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Il partito trasversale dei guastatori a tutti i costi

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Afro, Demolizioni (1939)

Volano parole grosse. È oltre i limiti della democrazia, protesta preoccupatissimo Roberto Speranza, per conto di Mdp. Solo Mussolini aveva fatto cose simili, urla Di Battista. Così che davvero l’ordinamento democratico della Repubblica pare messo in pericolo dall’iniziativa del Pd, fatta propria dal governo, di mettere la fiducia sul testo della nuova legge elettorale all’esame della Camera. Una decisione politicamente impegnativa, che arriva sul finale della legislatura, ma che non piomba sul Parlamento come un fulmine improvviso scagliato da un dio iroso, bensì come l’ultima possibilità di dare all’Italia un sistema di voto accettabile, essendo naufragati tutti i tentativi esperiti finora. Prima l’incostituzionalità del porcellum, poi l’incostituzionalità dell’italicum, quindi il naufragio del tedeschellum (o teutonicum, che dir si voglia), in mezzo i propositi variamente assortiti, e tutti abortiti, di tornare al mattarellum: tutta questa profusione di latinorum dimostra senza dubbio alcuno la difficoltà del Parlamento italiano di dare un assetto stabile, convincente e soprattutto condiviso alle regole elettorali.

Se spingessimo più indietro lo sguardo, non daremmo un giudizio diverso. La famosa legge-truffa, fortemente osteggiata dal partito comunista, passò, a suo tempo, col voto di fiducia. E a metterlo quella volta non fu il Duce, come forse pensa Di Battista, ma un certo Alcide De Gasperi. Passano gli anni, e sul finire della prima Repubblica torna alla ribalta la questione elettorale. Ma a dare la scossa non fu certo il Parlamento, bensì un referendum popolare, quello promosso da Mario Segni sulla preferenza unica. Insomma, è giusto rivendicare il carattere squisitamente parlamentare della materia elettorale, ma è onesto riconoscere la difficoltà sempre incontrata all’interno del Parlamento, dalle proposte legislative di riforma in questa materia. Così come sarebbe altrettanto onesto rilevare che il rosatellum attualmente in discussione, l’ultimo latinorum della serie, ha un appoggio politico ampio. Anche se per ovvie ragioni né Berlusconi né Salvini voteranno la fiducia al governo, c’è intesa sulla legge. Il che non era, e non è, affatto scontato.

Questo significa che, oltre ai centristi, tre fra le maggiori forze politiche, di maggioranza e di opposizione, condividono l’impianto della legge. La quarta, i Cinquestelle, è invece sulle barricate. Ma come si fa a dimenticare che hanno qualche responsabilità nel naufragio del precedente tentativo, questa estate, di approvare una legge elettorale sul modello tedesco? Grillo, sul sacro blog, difendeva l’accordo, ma la base ribolliva di rabbia contro quella “cagata di legge elettorale”. E così, alla prova dell’Aula, con la consueta gragnuola di emendamenti, l’accordo non ha retto, e i voti grillini sono mancati. Il solito palleggio di responsabilità tra maggioranza e opposizione ha in seguito intorbidato le acque, ma a nessuno è parso, nelle settimane successive, che Grillo e compagni volessero rimettere mano alla legge. Tutt’al contrario. Ai Cinquestelle il sistema proporzionale partorito con le decisioni della Consulta sta più che bene, perché non gli mette al collo il cappio della coalizione. Posizione legittima, ma che difficilmente può tirare il Paese fuori dalle secche. Promette anzi di lasciarcelo chissà per quanto.

La situazione, vista dal lato del partito democratico, è invece la seguente: assumersi la responsabilità di approvare il rosatellum ricorrendo alla fiducia per evitare l’ennesimo fallimento, oppure alzare bandiera bianca, e consegnare definitivamente il Paese all’ingovernabilità?

Certo, le alternative non si presentano mai così nettamente. Hanno le loro sfumature. È chiaro che il ricorso alla fiducia punta a bypassare malumori e dissensi che attraversano sia il Pd che Forza Italia. È vero pure che anche il rosatellum non garantisce maggioranze stabili: la quota uninominale prevista difficilmente porterà l’uno o l’altro schieramento fino al 50,1%. Ma cosa c’è dall’altra parte? Che cosa motiva il rifiuto della legge da parte dei Cinquestelle, o da parte di Mdp? C’è, da parte loro, l’indicazione di un’alternativa praticabile? Allo stato, no. Allo stato, c’è solo la marea montante della polemica, portata spesso al di sopra delle righe, e condotta non in nome dell’interesse generale, ma dell’interesse proprio. Per quale motivo, infatti, non sarebbe nell’interesse generale del Paese introdurre un terzo di collegi uninominali che spingono le forze politiche a coalizzarsi fra loro, gli altri due terzi rimanendo proporzionali? Non si capisce. Mentre si capisce benissimo perché né i grillini, né quelli di Mdp vogliono il rosatellum: perché non fa al caso loro (mentre fa al caso di quegli altri).

Ora, ci si può dolere che la disputa sulla legge elettorale non si elevi dalla contingenza politica del momento. Ma questa doglianza riguarda tutti i partiti, nessuno escluso. Resta però che col rosatellum si fa almeno un passo in avanti nel senso della governabilità, e soprattutto si produce una legge forte del più largo consenso finora disponibile in Parlamento. Né ce n’è un altro. E, di questi tempi, trovare una maggioranza larga che assume su di sé il peso di una decisione politica per tirare il Paese fuori dallo stallo in cui si è cacciato dopo la bocciatura del referendum costituzionale, non è cosa da poco. Anzi è tanto, e sarebbe sbagliato buttarlo via.

(Il Mattino, 11 ottobre 2017)

Se Salvini e Grillo stanno con Putin

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La risposta militare di Donald Trump all’uso delle armi chimiche da parte del regime di Bashir al-Assad ha dato uno strattone robusto all’opinione pubblica internazionale. Inorridita per l’uso del gas da parte del dittatore siriano, ma forse non altrettanto convinta delle buone ragioni dell’intervento americano: non bisognava attendere un pronunciamento formale delle Nazioni Unite? Non bisognava portare la decisione sull’impiego delle armi dinanzi a qualche foro multilaterale? Non doveva esserci l’Unione Europea a fianco dell’America? Accanto a questi dubbi che più o meno ricorrono sempre, tutte le volte che si dimostra l’inanità degli organismi sovranazionali, quasi sempre bloccati da veti reciproci e incapaci di intraprendere iniziative autonome, stanno i dubbi sul nuovo Presidente a stelle e strisce: chi è Trump? Non aveva cominciato la sua Presidenza rispolverando tentazioni isolazionistiche? Non era pappa e ciccia con Putin? E com’è possibile allora che scaraventi 59 missili Tomahawk su una base militare del regime siriano, che agisce sotto la protezione della Russia? E qual è, in generale, la strategia americana per il Medio Oriente?

A scorrere le agenzie che si susseguono in queste ore, si scopre con qualche sorpresa che il maggiore sconcerto lo si registra non tra le file della sinistra, bensì tra quelle della destra che avremmo fino a qualche giorno fa – o forse fino a un minuto prima dell’attacco – qualificato come trumpiana, entusiasta delle scorrettezze politiche del neo-Presidente, e pronta a esultare per la fine degli equivoci buonisti dell’era Obama. Trump è quello del muro al confine col Messico, dello stop all’ingresso degli stranieri, dell’incremento del bilancio della Difesa, ma da ieri è anche quello del bombardamento della base siriana di Shayrat.

In Francia, dichiarazione di Marine Le Pen: «è troppo chiedere di aspettare i risultati di un’inchiesta internazionale indipendente prima di procedere a questo tipo di attacchi?». Dichiarazione della nipote, Marion: «Questo intervento è una delusione, è un danno per l’equilibrio del mondo». Certo, la destra francese ha una vivace tradizione di antiamericanismo, a cui può attingere in circostanze come questa. Ma anche in Gran Bretagna, il leader nazionalista Nigel Farage non ha rilasciato una dichiarazione di aperto sostegno. Tutt’altro: «Molti sostenitori di Trump saranno preoccupati per questo intervento militare: come andrà a finire?».

Se veniamo in casa nostra, le prese di posizione più apertamente contrarie le leggiamo tra i Cinquestelle. Dove Grillo aveva salutato con soddisfazione la comparsa dell’uomo forte Trump, all’indomani delle elezioni presidenziali, lì il deputato Di Stefano ha potuto tuonare: «sono bastati pochi mesi per allineare Trump ad un principio storico: in USA non comandano i Presidenti ma le lobby della guerra e del petrolio». In queste parole l’antiamericanismo ideologico che un tempo albergava nel pacifismo di sinistra (ma anche in certa destra estrema) torna ad esprimersi allo stato puro, grezzo, non mescolato con le prudenze dei comunicati ufficiali del Movimento, che parlano solo di «rischio» che si sia violato il diritto internazionale e, naturalmente, lamentano l’assenza dell’ONU.

Con Salvini le cose non vanno molto diversamente. Il leader leghista, che nei mesi scorsi aveva fatto circolare tutto contento la foto che lo ritraeva in compagnia di The Donald, ora parla di «pessima idea, grave errore, regalo all’ISIS». Mentre Giorgia Meloni teme che si continui la politica di Obama, con un sostegno indiretto al fondamentalismo islamico.

C’è un fronte “sovranista”, dunque, che si salda nella critica all’azione unilaterale del presidente americano, e che vede schierati dalla stessa parte Fratelli d’Italia, la Lega Nord e i Cinquestelle. (mentre tace la voce più moderata di Forza Italia).

A sinistra le cose stanno all’opposto. Il premier Gentiloni – che si è preso del «vassallo» degli USA dal terzomondista Di Battista – non diversamente dagli altri leader europei ha parlato di una «risposta motivata» al crimine di guerra perpetrato da Assad. Matteo Renzi gli ha dato manforte: «nessuno può permettere che dei bambini vengano uccisi nel modo in cui da anni in Siria si continua a fare».

Certo, se si guarda in fondo a sinistra, e si arriva sino al neosegretario di Rifondazione Comunista, Maurizio Acerbo, si trova ancora l’opposizione dura e pura contro l’imperialismo yankee: «I missili di Trump non sono al servizio della democrazia e dei diritti umani – ha detto Acerbo –, l’attacco americano è un atto di terrorismo internazionale». Se però si lascia la sinistra antagonista i toni si fanno nuovamente responsabili. C’è il consueto richiamo al ruolo che l’Europa dovrebbe assumere sul teatro mediorientale, l’auspicio di Andrea Orlando che quello di Trump sia stato un «episodio isolato», e la preoccupazione di Enrico Letta per una politica estera americana «a zig zag». Ma il tradizionale ombrello atlantico sotto il quale la sinistra ha finito col ripararsi negli ultimi anni – dal Berlinguer che preferisce la Nato fino a Massimo D’Alema che approva le operazioni nella ex-Jugoslavia – è tornato ad aprirsi. Certo, si preferirebbe usare la coperta dell’europeismo. Ma siccome quella coperta è, nei fatti, solo un velo di ipocrisia che si squarcia ad ogni nuova crisi internazionale, al dunque la sinistra opta per l’interventismo americano anche se alla Casa Bianca non siede più il liberal Obama ma il rude miliardario Trump.

Così suona come un paradosso, quello che si disegna sullo scacchiere della politica nazionale: la destra non segue Trump e si schiera per la pace, come dice senza tema del ridicolo Salvini, mentre la sinistra vede i rischi che il neopresidente conservatore USA si accolla e li giustifica, anche se il confronto con la Russia si avvicina a un punto di non ritorno. «Ad un passo dallo scontro», scriveva ieri il premier Medvedev, mentre mandava una nave da guerra a incrociare dalle parti dei cacciatorpedinieri americani da cui è partito l’attacco. Scontro a fuoco per fortuna ancora no, ma scontro ideologico dai confini incerti tanto quanto l’intero ordine mondiale forse sì.

(Il Mattino, 8 aprile 2017)

I grillini, il palazzo e il profumo della prima volta

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Sono loro, i Cinquestelle, la più vistosa differenza fra quello che c’era ieri e quello che ci sarà domani, in esito a questa crisi. Perché sono cominciate le consultazioni del Quirinale, che prenderanno almeno un paio di giorni e sopratutto vedranno sfilare una ventina di gruppi parlamentari, e non si è sentito ancora nessuno che si scagliasse contro questi consumati riti della vecchia politica, o magari che chiedesse di mandare tutto in streaming, perché i cittadini hanno il diritto di sapere cosa dicono i loro rappresentanti.

C’è una ragione: il Movimento non è mai stato così vicino al Palazzo, alle istituzioni, al governo. Con qualche sussulto interno per via della corsa per la leadership ma vicini, vicinissimi. Intendiamoci. In nessuna delle soluzioni di cui si ragiona, è previsto che i Cinquestelle entrino in una qualche maggioranza. Si tratti di un governo istituzionale, di un governo di scopo, di un governo di responsabilità nazionale, di un governo del Presidente o infine di un Renzi-bis, i Cinquestelle non ne faranno parte. La loro richiesta rimane una: al voto subito. Dopodiché molto dipenderà dalla legge elettorale, naturalmente, ma il voto sarà comunque, con ogni probabilità, anche una risposta alla domanda se Grillo e i suoi siano, per gli italiani, pronti per governare.

Lo sono? Secondo Alessandro Di Battista sì. Nell’intervista data al giornale tedesco «Die Welt», ripresa da «Repubblica», uno dei più autorevoli esponenti del Movimento – secondo il giornale, il più popolare – ha provato a delineare i contorni di una forza che non è più, anzi non è mai stata un semplice movimento di protesta. Che ha le idee chiare sui temi decisivi dell’attuale fase storica, quelli che determinano le linee di faglia lungo le quali si dispongono le principali formazioni politiche in Europa. Anzitutto l’immigrazione e l’euro. Sul primo tema, Di Battista è lapidario: «chi è privo di diritto d’asilo deve essere espulso». Sul secondo un po’ meno, nel senso che non dice esplicitamente che l’Italia deve uscire dalla moneta unica (i grillini vogliono che a decidere sia un referendum), ma attribuisce all’euro la responsabilità di tutti o quasi i mali dell’economia italiana.

Se a queste indicazioni aggiungiamo l’enfasi sulla green economy, l’idea di rilanciare lo sviluppo economico del Paese su enogastronomia, turismo e cultura, la lotta alla corruzione, la ricerca di una base sociale nella piccola e media impresa, la diffidenza verso la finanza che ruota intorno alle grandi banche, bene: otteniamo tutti i colori che Di Battista usa per completare il suo ritratto del Movimento. Che sono però due soltanto: il nero e il verde.

Di rosso, infatti, ce n’è pochino. Ma forse perché di rosso ce n’è sempre meno in tutta Europa: nell’Austria che domenica scorsa si è affidata al candidato verde per battere il candidato nero alla presidenza della Repubblica. E nella Francia che sembra andare sempre di più, alle presidenziali del 2017, a una sfida fra la destra lepenista e quella moderata, per archiviare definitivamente il settennato di Hollande. D’altronde, se si guarda dentro il partito socialista europeo: pure lì, il rosso sbiadisce sempre di più.

Ora però, tornando in Italia, il carattere antisistema o antipolitico del Movimento non dipende forse dal fatto che quei colori non erano compresi nella tavolozza costituzionale della prima Repubblica (e neanche nel progetto originario della comunità europea)? Il solo fatto di impiegarli ha effetti dirompenti. D’altra parte, lo scenario non solo politico, ma culturale e ideologico della prima Repubblica è cambiato, ormai un quarto di secolo fa, e tutti questi anni non sono bastati ad allestirne uno nuovo. La proclamata fine delle ideologie è, in realtà, la fine di alcune ideologie soltanto, perché è difficile non definire ideologiche certe prese di posizione, come quella dell’espulsione per tutti i migranti (fatti salvi, buon dio!, i soli richiedenti asilo) o il referendum sull’Euro (che procurerebbe più sobbalzi all’economia di quanti ne procuri la pura e semplice uscita). Si può dire anzi il contrario: che ad avere maggior fortuna elettorale sono proprio le forze in grado di innalzare la temperatura politica del voto, di investirlo di significati netti, persino drammatici, ben lontani dalla retorica delle necessarie riforme o dal ritornello grigio e burocratico della responsabilità.

Se così non fosse, il passaggio che l’Italia è chiamata ad affrontare non sarebbe così stretto. Perché la tavolozza dei colori è ormai mutata, e la sconfitta di Renzi è anzitutto la sconfitta di una via d’uscita dalla crisi della seconda Repubblica in grado di assorbire e far arretrare i Cinquestelle. Ma loro non sono arretrati; sono, anzi, avanzati.

E anche se una legge elettorale di impianto proporzionale dovesse svolgere la funzione di tenere i grillini lontano dall’area di governo, neanche così sarebbe un mero ritorno al paesaggio della prima Repubblica. Che aveva altri colori, un altro sistema politico e un altro orizzonte ideologico.

(Il Mattino, 9 dicembre 2016)

I libri da consigliare a Di Maio e Di Battista

downloadPinochet: chi era costui? Un dittatore. E dove esercitava il suo onesto mestiere? In Cile. Ma Di Maio lo piazza in Venezuela. Con uno svarione memorabile, come neanche i nostri compagni di scuola hanno saputo regalarci ai tempi belli.

C’è poco da scherzare: se studi da premier, conviene che ti fai una cultura. Magari insieme all’altro aspirante del Movimento Cinquestelle, Di Battista, che ti ha già preceduto da lunga pezza sulla strada delle gaffe. E dei congiuntivi sbagliati.

Si potrebbe cominciare dal giardinaggio, occuparsi della chimica per passare poi all’archeologia. Forse non è il percorso più lineare, ma è quello che seguono quei brav’uomini di Bouvard e Pécuchet, gli eroi involontari dell’ultimo, incompiuto romanzo di Flaubert. Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista potrebbero seguirne le orme: magari senza ritirarsi in campagna come loro, perché la carriera politica dei due leader ne risentirebbe, ma con la stessa voracità enciclopedica. Le cose da sapere, infatti, sono tante. Nel frattempo, potrebbe venire loro incontro il dizionario dei luoghi comuni che sempre Flaubert sognava di completare: molto utile per far conversazione in società, tenendosi appunto a quel sano buon senso che insegna le cose che bisogna dire per ben figurare. Come per esempio che il machiavellismo è da esecrare, che Darwin era quello che diceva che gli uomini discendono dalle scimmie e che il filosofo Diderot va citato sempre in coppia con D’Alembert. Cose così, magari appena più aggiornate: coi nomi propri al posto giusto ma sempre nei pressi della familiare banalità quotidiana.

Se infatti si lascia la solida frequentazione delle stupidaggini di tutti i giorni, si finisce fatalmente con l’inciampare. Collocando Pinochet in Venezuela, mentre ci si lancia in un impegnativo paragone fra il nostro premier e il generale cileno. Di Maio avrebbe forse potuto continuare con un «sempre di Sud America si tratta!», ma ha preferito correggersi, il che è sicuramente dimostrazione di una salda volontà di imparare dai propri errori. Però, nel sistemare in fretta la geografia, ha lasciato comunque in piedi il paragone fra il presidente del Consiglio di un paese democratico, e l’autore del golpe, che depose manu militari il governo democratico di Salvador Allende (e che in seguito fu processato per crimini contro l’umanità). Queste cose si sanno: stanno in tutti i manuali scolastici di storia contemporanea, dei quali ogni tanto sarebbe utile un ripasso, o almeno una qualche forma di consultazione. Anche perché Di Maio soggiunge: «e sappiamo com’è finita», come se in fondo all’esperienza del governo Renzi i Cinquestelle intravedessero già migliaia di persone torturate e uccise.

Ma forse è solo un problema di retorica sopra le righe. Se dunque, per sistemare le proprie conoscenze nell’ambito della storia contemporanea, possono tornare utili i manuali in uso delle scuole (non dimenticandosi di aggiungere che il Novecento è stato il secolo breve: così si fa mostra di aver letto Hobsbawm e si allunga il dizionario di Flaubert), per sistemare paragoni e metafore si può ricorrere a Bice Mortara Garavelli, coi sui libri sulla retorica, e il prontuario di punteggiatura. Il classico trattato sull’argomentazione di ChaÏm Perelman è infatti un po’ troppo impegnativo.

Prendete Di Battista: «mi domando quanto un miliziano dell’ISIS capace di decapitare con una violenza inaudita un prigioniero sia così diverso dal Segretario di Stato Colin Powell». A parte il gentile contributo alla causa di Flaubert – la violenza è sempre «inaudita» o «efferata» –, è chiaro che per sostenere simili paragoni servono anche dosi massicce de «L’arte di ottenere ragione» di Schopenhauer. O qualcosa del genere. Ma certo è che il lungo scritto in cui Di Battista, nel ricostruire a modo suo (cioè con parecchie imprecisioni) le vicende mediorientali, chiedeva di «intavolare una discussione» coi terroristi e eleggeva lo Stato islamico ad interlocutore, più che un contributo all’analisi storico-politica era un manifesto dell’antiamericanismo, cioè un pezzo di (alta o bassa: fate voi) retorica politica.

Già. Sistemati italiano e storia (e giardinaggio e chimica e archeologia) bisognerebbe pur sempre saperne di più di politica. Da dove cominciare? Dalla «Politica» di Aristotele o dal «Leviatano» di Hobbes? Perché non c’è cultura senza classici, ma i classici purtroppo sono tanti. E poi c’è la filosofia politica, la scienza politica, la storia delle dottrine politiche, la sociologia politica: insomma, una faticaccia. Che fare? Forse ci si può limitare ai pensatori del Novecento – a Bobbio e Habermas, a Dahl e Rawls –, così ci si tiene in una zona medio-alta, e ci si accultura senza troppi rischi.

E il cinema, e tutta l’arte del ventesimo secolo, e la letteratura e il diritto e le scienze sociali? Non finiranno schiacciati, i nostri due eroi, da Dante e Shakespeare, da Manzoni e Thomas Mann? Stiamo esagerando. Per fortuna la politica – la politica democratica – non è affatto riservata solo ai laureati con lode (per quanto, qualche esame in più…). Ma infatti il problema non è la mancanza di cultura: è la mezza cultura, e quel misto di supponenza e faciloneria, di grande saccenteria e piccola bestialità, che a volte si fa persino aggressiva, per nascondere i vuoti – di pensiero, più che di erudizione – che ci sono dietro.

(Il Mattino, 15 settembre 2016)

I grillini nudi, senza il totem dell’onestà

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La riservatezza, l’ipocrisia, il compromesso. Da un lato. E dall’altro l’ambizione, il potere, la forza. Ora, si provi a far politica eliminando tutto questo: rinunciando alle ambizioni degli uomini, all’uso (legittimo) della forza, alla gestione del potere. Ma anche alla necessaria riservatezza che protegge ogni forma di accordo o di mediazione, all’ipocrisia spesso necessaria per cucire i rapporti, salvare le apparenze, lavorare in squadra. E infine ai compromessi su principi o valori chiamati a confrontarsi con la realtà sempre prosaica del mondo. I Cinquestelle hanno pensato forse che fosse possibile qualcosa del genere, qualcosa che ovviamente ha i contorni ideali della purezza, dell’onestà, della sincerità ma che purtroppo non ha, non riesce ad avere la forma della politica.

Ora succede che la sindaca Virginia Raggi ha mentito, o forse ha solo omesso di dire (distinzione ipocrita quant’altre mai), che l’assessore Muraro ha taciuto, poi ammesso a bassissima voce (altra ipocrisia), quindi smentito o precisato o corretto. Succede che uno, Di Maio, diserta l’appuntamento televisivo, e l’altro, Di Battista, diserta la manifestazione pubblica. Succede infine che il Movimento che aveva fatto della trasparenza, dello streaming, della partecipazione online una bandiera, di colpoammutolisca: Grillo non dice nulla (al più lascia filtrare: ipocrita), Davide Casaleggio è inavvicinabile, e nulla compare sui blog e le bacheche dei leader del movimento.

Una punizione, una forma di contrappasso che neanche Dante Alighieri avrebbe saputo immaginare così dura, rapida e perfetta. Il fatto è che, privatisi di strumenti essenziali alla vita politica, rimasti solo con il grido: “Onestà! Onestà!” strozzato in gola, i grillini non sanno come venirne fuori. Che vuol dire, ben al di là della crisi in corso, come salvare un’ideologia totalmente impolitica ed esercitare insieme la responsabilità politica, che i romani hanno pur sempre conferito loro alle elezioniamministrative, cartina di tornasole di ogni futura prova di governo.

Le due cose non stanno insieme, e non perché la politica è inguaribilmente corrotta, marcia, irredimibile. Al contrario: proprio l’aver pensato che la politica fosse inguaribilmente corrotta marcia e irredimibile li ha costretti a rifiutarne completamente la forma. In termini psicanalitici, si direbbe che i grillini hanno qualche problema con il principio di realtà. Di qui i narcisismi e, ora, gli isterismi.

Parliamoci chiaro, infatti: quello che è successo a Roma è nulla, o quasi. E invece rischia di affossare tutto, e di sommergere tutto: un assessore, una giunta, un Movimento. C’è un nuovo assessore al bilancio scelto dalla sindaca sentendo non organi di partito (esistono?) mauna persona amica, di cui si fida. E c’è un’indagine in corso a carico di un altro assessore, indagine che è solo agli inizi, di cui si sa molto poco, e che peraltro interessa una materia assai controversa, in cui si mescolano interessi e lotte di potere. Quisquilie. Pinzillacchere. In qualunque parte del mondo, un sindaco e il suo partito saprebbero come attutire l’impatto di queste piccole grane, e troverebbero il modo di affrontare politicamente anche i contrasti interni al Movimento (“raggio magico”contro mini-direttorio romano). Invece per i Cinquestelle diventano due patate bollenti impossibili da maneggiare. Se ora uno domandasse per esempio, a un cittadino della Capitale: “vuoi la soluzione dei problemi finanziari della città e del problema dei rifiuti, anche se il costo èqualche compromesso con i poteri reali, maniere un po’ più spicce e la testa di questo o quell’esponente politico?”, non vi è dubbio che la risposta sarebbe: “fate pure le vostre lotte, ma datemi una città risanata”. Ma il guaio è che i grillini non sono in condizione di porre quella domanda né esplicitamente né implicitamente (e ovviamente si dovrà vedere – se si potrà vedere – cosa sapranno fare), cioè non sono in condizione di fare politica. Continuano a pensare che basti l’onestà, e sono anche disponibili a considerare indispensabile la competenza, per cui si sforzano di trovare ed esibire come uno scalpo le competenze tecniche conquistate alla causa (vedi il ricorso ai magistrati), ma non sono disponibili a confessare, anzitutto a se stessi, che in politica è in gioco ben altro. Non sanno, non vogliono sapere, che la politica è una di quelle dimensioni che sul cammino della civiltà gli uomini hanno costruito per spostare su mete socialmente condivise una certa quota di aggressività primaria, ineliminabile ma per fortuna regolabile. A condizione ovviamente, di riconoscerla, invece di negarla come struzzi.

Si chiama sublimazione. E in certo modo un meccanismo simile c’è persino nella Bibbia, se è vero che la colpa di Adamo fu felice, perché diede origine alla storia della salvezza. Vale a dire: qualcosa di non propriamente commendevole è potuta servire a maggior gloria di Dio. Ma i Cinquestelle sono oltre la Bibbia: non accettano nulla che sia meno che commendevole,  tracciano una linea che impedisce loro di pareggiare, compensare o mediare. E alla fine impedirà anche di agire politicamente.

(Il Mattino, 7 settembre 2016)

Il pizza-marketing dei Cinquestelle

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«Il parlamentare che ti serve» serve la pizza: d’altronde, a che altro serve? Ieri sera, in due note pizzerie napoletane, sul Lungomare cittadino, la campagna elettorale di Valeria Ciarambino, candidata del Movimento Cinque Stelle alla guida della Regione Campania, era coadiuvata ai tavoli dal vicepresidente della Camera dei Deputati, Luigi Di Maio, da Alessandro Di Battista e altri pentastellati. Cena di finanziamento, campagna elettorale: la politica si fa vicina ai cittadini e porge volentieri una Margherita e una Bianca al prosciutto in fondo alla sala. In effetti: s’è mai visto un vicepresidente della Camera alle prese non con gli emendamenti ma con i condimenti, non con gli ordini del giorno ma con la comanda del giorno? Non è la prova definitiva che questi parlamentari sono veramente di un’altra pasta, e questa pasta è la pasta della pizza?

Prima però di pagare il conto agli improvvisati pizzaioli di una sera, facciamoli bene pure noi, due conti. Il Movimento Cinque Stelle ha conseguito un successo elettorale straordinario non più tardi di due anni fa, superiore ad ogni più rosea aspettativa. Ma in due anni la sua presenza sui temi politici rilevanti si è dimostrata quasi inconsistente. Lo stesso dicasi in Campania, dove i grillini dicono qualcosa sui rifiuti, chiedono di far largo ai giovani, fanno il miracolo di finanziare di tutto e di più tagliando gli sprechi e i costi della politica, e declinano sul piano regionale la proposta che ripetono come un mantra  del reddito di cittadinanza. E basta. Al resto deve forse pensare la pizza servita ai tavoli. O piuttosto: i grillini continuano a scommettere sul fatto che al resto ci pensano gli altri, che la politica campana e nazionale è messa così male, che basta un’operazione simpatia, un viaggio in treno in seconda classe e un giro fra i tavoli di una pizzeria per riscuotere il giusto consenso. Che ovviamente è consenso vero, consenso genuino, quello onesto sincero e spontaneo che meritano i loro candidati, mentre quello degli altri è sempre sospettato di essere finto, truccato, comprato, corrotto. Così Renzi e Berlusconi sono venditori di fumo, mentre la loro pizza di ieri sera non aveva nemmeno il cornicione bruciacchiato.

In realtà, la pizza sul Lungomare è puro marketing elettorale. Una trovata, non diversa da uno slogan ben pensato, o da un manifesto dai colori indovinati. Com’è giusto che sia, peraltro: hai tolto il finanziamento pubblico, e te ne fai un vanto, non vuoi allora inventarti almeno qualche iniziativa di raccolta fondi? Ben vengano quindi la pizza e, la prossima volta, due spaghetti o una frittura di pesce. Ma da un movimento politico che nel 2013 ha preso più di otto milioni e mezzo di voti – primo partito d’Italia, non primo partito in pizzeria –, da una forza che nel solo collegio di Napoli ha eletto cinque deputati, e che ha suoi uomini in posizioni apicali nelle istituzioni, ti aspetti forse non il manifesto del ventunesimo secolo, ma almeno una capacità di elaborazione, un insieme di proposte che siano un po’ meglio articolate della scelta (difficile, in verità) fra una pizza con o senza acciughe. Che Italia e che Campania sarebbero, quelle che i grillini ci servirebbero? Sicuramente un’Italia più onesta, una Campania più onesta, diranno loro, e non facciamo fatica a credergli. I corrotti tutti in carcere, i camorristi tutti in carcere, i ladri tutti in carcere.  Come non si sa, ma andrà sicuramente così: ce lo auguriamo con tutto il cuore, anche perché è l’unica cosa che si capisce con chiarezza dalle dichiarazioni di intenti del movimento. Ma per tutti gli altri, per quelli che restano fuori dal carcere, e si spera siano in tanti, che si farà: andranno tutti la sera in pizzeria?

(Il Mattino – ed. Napoli, 28 aprile 2015)