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Se la Chiesa surclassa la democrazia

ImmagineCome da vocabolario: la Chiesa cattolica è la comunità di credenti che riconosce il primato di Pietro. C’è il primato petrino e c’è la comunità, e nella sua lunga storia i termini di questa relazione non hanno pesato sempre allo stesso modo. Però hanno funzionato e funzionano tuttora. La vitalità che la Chiesa di Francesco sta dimostrando è indubbia. E non si tratta del fatto che il Pontefice gode di buona stampa, o che piace al mondo perché non gli va contro, come il suo predecessore Benedetto XVI: tutte queste sono rappresentazioni decisamente approssimative, che colgono movimenti di superficie e non guardano ai mutamenti più profondi che il cattolicesimo viene affrontando. Proprio questo, anzi, colpisce: la capacità di affrontare questi mutamenti impegnando una visione complessiva di sé, del proprio mandato, della propria tradizione morale e religiosa.

Questo era infatti il Sinodo: una riflessione sulla famiglia, istituzione fondamentale per la morale cattolica (e per molte società umane), condotta senza rete, senza preventivi ripari, senza percorsi preconfezionati. Al termine, conta ovviamente se siano state raggiunte posizione sufficientemente progressiste, abbastanza moderate o troppo conservatrici: a proposito della comunione ai divorziati – da valutare con discernimento, caso per caso – o delle unioni omosessuali  – distinte fermissimamente dal matrimonio –. Ma conta anche l’ampiezza del confronto, e diciamo pure: la franchezza dello scontro. E infine pure la capacità di chiudere il Sinodo votando un documento finale i sintesi, capace di misurarsi (e di votare) su tutti i punti controversi.

La sintesi, per la verità, è affidata a Bergoglio, perché la Chiesa mantiene indeffettibilmente l’autorità pontificia. Il Sinodo si limita, secondo il diritto della Chiesa, a mettere a disposizione del Papa le vedute dei suoi vescovi sui problemi sui quali sono stati convocati per un consulto. Ma di un consulto vero si è trattato, e di una Chiesa percorsa dalla discussione in ogni sua fibra. Forse questa così larga disponibilità a dibattere dipende da tempi problematici per la coscienza religiosa, tempi in cui il senso trascendente della vita è lontano dalle pratiche quotidiane degli uomini, sicché dietro ciascuno dei temi che la Chiesa è chiamata ad istruire si intravede una sorta di smarrimento metafisico: forse è questo, che ha spinto i padri sinodali a non accontentarsi di sterili dispute verbali, portandoli a reclamare in gioco l’umanità stessa dell’uomo. O forse è la formula di governo della Chiesa, che offre comunque un ancoraggio ultimo nelle parole del successore di Pietro, e permette così alle parole penultime di tutti gli altri pastori una libertà di movimento persino maggiore. Forse si tratta dell’una e dell’altra cosa insieme: la profondità metafisica minacciata e l’altezza gerarchica preservata creano un campo di tensione che rende vive e vitali, drammaticamente vitali, le dispute teologiche, pastorali, ecclesiali.

Dall’altra parte ci sono le democrazie occidentali. Non hanno così tanti anni, quanti ne ha la Chiesa di Roma, eppure paiono già stanche, sfiduciate, infiacchite, disilluse, disincantate. Consegnate a pratiche routinarie, svuotate sempre di più dalla partecipazione popolare, incapace di appassionare e percorse perfino dal dubbio di non contare veramente poi molto, e di non decidere gran che. Non è un caso che tanta parte dell’intellettualità europea reagisce in modo fiacco alle difficoltà che l’Unione attraversa: non si tratta forse di un progetto politico di grandissima ambizione? Eppure, nonostante il carattere inedito della costruzione comunitaria, c’è molta poca traccia di questa ambizione nelle prese di posizione pubbliche, nei discorsi istituzionali delle massime cariche politiche o anche solo nella saggistica corrente. E neppure la prospettiva di un naufragio del processo di integrazione (che non è affatto scongiurata solo perché compare qua e là qualche timido segnale di ripresa economica) riesce davvero a mobilitare l’opinione pubblica, ad accendere animi, a suscitare energie. Davvero la misura dell’umano si rimpicciolisce e diviene fin troppo umana, come pensava Friedrich Nietzsche, quando perde una sponda trascendente, o quando smette di combattere contro minacce di negazione radicale, che le democrazie da sole non sono in grado di evocare (benché abbiano saputo combatterle, quando si sono presentate, nel corso del ‘900)?

È lecito coltivare questo dubbio. Se non altro perché così c’è perlomeno una sfida da vincere: scacciare il sospetto che l’uomo, da solo, nella dimensione piatta e orizzontale delle sue banali e ordinarie relazioni sociali, in un contesto piattamente e stancamente democratico – che l’uomo, dicevo, quest’uomo qui non è poi quella gran cosa che credeva scioccamente di essere, finché la democrazia non l’aveva conquistata.  E, forse, questa è una sfida che vale la pena di vivere: da sinceri, anche se un po’ ammaccati, democratici.

(Il Mattino, 26 ottobre 2015)