bill Clinton. E Hillary, che è stata Segretaria di Stato nel corso del primo mandato di Obama, non ha potuto non rappresentare anche su questo versante una poco convincente continuità.

Da qualunque parte le si guardi, dunque, queste elezioni non rappresentano per l’America un punto d’arrivo. Il Paese non sapeva se consegnarsi alla virilità spaccona di Trump, o alla femminilità poco accomodante della Clinton. Non sapeva se fermarsi o ripartire; se alzare la voce o provare ad ascoltare; se tendere la mano o serrare i pugni. Se credere o diffidare. Ora che la scelta è compiuta, se è la determinazione di Hillary Clinton ad essere stata infine coronata dal successo, come pare, saranno in molti a chiedersi comunque se davvero si è scelto per il meglio. Anche fra le fila dei suoi sostenitori: saranno di più quelli sollevati all’idea di non essere finiti nelle mani di un avventuriero, che non quelli sicuri di avere trovato la migliore erede di Barack Obama.

Dopo il primo Presidente nero, avremmo dunque il primo Presidente donna degli Stati Uniti d’America. Sarebbe un segno storico di progresso. Eppure, chi oggi non vede l’ora di esultare ha temuto fino a ieri un improvviso e inaspettato regresso. Se sarà stato evitato, non per questo non avrà gettato un’ombra lunga sul futuro dell’America, e della democrazia.

(Il Mattino, 9 novembre 2016)

Gli USA e le primarie dei populisti

2010-06_cartoon.jpgNell’aprile dello scorso anno, quando Hillary Clinton annunciò la sua candidatura alla Casa Bianca, si aprirono i giochi. Letteralmente. La SNAI lanciò le scommesse sulle presidenziali americane: Hillary Clinton stava a 2, Jeb Bush a 5. I favoriti erano loro. Bernie Sanders e Donald Trump non erano nemmeno quotati.

Alla vigilia del voto nello Iowa, con cui il rutilante circo delle primarie comincia a attraversare l’America, la situazione è molto diversa. Sono i due outsiders a tenere il banco nei rispettivi campi. Da una parte il socialista Sanders; dall’altra il miliardario Trump.

Le primarie, in America, sono una roba vera. E soprattutto una storia lunga molti mesi. Non si contano i candidati che, partiti con il vento in poppa, hanno dovuto ben presto ripiegare le ali e uscire di scena.

Evitiamo dunque di fare previsioni sulle sorprese che la politica americana ci riserverà nei prossimi mesi, e limitiamoci a guardare con occhi europei quello che sta accadendo.

Un paio di cose si fanno subito evidenti, nonostante le diversità di sistemi elettorali, politici e istituzionali. I favoriti della vigilia si prestavano ad essere descritti come espressione dell’establishment. Di più: una è moglie di un ex Presidente, l’altro è figlio e fratello di ex Presidenti, Hillary Clinton e Jeb Bush sono i rappresentanti delle due principali «case regnanti» degli ultimi trent’anni. L’una e l’altro possono inoltre contare sul sostegno delle rispettive macchine di partito.

I candidati che rubano loro la scena si lasciano invece rappresentare come candidati «radicali», «estremisti», «populisti». Il significato delle parole è abbastanza fluido perché un termine slitti sull’altro e mantenga contorni piuttosto vaghi. Populismo, in particolare, è una sorta di parola-baule, dentro cui ci finisce un po’ di tutto: e dunque sia le piazzate di Trump contro gli immigrati, sia le intemerate di Sanders contro i ricchi vengono catalogate sotto la voce populismo. Ma un filo comune denominatore c’è: è l’avversione contro quelli di Washington. Noi diremmo: contro il Palazzo, poco importa se a tuonare contro il Palazzo sia un miliardario che i palazzi li costruisce, oppure un politico navigato, con alle spalle una trentina d’anni di incarichi istituzionali.

Il fatto però che entrambi, almeno a giudicare dai sondaggi, abbiano fatto breccia nell’opinione pubblica indica chiaramente che l’affanno delle tradizioni politiche nazionali – la consunzione, quasi, del lessico politico-intellettuale del Novecento – non è un problema solo europeo. Qualche segnale, in fondo, era già venuto nel 2008, quando Barack Obama, primo afroamericano, sbaragliò il campo da outsiders, i favori del pronostico essendo anche quella volta di Hillary. Nell’altra metà del campo i repubblicani puntarono invece su un uomo di apparato, Mitt Romney, che evidentemente non suscitava gli entusiasmi di un elettorato già radicalizzatosi. E persero.

L’ondata populista che sta scuotendo l’Occidente – ecco un punto di differenza  – in America si riversa però dentro i partiti, mentre da noi – come in Grecia, o in Spagna – sceglie altre vie. Se l’ex sindaco di New York, Bloomberg, dovesse davvero candidarsi da indipendente, preoccupato dalle figure estreme che tengono il campo, il rovesciamento sarebbe completo: in Europa nascono nuove formazioni politiche anti-sistema; in America, sarebbe invece la risposta di sistema a doversi inventare una strada nuova.

Il confronto con l’America è però istruttivo per un’altra ragione. Gli Stati Uniti sono un Paese in salute. Obama lascia un’economia in crescita. Qualche mese fa, l’economista James Galbraith spiegava il successo di Syriza o di Podemos, con le politiche di austerità adottate dall’Unione europea in piena recessione. Al contrario, aggiungeva, Obama ha praticato una strategia keynesiana, con imponenti iniezioni di denaro pubblico e programmi di sviluppo da miliardi di dollari. Ora, la spiegazione di Galbraith può darsi funzioni in economia, ma evidentemente non funziona in politica, visto che nonostante i successi della politica economica obamiana, democratici e repubblicani faticano ad esprimere candidati in linea con le tradizioni più moderate e centriste dei rispettivi partiti. L’elettorato sembra chiedere segnali di discontinuità, e persino gesti di rottura. Li chiede in America non meno che in Europa: il che vuol dire che ce la possiamo prendere con l’euro, con la crisi o con la Merkel finché vogliamo, ma un malessere più profondo sta forse cominciando a manifestarsi. Se così fosse, vorrebbe dire che in gioco non è solo il futuro di tradizioni e ceti politici, ma il destino stesso della democrazia.

(Il Mattino, 30 gennaio 2016)

Nel castello ideologico di Tronti non c’è posto per la democrazia

ImmagineUna condanna senza appello nei confronti dell’homo democraticus: l’ultimo libro di Tronti (Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Il Saggiatore, pp. 316, € 20), costruito come una sorta di confessione intellettuale per frammenti, è un libro duramente polemico:  «nessun intimismo, nessun redire in se ipsum, nessun autobiografismo».

Al suo centro sta la convinzione che oggetto di critica debba essere oggi non il capitalismo, ma «la declinazione borghese della modernità». Se però quella borghese – con i diritti soggettivi, la democrazia rappresentativa, il mito del progresso e tutto il resto – è solo una «declinazione» della modernità, vuol dire che un’altra sua versione dev’essere possibile. Se così non fosse, la critica trontiana potrebbe senz’altro essere ascritta a un pensiero schiettamente reazionario («non mi piace l’età dell’illuminismo, e non vorrei ripeterla»). Che cosa però sarebbe moderno, una volta rimosse l’abusiva occupazione borghese della modernità, è impossibile dire: Tronti non offre alcun indizio. A meno che non si possa dir tale un unico, fugacissimo cenno alla «concrescita», diversa dalla più abusata «decrescita», felice o infelice che sia. Troppo poco, per distinguersi davvero.

Ma il cuore del problema non è qui: di economia, infatti, il libro non parla. Il cuore è nella «servitù volontaria» della maggioranza, farcita di un insopportabile buon senso democratico, che smussa ogni spigolo, scansa ogni contraddizione, evita ogni acredine. Così, la «grande politica» deve fuggire i luoghi in cui è regina l’opinione dei molti – la tv, i giornali, ma anche i parlamenti – per ritrovarsi nell’amicizia «stellare» di pochi spiriti liberi. Cioè nel pensiero, e gran parte del saggio trontiano è infatti dedicata ad abitare una sorta di castello intellettuale tetragono ai tempi moderni, costruito con una scrittura sempre categorica, lapidaria, battente, tra lunghe citazioni e brevi, folgoranti frasi dal sapore quasi aforistico. Dove si incontrano Hölderlin e Nietzsche, Walter Benjamin e Aby Warburg, il pensiero novecentesco della crisi e il profetismo biblico.

Tutti i frammenti raccolti stanno insieme sotto una libertà dello spirito che è opposizione al mondo. E che solo chi ha attraversato il Novecento da comunista può esperire veramente, secondo l’Autore. Che i comunisti siano recentemente costretti al tono apocalittico (Vattimo) o profetico (Tronti) dovrebbe parlare perciò contro il cattivo tempo presente, non contro di loro. Qui sta peraltro il punto di coerenza del libro: il comunismo non è riciclato ipocritamente come la brutta crisalide da cui doveva un giorno finalmente uscire la farfalla del pensiero democratico e progressista.

Cosa però ne viene, da una simile complessione di idee? Ad esempio: che ieri la Rivoluzione d’Ottobre somigliava a una rivoluzione conservatrice e, oggi, Obama rappresenta solo «un passo indietro». Che la civilizzazione borghese è stata «barbarie», e il presente è, oggi, un cupo «universo concentrazionario». Che tra il nobile slancio rivoluzionario russo di ieri e il volgare spirito pratico americano di oggi, «la libertà sta nel primo, non nel secondo».

In tanta radicalità di giudizio è impossibile ogni accomodamento pratico. Pure, Tronti lo trova: «si può fare, opportunamente, oggi, critica della democrazia politica, accettando, difendendo, sviluppando, riformando, i sistemi politici democratici».

Difficile però farsene convinti, entro le coordinate del saggio trontiano. Forse, per vincere, il comunismo avrebbe davvero dovuto produrre un uomo nuovo, come Tronti dice. Ci è riuscita invece la democrazia, la società dell’intrattenimento, il mercato dell’opinione. Ma politica non può essere scegliersi nel pensiero altri uomini rispetto agli uomini che abbiamo. Se non altro perché sono anche gli uomini che noi stessi siamo.

(Il Messaggero, 8 novembre 2015)

Parole ignobili ma la libertà così è a rischio

dohosuh2Una frase abietta, odiosa, spregevole ha costretto Rosario Crocetta a sospendersi dalle funzioni di Presidente della Regione Sicilia. E tutto il Paese a chiederne le dimissioni. La frase non appartiene a lui, ma al suo medico personale, Matteo Tutino, di recente arrestato, che all’amico governatore dice – senza che il governatore abbia una reazione e accenni una replica, un dubbio, un distinguo – che Lucia Borsellino, la figlia del giudice Paolo Borsellino ammazzato dalla mafia ventitré anni fa, «va fermata, fatta fuori. Come suo padre». Lucia Borsellino si è dimessa  da qualche giorno da assessore della giunta Crocetta, dopo l’arresto di Tutino; la frase incriminata risale invece, almeno secondo il settimanale L’Espresso, che l’ha divulgata, al 2013 (secondo i giornalisti che firmano il pezzo risale invece a «pochi mesi fa»). Per il procuratore capo di Palermo, infine, quella frase non è agli atti, non risulta trascritta nell’ambito del procedimento che ha portato all’arresto del primario: semplicemente non c’è, non esiste.

Fin qui la giornata di ieri, in una ridda di lanci di agenzia, dichiarazioni, comunicati, smentite, richieste di dimissioni, richieste di ispezioni, richieste di elezioni. La gravità di quelle inqualificabili parole spiega da sé come abbiano potuto mettere a rumore l’intero mondo politico, e suscitare un moto di sdegno altissimo: non spiega però perché quelle parole siano finite sul sito del settimanale. Essendo nel frattempo intervenuta la smentita della Procura, la domanda sembra essere solo perché sia uscita una notizia così falsa e infondata. E invece la domanda ci starebbe tutta, anche se quella frase si trovasse effettivamente negli atti segretati di uno dei filoni di indagine su Tutino, come l’Espresso in serata ha, in maniera inquietante, ribadito.

È evidente che è difficile ragionarci su, tanto gravi e pesanti sono quelle parole, tanto immediata e necessaria è la solidarietà a Lucia Borsellino. Però dobbiamo farlo, dobbiamo chiederci ugualmente se è questo che noi vogliamo, se è questo che noi chiediamo alla nostra democrazia, se cioè ci sentiremmo davvero più sicuri, più liberi, più garantiti, se fossero pubblicate tutte le conversazioni, rese note tutte le parole, diffuse tutte le voci che affollano una qualunque conversazione privata: fra un generale e un Presidente del Consiglio – come nel recente caso di Renzi e del generale Adinolfi – così come fra un amministratore e il suo medico, o fra chiunque si trovi a qualunque titolo sotto intercettazione, sia o no ricco o famoso, potente o influente. Di questo infatti si tratta: di una democrazia che rinuncia a porre qualunque intercapedine fra sfera privata e sfera pubblica, che cancella ogni spazio di riservatezza, che sorveglia ogni comunicazione, e che poi affida alla casualità soltanto apparente della fuga di notizie effetti dirompenti, che sconquassano letteralmente le istituzioni.

In nome di cosa? Del diritto a sapere? Ma del diritto a sapere cosa? È chiaro infatti che in questo, come anche in altri casi, non c’è nulla che rilevi da un punto di vista strettamente giuridico: Tutino non è finito agli arresti per tentato omicidio. Le squallide parole riferite – ammesso e dalla Procura non concesso che siano state effettivamente pronunciate – sono dunque pubblicate da un giornale in nome soltanto del diritto a informare e ad essere informati. Ma c’è davvero un diritto a essere informati di cosa passi per la testa di una persona, che in privato, ad amici, oppure tra le mura della propria abitazione confessi per esempio le sue debolezze, o le sue perversioni, o le sue opinioni su questo e quello? C’è un diritto a costringere un uomo a piangere in pubblico, per quello che forse altri ha detto, per un silenzio che forse ha tenuto, per una viltà che forse ha commesso? No, un diritto simile non c’è, non è contemplato dalla Costituzione e non appartiene a una cultura liberale. Non si può giustificare la pubblicazione della ignobile «petit phrase» di Tutino in base al diritto di sapere che genere di persona sia il medico, e che pensi di lui e delle sue supposte infamie Crocetta. In una società liberale, ciascuno ha invece un altro diritto: quello, fondamentale, di essere in privato la persona che vuole essere – cinica oppure beffarda, meschina oppure vile – senza dover temere che l’intrusione di una microspia la strappi ai suoi vizi privati, alle sue abitudini linguistiche e ai suoi scatti d’umore, ai suoi scherzi di cattivo gusto e alle sue espressioni di libidine.

E invece oggi viviamo in questo timore. Certo, noi pensiamo che a una simile esposizione siano condannati solo i personaggi pubblici, i potenti, e ci prendiamo così le nostre piccole, maligne vendette su di loro, per ogni bassezza che ci viene rivelata. Dimentichiamo purtroppo che prima di essere «personaggi» sono «rappresentanti», sono «eletti», e siedono in organi costituzionalmente protetti. Dimentichiamo cioè che l’offesa alla loro libertà snatura la nostra democrazia, forse irreparabilmente. Perché una cosa è certa: per come la conosciamo e l’abbiamo praticata fin qui, l’ultimo dei luoghi in cui è possibile realizzare un ordinamento democratico è una casa perfettamente di vetro, in cui tutti vedono tutto e tutti sanno tutto di tutti. Non si chiamerebbe libertà, non si chiamerebbe democrazia, si chiamerebbe terrore.

(Il Mattino e Il Messaggero, 17 luglio 2015)

Non lasciare i popoli ai populisti

ImmagineLa più grande responsabilità che incombe sul partito democratico e su Matteo Renzi è dare significato alla parola democrazia. Ma non per le ragioni che qua e là sono state addotte, in questi primi mesi a guida Renzi: perché ad esempio la via intrapresa dalle riforme istituzionali nasconderebbe un sottostante pericolo autoritario; oppure perché l’accentuazione della leadership di Renzi ridurrebbe gli spazi di dialettica e di confronto. Con tutto il rispetto per simili discussioni – che a volte rivelano preoccupazioni reali, ma più spesso paiono sollevate pretestuosamente – non si tratta di nulla del genere. Si tratta invece di una cosa che viene da lontano.

Qualcuno dice persino che tutto il XX secolo, che è il secolo della democrazia di massa, è anche, contemporaneamente, il secolo della sua crisi, come se l’ordinamento politico democratico fosse cioè sempre minacciato dalla possibilità di rovesciarsi nel suo contrario. Questa minaccia appare oggi lontana, ma lo è meno di quanto comunemente si ritiene. Certo, crisi o non crisi, la vita procede in maniera abbastanza ordinata: le auto girano, le scuole e gli ospedali funzionano, i negozi sono aperti. Il lavoro però manca, soprattutto al Sud, e il sistema economico fa fatica. Ma è soprattutto l’area della fiducia, il sentimento di adesione, l’investimento di senso nella trama legale degli ordinamenti giuridici vigenti che va sensibilmente riducendosi. La fonte ultima di legittimità di questi ordinamenti è infatti meno limpida, meno visibile di un tempo. E a questa opacità non è estranea ovviamente, la costruzione europea, i cui punti alti di rappresentanza appaiono decisamente sfocati agli occhi dell’opinione pubblica, che continua a vedere nettamente in primo piano la Banca centrale, i governi nazionali, e poco altro. Il voto del 25 maggio mostra quanto l’affanno delle democrazie investa l’intero spazio dell’Unione. E lancia così una sfida decisiva. La sfida non è tuttavia tra i due schieramenti che paiono delinearsi: da una parte l’europeismo dei diritti e delle libertà, dall’altra l’antieuropeismo delle formazioni populiste e nazionaliste. O per meglio dire: questa sarà pure la sfida, ma se la si gioca così, in questi termini, lasciando che si scontrino da un lato le ragioni ideali del diritto, dall’altro quelle reali dei popoli; da un lato, l’altruismo di una morale universalistica, dall’altro l’egoismo delle politiche nazionali, particolaristiche; da un lato la certezza formale delle regole, dall’altro le pulsioni imprevedibili della vita reale, ebbene: questa sfida non sarà facile vincerla. Meglio saperlo; meglio non farsi troppe illusioni. Per non dover sgranare troppo gli occhi scoprendo che nelle urne si ingrossa il consenso delle destre nazionaliste, delle formazioni reazionarie, o anche solo di forze politiche euroscettiche. Che cosa questi partiti politici vogliono, infatti, si capisce. Che cosa vogliono invece i tradizionali partiti europeisti, no. Politiche di bilancio rigorose: d’accordo. Un maggior coordinamento delle politiche fiscali: va bene. Ma poi? Che cosa dicono oggi che miri più in alto di una difficile linea di galleggiamento dell’Unione? Che cosa dicono, che parli davvero ai popoli europei? Se non si modificano i termini della partita, se europeismo significa rimanere a guardia di vincoli, compatibilità, regole – magari allentandoli un po’, ma senza avvertire il bisogno di gettare fondamenta nuove – allora la sfida, torniamo a dirla, non sarà facile vincerla.

Perciò daccapo: dare nuovamente significato alla parola democrazia è la più grande responsabilità. Il risultato del Pd, e il semestre italiano di guida dell’Unione, devono saperla assumere. Perché non abbiamo altro modo di cominciare, non abbiamo altro inizio, che non provenga da lì: dalla energia del demos. Dalla sua forza di dichiararsi ed esserci. Se l’Europa che occorre difendere è l’Europa liberal-democratica, domandiamoci una buona volta, insomma, se quello che ad essa manca sta dal lato della libertà, o dal lato della democrazia. Se abbiamo bisogno di piccole dosi di liberalismo, o di robuste iniezioni di democrazia. Se abbiamo cioè bisogno di atti che inventino daccapo le condizioni alle quali l’Europa è unita. Un’unione non può procedere solo per minimi accordi tra governi, senza mai mettere i popoli che quei governi rappresentano dinanzi al loro destino politico. I popoli sono una cosa troppo importante perché li si possa lasciare ai populisti.

(Il Mattino, 2 giugno 2014)

La democrazia svuotata

ImmagineCom’era in quel film di Woody Allen, «Io e Annie», quando in coda al cinema c’è l’intellettuale che sproloquia di Fellini e McLuhan – il mezzo è il messaggio – e spunta Marshall McLuhan in persona a confutarne le opinioni? Ecco, non vorremmo che ci toccasse in sorte qualcosa del genere, ma tutto questo streaming che il movimento cinque stelle ci sta regalando – prima streaming con Bersani, poi streaming con Letta, ora streaming con Renzi – meriterebbe un corso alla Columbia University su tv, media e politica. Perché i grillini lo presentano come un passo avanti sulla strada della democrazia futura, mentre quello che si vede è un terribile passo all’indietro, che con l’esercizio della democrazia non c’entra nulla. Figuratevi: uno pensa che accendere le telecamere nel luogo in cui il presidente del consiglio incaricato tiene le consultazioni consente di vedere in diretta web come nasce un governo, e scopre invece che la politica si sposta giocoforza altrove (non penserete mica che i ministri si scelgano davanti alle telecamere?), e l’unico effetto di una simile trovata è quello di vedere piuttosto Beppe Grillo tenere il suo spettacolo, beninteso ad uso degli spettatori e non certo degli interlocutori. Di interlocuzione non c’è anzi la minima traccia: il mezzo non lo consente. Grillo invece parla, interrompe, sproloquia: tutto fa meno che imbastire un discorso politico, la traccia di un programma, un elenco di priorità. Nulla, perché nulla del genere serve.

Grillo, d’altra parte, manco ci voleva andare. Ma sul blog hanno vinto i favorevoli e allora lui si è sobbarcato il viaggio alla volta di Roma. Ciò però non gli ha impedito di fare l’esatto contrario di quel che gli chiedevano in rete: anche Grillo fa dunque i suoi «colpetti di Stato». E mentre teorizza serioso che, in tempi di democrazia diretta, il mandato parlamentare deve essere meramente esecutivo, fa tutt’altro che eseguire quel che gli viene chiesto, quando tocca a lui interpretare il mandato ricevuto. Di diretto c’è solo il modo in cui lui dirige le cose. Sicché va, riduce al silenzio gli altri membri della delegazione pentastellata, e non si perita neppure di dare la parola a Renzi. Gliela toglie anzi subito, e gli spiega che «qualunque cosa dica non è credibile».

Qualunque cosa. Sicché Renzi non è credibile, la politica non è credibile, i partiti non sono credibili, e la democrazia fondata sui partiti – cioè l’unica che il mondo occidentale abbia conosciuto in età moderna – neppure quella è credibile. Discutere con Renzi avrebbe significato allora conferire una patente di credibilità al tentativo di formare un governo, e con esso alle forme costituzionali in cui il tentativo è calato, e Grillo quella patente non intende rilasciarla. Come accidente secondario, però, sta il fatto che ha contemporaneamente ritirato la patente anche ai suoi stessi capigruppo, ai quali pure ha tolto la parola. Se infatti con Bersani e con Letta Grillo era rimasto in Liguria, questa volta a Roma è andato di persona, forse perché temeva l’abilità comunicativa di Renzi, forse perché non si fidava dei suoi o non li giudicava all’altezza, o forse perché tocca soltanto a lui interpretare la scena madre. Quale che sia stato il motivo, il risultato è quel che si è visto: non un colloquio, non un confronto, non una discussione, nulla di neanche lontanamente democratico, ma uno solo che parla mentre tutti gli altri azzittiscono.

In cosa è diverso questo schema dagli show del comico genovese (di cui Renzi, in un eccesso di «captatio benevolentiae», ha confessato di aver comprato in passato tutti i biglietti)? In nulla. Ma questo è quello che passa lo streaming, e il discrimine sul quale si gioca la partita politica rimane perciò uno soltanto: credito o discredito. Personale, beninteso: non istituzionale. Davvero ci vorrebbe allora McLuhan, per definire la mediatizzazione della politica come quella trasformazione dell’esperienza in cui lo svuotamento dei contenuti è direttamente proporzionale alla procurata finzione di immediatezza. D’altra parte: cosa c’è di più immediato di un insulto, di un attacco personale, di uno sberleffo o di una battuta salace? Cosa c’è di meglio per rappresentare la frustrazione crescente dell’elettorato (e però per non far altro che rappresentarla, nel senso teatrale, cioè spettacolare e non politico, dell’espressione?) Chi infatti si seguirebbe lo streaming di Grillo, se Grillo non regalasse al pubblico una sua performance? Perciò: fuori i secondi, fuori Crimi e Lombardi e quelli che son venuti dopo, e dentro direttamente lui, il primattore.

Coi risultati che abbiamo visto: in termini di ascolto, sì, ma anche, di salute della politica e della democrazia. 

(L’Unità, 20 febbraio 2014)

La verità storica parla da sé

Torno su un argomento che ho già affrontato qualche anno fa («Left Wing», La sinistra che ha paura del relativismo, 27 marzo 2006)

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Vorrei provare a togliere un po’ di evidenza alla diffusa convinzione che l’introduzione del reato di negazionismo sia un atto dovuto, oppure una misura di civiltà, e in ogni caso una misura auspicabile. Dopo il caso dei funerali del boia delle fosse Ardeatine, e nell’anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma, può sembrare decisamente inopportuno imbastire una simile discussione, e tuttavia vorrei provarci lo stesso, convinto come sono di poter sostenere la mia tesi a onore della democrazia, e non in spregio della verità o della morale. Preciso subito cosa sia in discussione: non l’apologia o l’istigazione, che l’emendamento presentato da Felice Casson (Pd) tratta come aggravanti, ma il semplice fatto di «negare l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità». Il tema è dunque se debba essere considerato un reato, punibile con la reclusione fino a cinque anni, chi nutrisse ad esempio l’opinione che le camere a gas non sono mai esistite.

A tal proposito, mi sia consentito accantonare la questione, pur rilevante, di come le società contemporanee tendano a «penalizzare», a sottomettere cioè a norme penali,  una quota via via crescente di comportamenti, con risultati spesso assai discutibili. Vorrei prendere infatti la cosa da un altro lato, dal lato del rapporto, in democrazia, fra verità e opinione. Qualche anno fa la condanna dello storico inglese David Irving a tre anni di detenzione, in Austria, per aver sostenuto che le camere a gas non sono mai esistite, sollevò infatti, a questo riguardo, un vivace dibattito, fra quanti consideravano giusta la condanna e quanti invece la criticavano, in nome della fondamentale libertà di opinione, che intendevano dovesse estendersi anche ad opinioni non solo scomode ma addirittura repellenti come quella difesa da Irving, e tanto più repellenti quanto più ammantate di presunta scientificità. Altrettanto repellente – non posso non notarlo – è stato l’atteggiamento fintamente critico esibito solo pochi giorni fa da Piergiorgio Odifreddi, in questi orrendi termini: «non entro nello specifico delle camere a gas, perché di esse “so” appunto soltanto ciò che mi è stato fornito dal “ministero della propaganda” alleato nel dopoguerra. e non avendo mai fatto ricerche al proposito, e non essendo comunque uno storico, non posso far altro che “uniformarmi” all’opinione comune”». In Italia, la filosofa Luisa Muraro fece osservare a suo tempo che, come a scuola non accettiamo che uno studente usi il «secondo me» per fatti storici assodati, così non dobbiamo accettare che nel dibattito pubblico si introduca ogni e qualsiasi opinione, con la medesima auto-assolutoria clausola. Allo stesso modo, aggiungo, non accetteremmo uno studentello che, in stile Odifreddi, si rifiutasse, che so, di affermare, temendo la propaganda «latina», che Cesare passò il Rubicone, non avendo mai fatto ricerche in prima persona. Come dunque tuteliamo e insegniamo la verità nella sede scolastica, così non dovremmo rinunciarvi neppure nel più ampio spazio pubblico, in nome di una libertà laica ma sin troppo rinunciataria: «Si ha paura di dare esca a una concezione autoritaria e fanatica della verità – scriveva la Muraro – ma si deve anche avere paura di lasciare la verità esposta all’uso demagogico e strumentale, e di finire così tutti nel relativismo e nell’indifferenza».

Ecco allora il punto che vorrei sostenere: non c’è ragione di pensare che la libertà di opinione, non assistita dalla norma penale sanzionatoria, ci esponga tutti a un relativismo indifferente e arrendevole. Si può essere meno paurosi e più fiduciosi nella capacità della democrazia di relegare ai margini opinioni come quelle di Irving (o di Odifreddi). In linea di fatto è proprio quel che fa: anche senza la sanzione penale, non tutte le opinioni ricevono uguale accoglienza. È un fatto importante, che dovrebbe stare a cuore a chiunque abbia una concezione robusta della democrazia, come di quel regime che non si affida semplicemente alla conta delle opinioni, ma che proprio attraverso quella conta seleziona verità.  La democrazia non ha cioè solo un fondamento negativo (liberale): nessuno possiede la verità, per questo tutte le opinioni sono lecite; ne ha anche uno positivo: tutti, insieme, scambiandoci opinioni, restringiamo progressivamente lo spazio del falso e camminiamo verso la verità. È la mancanza di questa fiducia (ed eventualmente degli istituti e delle formazioni politiche e sociali che debbono nutrirla) a rendere imbelle una democrazia, e inerme il carattere dell’homo democraticus. Ma, in tal caso, state pur certi che non sarà una norma penale a proteggerlo dalla falsità e dalla menzogna.

(«Il Mattino», 17 ottobre 2013  –  Lo stesso articolo è anche su «Il Messaggero», con titolo Negazionismo, lite sulla legge. Qualche dubbio sul nuovo reato)

Grillo e la «gente che spara»

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«Non siamo più da tempo una repubblica parlamentare e forse non siamo più una democrazia»: e con queste delicate parole, all’uscita dall’incontro con il Presidente della Repubblica,  Beppe Grillo dice la sua sul ruolo del Parlamento italiano, che gli pare del tutto esautorato. Perciò Napolitano lo dovrebbe sciogliere. Poi va giù duro contro i partiti, che sono «morti», «spariti», e contro i giornali che non si avvedono che il suo Movimento è invece tutt’altra cosa, e dentro il Parlamento, «dentro una architettura fatta per i partiti» il Cinque Stelle non ci sta: è «come mettere un cerchio dentro un quadrato», ha detto, con scarsissimo senso geometrico. Infatti il cerchio dentro un quadrato ci sta e come: si chiama cerchio inscritto (e il quadrato, quadrato circoscritto), come si impara sui banchi della scuola. Ma non è la geometria il terreno più scivoloso delle proposizioni di Grillo.

È la balistica, o forse, più in generale, l’arte della guerra, vista la dichiarazione seguente: «La gente vuole prendere i fucili, i bastoni e sono io a dire proviamo ancora con i metodi democratici». Sembrerebbe dunque che siamo nelle mani di un avverbio, di un «ancora» a cui è sospeso un ultimo periodo di prova. Poi, più nulla fermerà bastoni e fucili.

Ora, questo genere di dichiarazioni non risuonano per la prima volta. La gente aveva i fucili in spalla già molti anni fa, quando a tuonare era Umberto Bossi, e i bergamaschi pronti a dissotterrare le armi erano trecentomila, secondo la prudente stima del leader. Era, quello, il primissimo tempo della seconda Repubblica, quando la Lega poteva ancora apparire a taluno un agente radicale di cambiamento. (E quando per la verità, c’era già chi diceva un’altra cosa che ha ripetuto ieri Grillo: «io potevo starmene a casa e godermi i miei soldi», ha detto, infatti, e non è il primo che, pur avendo i soldi, ha deciso di scendere in campo).

Poi però s’è visto com’è andata: di cambiamenti radicali ce ne sono stati assai pochi, e la scassata repubblica italiana ha retto all’urto del furente popolo della Lega. Il cerchio leghista non solo è entrato nel quadrato parlamentare, ma è pure andato al governo, e s’è poi stretto così magicamente attorno al suo leader da soffocarlo, segnandone la malinconica fine. A giudicare dagli ultimi risultati amministrativi, è difficile ipotizzare che la Lega ritroverà presto la sua forma primeva.

Insegna qualcosa questa storia di cerchi e di quadrati? Forse sì. Forse Grillo ne può trarre l’insegnamento più drastico: che provare «ancora» con metodi democratici, costituzionalizzare la protesta, parlamentarizzare il confronto politico rischia di snaturare il movimento, e non c’è dubbio che nei toni di certe sue dichiarazioni si avverte anche qualcosa del genere. Ma come si concilierebbe una simile posizione intransigente con il bonario profilo dei «cittadini» entrati in Parlamento, con la presenza nelle Camere, il lavoro in commissione, e, oggi, l’incontro con il Capo dello Stato? Non si concilia. Quell’avverbio, l’«ancora» usato da Grillo, è non solo il tempo in cui opera il Movimento Cinque Stelle ma, più in generale, il tempo in cui si svolge l’azione politica. Anche Grillo dovrà farsene una ragione. E però quella ragione vale quanto una contraddizione, come quel cerchio che entra malvolentieri nel quadrato.

Perciò Grillo cerca, per quanto può e finché può, di lucrare sulla protesta che monta: agitarla ed usarla, più che spegnerla. Per questo alza i toni, minaccia secessioni dal Parlamento, esaspera una contrapposizione fra loro, le All Stars, e il resto del mondo. Come se spazzare via Parlamento e partiti trasformasse di colpo  il paese in macerie che Grillo descrive in un giardino incantato.  Naturalmente, un simile gioco non sarebbe possibile, se la crisi non si fosse rivelata più lunga di un conflitto mondiale, e se non fosse così incerta la risposta da parte dei partiti e delle istituzioni. In una simile congiuntura, l’elettorato si è infatti fortemente radicalizzato, e un’accentuata volatilità del voto e delle opinioni stenta a trovare composizione credibile in forme politiche, in compagini istituzionali. Certo però non è quest’ultima l’impresa alla quale Grillo intende dedicarsi. Non si tratta per lui di farsi interprete della protesta, ma di esserne il «megafono», il «portavoce». L’interprete, infatti, media, compone, collega: si interpone anche, se occorre. Il megafono invece rilancia, amplifica, e con la sua voce copre tutte le altre.

Finché dura, però. Finché non si compie la vecchia profezia: non quella dei cerchi che, volenti o nolenti, muoiono quadrati, ma quella della storia che, quando si ripete, si ripete in farsa.

(Il Mattino, 11 luglio 2013)

Il filosofo grillino spara con le parole

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Non sarà l’ideologo del Movimento Cinque Stelle, però Paolo Becchi è perlomeno filosofo, e conosce quindi l’importanza delle parole. Sa perciò quel che dice, quando dice: «Se qualcuno tra qualche mese prende i fucili non lamentiamoci, abbiamo messo un altro banchiere all’Economia». Ora i deputati di Grillo hanno preso le distanze; Grillo stesso ha chiarito che Becchi non rappresenta il Movimento, perciò non proporremo alcuna interpretazione del rapporto che queste parole intrattengono con la retorica che il comico genovese ha messo in campo dal Vaffa Day in qua, a colpi di «Siete tutti morti!» e «Arrendetevi! Siete circondati!». Però prendiamo quelle parole esattamente per quel che dicono. Esse dicono che se il Presidente della Repubblica nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, un alto dirigente della Banca d’Italia al Ministero dell’Economia, è naturale, è nell’ordine delle cose che la gente si armi e spari. E quando accadrà, nessuno avrà il diritto di lamentarsi o di recriminare, perché l’una cosa è stretta conseguenza dell’altra. Questo dice Paolo Becchi, filosofo del diritto, il quale sa che la rivoluzione non è un pranzo di gala e che non si fa nessuna rivoluzione senza una buona razione di violenza armata.

Ovviamente, da un filosofo uno si aspetterebbe anche un briciolo di coerenza fra quel che dice e quel che fa. Ma il caso di Paolo Becchi è singolare: un ideologo della rivoluzione che, con la barba filosofica d’ordinanza, accetta volentieri comparsate in tv non s’era infatti visto ancora, sicché le velleità sovversive del professore finiscono facilmente per apparire semplici bizzarrie senili.

Le parole, però, restano di una gravità assoluta, anche se chi le ha pronunciate non finisse di coprirsi di ridicolo. Quelle parole suonano infatti minacciose per la democrazia stessa, non soltanto per il ministro Saccomanni o i suoi predecessori. La democrazia è, per essenza, il luogo della parola. Più precisamente è quel luogo in cui gli uomini accettano di regolare in forma pacifica, nel confronto verbale e nella forma rappresentativa della dialettica parlamentare, i conflitti di potere. Dopodiché essa concede a tutti il diritto di parola. Proprio a tutti, si potrebbe aggiungere: persino al professor Becchi e alle sue contundenti intemperanze, anche se queste si collocano sul suo bordo estremo, dal momento che si fanno interpreti, quando addirittura non caldeggiano, la violenza che è agli antipodi della politica come pratica delle parole.

Un altro filosofo un po’ più autorevole di Becchi, un certo Giorgio Federico Guglielmo Hegel, diceva che purtroppo al giorno d’oggi (e sotto questo aspetto la sua attualità – si badi – è la nostra stessa attualità, dal momento che noi come lui pensiamo la politica dopo l’esplosione rivoluzionaria del 1789 e la nascita della modernità politica), al giorno d’oggi ciascuno, come sta in piedi e cammina, così è convinto di poter intendersi di tutto e su tutto sentenziare. Così si spiega pure un Paolo Becchi che prende la parola per infiammare gli animi.

Ora, Hegel non era certo un campione di democrazia, e anzi la sua filosofia del diritto fu giudicata da qualcuno una giustificazione «scientificamente fondata» dello Stato di polizia. Ma Hegel in realtà ne sapeva dello Stato e delle forme di mediazione richieste dal suo funzionamento. E anche se non si può cercare in lui l’esaltazione della democrazia liberale e dei diritti dell’individuo, vi si può trovare il problema, di come cioè possa tenersi saldo un ordine politico nonostante l’inevitabile difficoltà che passi per pensare, e per libero pensare, pure quello del professor Becchi.

La democrazia deve quindi la sua legittimazione, come forma politica e non semplicemente come contenitore dei diritti fondamentali dell’individuo, alla capacità di «affermare il vero nelle pubbliche leggi». Così diceva Hegel, consegnandoci se non altro il compito di secernere verità nel dibattito pubblico e grazie ad esso, e di non accontentarci di un inerte e indifferente relativismo. Il compito, detto in altri termini, di mettere nelle parole di ogni spirito democratico tutto il peso e la gravità necessaria, per respingere con assoluta fermezza gli sputi rancorosi del professor Becchi.

Il mattino 3 maggio 2013

Il comico Grillo tradisce la libertà di Internet

«Il dissenso non è concepito all’interno del Movimento. Paradossalmente i partiti, con tutti i disastri che hanno arrecato a questo Paese, sono più controllabili dai cittadini di quanto lo siano Grillo e Casaleggio».
Sono le parole di Federica Salsi, fresca di espulsione dal Movimento 5 Stelle, insieme a Giovanni Favia. Stavano sulle palle, come ha avuto l’amabilità di spiegare Grillo sul suo blog. Siccome infatti nel movimento nessuno può mettere in dubbio che il comico genovese sia un fior di democratico, i due sfrontati che hanno osato farlo sono stati (democraticamente, suppongo, ma senza formalità, perché il Movimento non le prevede) messi alla porta. La compattezza, anzi la purezza del Movimento è salva.
L’unica cosa che non torna nella dichiarazione della Salsi è, tuttavia, l’avverbio: dove sarebbe il paradosso? Non c’è nulla di paradossale nel fatto che i partiti, capaci di disputare congressi, di svolgere primarie – e, da ultimo, come nel caso del Pd, di indire le primarie per la scelta dei parlamentari su una base elettorale trenta volte più ampia delle cosiddette parlamentarie di Grillo – siano più controllabili del duo delle meraviglie Grillo-Casaleggio. Il paradosso, se mai, è un altro. È che il movimento (non partito: non sia mai!) che predica apertura, trasparenza, partecipazione, democrazia diretta e non so più quale altra preziosissima virtù politica, si stia rivelando il più impermeabile alle ragioni del dissenso, alle divergenze di opinioni, alla formazione non si dirà di minoranze o opposizioni interne, ma anche solo di critiche o lievi dissapori. Non ce ne possono essere, non ce ne debbono essere e non ce ne sono: previa espulsione.
Ma, a pensarci, c’è ancora un altro, più singolare paradosso. Che tutto questo avviene non nelle pieghe di qualche imbroglio regolamentare o statutario (il movimento non ha uno statuto: evidentemente ha solo il Verbo), non nelle antiquate sezioni di partito, non in novecenteschi congressi, ma nel luogo principe dell’intelligenza collettiva, in Rete, terra promessa dell’accesso libero, negli spazi cioè in cui ogni giorno proliferano nuove forme di aggregazione e di comunicazione, nel medium che i grillini vogliono consacrare alla diffusione illimitata della conoscenza, nel paradiso della condivisione. È lì che ieri pomeriggio, in un boxino di spalle all’ennesimo, torrenziale comunicato con il quale Grillo smaschera ogni giorno le malefatte altrui, in poche righe si augurava simpaticamente buon lavoro a Salsi e Favia. Buon lavoro, e fuori dalle palle.
E la comunicazione molti-a-molti tipica delle reti digitali? Sarà per un’altra volta. E la compartecipazione delle informazioni, la trasparenza? Non pervenute neanche quelle. E l’invito rivolto da Grillo, qualche tempo fa, a spedire a Wikileaks qualunque documento riservato possa far luce sui mille misteri d’Italia, con tanto di istruzioni per l’invio? Al diavolo la coerenzA.  E forse sarà effettivamente Wikileaks a diffondere tutti i dati delle parlamentarie del Movimento 5 stelle, visto che al momento non è dato sapere quasi nulla su come siano andate le cose. A meno che, infatti, non vi fidiate del Verbo e dei suoi comunicati online, resterete delusi. I risultati sono quelli diramati, e stop. Cittadini elettori: state contenti al quia, e più non dimandate. Che è la forma elegante, dantesca, del non rompete i maroni praticata da Grillo.
Insomma, la Rete è divenuta, nelle sapienti mani di Beppe Grillo, la forma ipermoderna dell’ipse dixit di antichissima memoria., e Grillo parla ormai come un maestro di sapienza dell’Antica Grecia, anche se lo fa ticchettando su una tastiera o sbraitando davanti a una webcam. Come Pitagora, che si diceva avesse una coscia d’oro e si rivolgeva ai suoi iniziati parlando da dietro una tenda, così Grillo, coscia o non coscia, se ne sta dietro lo schermo, dove si tiene stretti tutti i dati delle votazioni (e il controllo del Movimento). Pitagora non aveva il copyright del teorema che pure porta il suo nome, Grillo invece del logo ce l’ha, e come!, e sa farlo valere. Così predica l’apertura e pratica la chiusura, diffonde contenuti in maniera virale ma si immunizza dal dissenso, esalta l’orizzontalità della Rete, ma tiene rigorosamente verticale il bastone del comando. Ci faccia almeno il piacere di non agitarlo, sempre – s’intende – in nome della democrazia.
Il Mattino, 13 dicembre 2012

La democrazia contro la paura

Di tante maniere per amare la democrazia ce n’è una che è la migliore di tutte, ed è quella di considerare pregi i suoi presunti difetti. Perché la democrazia di difetti ne ha: uno vorrebbe che venissero eletti ogni volta i migliori, i più preparati, i più incorruttibili, ma nella conta dei voti queste qualità non sempre spiccano e alla fine le cose non vanno proprio così. Uno si augurerebbe sempre il trionfo della verità, e invece la democrazia fa dell’opinione la regina del mondo. Uno vorrebbe infine un po’ di stabilità, di sicurezza, di lunga durata, e invece la democrazia costringe periodicamente i cittadini al rito elettorale, affida la vittoria ora agli uni ora agli altri, rovescia i governi, e cambia volentieri i rappresentanti del popolo.

Ora, se vogliamo far nascere davvero dalle ceneri della crisi un’Italia migliore, è forse venuto il momento di dire che tutto questo non è una iattura, ma una fortuna. Che la democrazia scommette sul  cambiamento, ha fiducia nel futuro, mette in gioco ogni volta le sorti del paese perché confida che il paese saprà scegliere, magari imparando dai suoi errori. Lo fa non perché suppone cinicamente che la verità non esiste, e allora tanto vale fare la conta dei voti, ma al contrario va sempre nuovamente ricercata, e per questo è meglio farlo tutti insieme.

In verità, non c’è bisogno di filosofeggiare per capire l’importanza politica delle parole del premier Monti. Ieri il premier ha detto che esclude di guidare il governo anche dopo il 2013. La parola torna ai cittadini, la politica si riprende il suo spazio, e, com’è giusto, conduce la sua giusta (possiamo dirlo?) lotta per il potere. L’esperienza del governo Monti è stata ed è importante, al di là (anche se è sempre difficile andare al di là) delle cose buone e delle cose meno buone fatte o da fare. Ma è ancora più importante l’esperienza alla quale il paese si consegnerà con le elezioni politiche. Che non sono un ostacolo, un fastidio o un ingombro, ma un’occasione, anzi l’unica vera occasione per mettere davvero il Paese su una nuova e più fruttuosa strada. Scegliendo, e investendo con convinzione sul valore della propria scelta.

Per questo, se è grande la responsabilità che il premier sta portando in questi mesi, aiutando l’Italia e l’Europa a tirarsi fuori dalla più grave crisi nella quale s’è mai potuta cacciare, ancor più grande sarà quella che porteranno i partiti in campagna elettorale.

E se lo spread, allora, salisse? E, peggio: se qualcuno usasse, se non ha già usato, questo argomento per comprimere gli spazi della democrazia, i luoghi della critica, le possibilità di cambiamento? In quel caso gli si ricorderà quel che la democrazia deve sempre ricordare, per tenere in pugno le ragioni della sua legittimazione, cioè che essa è nata per sconfiggere l’uso politico della paura, di cui quell’argomento è soltanto l’ultima versione. Monti lo sa, e non ha inteso usarlo, né ha inteso sequestrare il futuro al paese. Sta ai partiti, e in primo luogo al Pd, indicare come intende disegnarlo. Come si fa a giocare la speranza contro la paura, la fiducia nel meglio contro il timore del peggio. Che se poi lo spread salisse davvero, salisse ancora (come se poi finora fosse sceso precipitevolissimevolmente), beh: sarebbe una buona ragione per farle subito le elezioni, non certo per rimandarle o per preconfezionarne l’esito.

L’Unità, 11 luglio 2012