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La politica debole e le Procure forti

Serra 1984

R. Serra, Malmo Roll (1984)

«La mia esperienza mi dice che quei reati sono difficili da provare»: parola di Antonio Di Pietro. Parola non di oggi, ma del gennaio 2008. Clementa Mastella, ministro della Giustizia del secondo governo Prodi, ha ricevuto un avviso di garanzia per concussione: è accusato di aver esercitato pressioni indebite su Antonio Bassolino, a proposito della nomina di un commissario nella sanità campana. Di Pietro, allora ministro pure lui, vede giusto, ma la sentenza di assoluzione in primo grado è arrivata solo qualche giorno fa: la bellezza di nove anni e mezzo dopo. «Non riesco a immaginare Sandra Mastella che minaccia, concute e fa morire di paura Bassolino», diceva Di Pietro. Lui non ci riusciva, ma i magistrati invece sì, perché Sandra Mastella finisce agli arresti domiciliari, e tutto il partito di Mastella, l’Udeur, viene travolto dallo scandalo. Non rinascerà più. Così come non rinascerà più l’esperienza politica dell’Unione, la maggioranza che portò Prodi a Palazzo Chigi per la seconda volta.

Ma l’intervista di Di Pietro a Repubblica merita di essere citata ancora. Di Pietro non interveniva per esprimere solidarietà a Mastella, ma per prendere le distanze dalle critiche ai magistrati che si era permesso di formulare. Lui, i suoi compagni di partito, tutto il Parlamento che lo aveva applaudito con uno «scrosciante battimano bipartisan». Non si fa. È un atto di eversione democratica. E lo è anche se è perfettamente chiaro, a Di Pietro per primo, che tutto finirà in un nulla di fatto. I magistrati – lo dice lui stesso – hanno «scoperto l’acqua calda», cioè come si fa politica al Sud. E come volete che si faccia? Con logica clientelare e spartitoria, spiega l’ex pm molisano. L’obiettivo diventa allora azionare la legge penale per sradicare questa maniera di fare politica. L’ex-magistrato, il simbolo di Mani Pulite, lo dice a chiarissime lettere: «La difficoltà di individuare un reato per contestare comportamenti lottizzatori e clientelari esiste». Quel che non dice, è perché, in base a quale idea e civiltà del diritto, comportamenti lottizzatori e clientelari debbano essere trasformati ipso facto in reati, piuttosto che essere sanzionati democraticamente alle elezioni. Che qualcosa non quadra è chiaro però pure a lui, visto che aggiunge: «non è affatto detto che tutto debba essere risolto per via giudiziaria».

Non è detto, però viene fatto: le notizie di questi giorni lo dimostrano. Caso Cpl-Concordia. 2015. L’inchiesta riguarda la metanizzazione dell’agro aversano e di Ischia. Il governo in carica è quello di Matteo Renzi. Cosa c’entra Renzi con il gas metano? Fa per caso le vacanze ad Ischia? Non risulta. Ma finisce intercettato lo stesso. Una soffiata – non si sa bene se pilotata o no – spinge infatti gli spaventati dirigenti della cooperativa a cercare di capire perché sono finiti sotto inchiesta. Si rivolgono a un generale. Il generale, per gli inquirenti, è Michele Adinolfi. Vengono disposte le intercettazioni. Il generale parla con Renzi, e le conversazioni finiscono sui giornali, scatenando un putiferio. Del versante giudiziario si son perse le tracce: nessuno sviluppo processuale, nessuna incriminazione per il generale Adinolfi, nessuna rilevanza penale delle parole riportate su tutti i quotidiani nazionali. Ma l’effetto mediatico c’è tutto. Non cade nessun governo, quella volta, ma ora vien fatto di pensare che ciò è dipeso solo dal fatto che il capo della Procura di Modena, Lucia Musti, a cui è trasmessa parte dell’indagine napoletana guidata da John Henry Woodcock, decide di non far esplodere «la bomba» che gli consegnano i carabinieri del Noe, il capitano Scafarto e il suo superiore, Sergio Di Caprio. Per loro, infatti, a Renzi si può arrivare. Loro sì che riescono a immaginarlo, e anzi quasi lo suggeriscono al magistrato. Che nel luglio scorso (due anni dopo), sentita dal Csm presso il quale è aperta un’istruttoria nei confronti di Woodcock, usa parole di fuoco: per gli spregiudicati ufficiali del Noe, e per il Pm chi ne coordina il lavoro: una «informativa terribile, dove si butta dentro qualunque cosa, che poi si manda in tutta Italia.  La colpa è anche di noi magistrati, perché siamo noi a dover dire che le informative non si fanno così». Non si dovrebbero fare, ma intanto si continuano a fare.

Altra inchiesta, e stessa disinvoltura. Spinta anzi fino a un’incredibile spudoratezza. Il caso Consip è un caso di corruzione, che parte da Napoli ma anche in questo caso arriva fino a Roma, fino a Renzi. Anche in questo caso ci sono di mezzo intercettazioni e fughe di notizie. Anche in questo caso a muoversi sono gli uomini del Noe. E in prima fila c’è, su incarico del pm Woodcock, il fidatissimo capitano Scafarto, lo stesso che ha confezionato l’informativa-«bomba» recapitata a Modena. Questa volta la confezione è ancora più esplosiva. Perché la trascrizione delle intercettazioni contiene manipolazioni, che consentono di mettere sotto tiro Tiziano Renzi, e sono arricchite di un capitolo, totalmente infondato, su presunte attività di pedinamento e controspionaggio dei servizi segreti a danno degli investigatori. Se si guarda più da vicino l’intrico imbastito in quelle carte, e il modo in cui han preso a circolare, si trovano elementi in tutto analoghi a quelli del caso Cpl-Concordia. Non solo i protagonisti – a cominciare dal duo Scafarto-Woodcock – ma pure il modus operandi. Al centro del quale ogni volta compaiono fughe di notizie che mettono in allarme le persone coinvolte, fughe che più che danneggiare il lavoro della Procura, sembrano alimentarlo. Sembrano, in poche parole, consentire di estenderne il raggio e di arrivare sempre più su: dal Cardarelli alla centrale di acquisti Consip; dalla centrale di acquisti Consip a Palazzo Chigi – dove investono il fedelissimo del premier Renzi, Luca Lotti, accusato di aver informato i vertici Consip delle intercettazioni ambientali in corso – e a Rignano sull’Arno, dove sulla graticola finisce il padre dell’ex premier. Tutto questo accade prima, ovviamente, che si sappia che la madre di tutte le frasi, quella che avrebbe dovuto inguaiare Tiziano Renzi, era in realtà stata pronunciata non dall’imprenditore napoletano arrestato, Romeo, ma dal suo consulente Italo Bocchino. La cosa prende tutt’altro senso.

Svista? Fretta? Negligenza? Leggerezza? Può darsi. Ma com’è possibile che si proceda con fretta, negligenza o leggerezza in un’indagine che lambisce i massimi vertici istituzionali, che rischia di portare sotto processo il padre del Presidente del Consiglio in carica, e che riguarda appalti di importi miliardari? Quante volte bisognerebbe ricontrollare una frase, prima di metterla a verbale rischiando di provocare un terremoto politico?

Il premier tiene duro, e il governo non cade per mano della Procura. Ma la botta è forte. Questa volta però non ci sono battimani in Parlamento a difesa del premier. La strategia scelta dal partito democratico è quella di abbassare la temperatura dello scontro fra politica e giustizia. Renzi rimane in sella, ma quale sarà il bilancio? La legge sulla responsabilità civile dei giudici? La riduzione dei giorni di ferie dei magistrati? Bilancio piuttosto magro, visto che né l’ordinamento giudiziario è stato in sostanza toccato, né si sono fatti passi avanti sui due punti di maggiore sofferenza: da un lato la disciplina delle intercettazioni, su cui il Ministro della Giustizia ha oggi in mano una delega che difficilmente riuscirà ad attuare; dall’altro la prescrizione, che anzi, per non vanificare il lavoro delle Procure, è stata allungata per i reati contro la pubblica amministrazione, pazienza se un imputato rischia di rimanere sotto processo per corruzione per vent’anni.

In compenso, sono state introdotte nuove figure di reato, come il traffico illecito di influenze, che aumentano l’area di indeterminatezza dell’azione penale, o introdotte modifiche al codice antimafia, sempre in materia di corruzione, che ampliano anziché ridurre l’area dell’intervento cautelare.

Ma forse una riflessione più generale andrebbe fatta sui vagiti di riforma della giustizia spesso soffocati in culla. Appena insediatosi, Renzi aveva annunciato di voler cambiare le regole del Csm. Di quella riforma non c’è traccia. L’impressione è che una politica debole, che si sente vulnerabile alle inchieste delle Procure – ai loro riflessi mediatici, e alla loro durata intollerabilmente lunga – preferisca abbozzare, non svegliare il can che dorme, non attaccare per non essere attaccata. Invece di una riforma, dunque, una tregua. Anche se poi c’è sempre qualche procura che non la rispetta e riapre le ostilità. Così succede che la politica rinunci a riformare la giustizia, mentre la giustizia non rinuncia affatto a riformare la politica. Con i mezzi penali che ha a disposizione, cioè per la via di una criminalizzazione che dovrebbe aprire la via alla grande bonifica morale, e, solo dopo, al lavacro purificatore delle elezioni. Già, perché fra poco si vota: chissà che clima ci sarà, allora.

(Il Mattino e Il Messaggero, 17 settembre 2017)

Le responsabilità e le ipocrisie della sinistra

Ebzo-Cucchi

E. Cucchi, Paesaggio Barbaro (1983)

Un fatto di una gravità istituzionale enorme, secondo il ministro Franceschini. Di una gravità inaudita, secondo il presidente dei senatori Zanda. Ed è difficile dar loro torto. A loro, come agli altri esponenti del partito democratico che hanno preso la parola in queste ore, per denunciare fatti e comportamenti ai limiti dell’eversione, dopo che sono stati diffusi i contenuti delle dichiarazioni rese al Csm dalla procuratrice di Modena Lucia Musti. La quale avrebbe avuto tra le mani, consegnatale dal capitano del Noe Scafarto e dal suo superiore, Sergio De Caprio (il comandante Ultimo), la bomba per far saltare in aria il premier Matteo Renzi, la bomba essendo l’inchiesta napoletana, trasferita per competenza nella città emiliana.
Spregiudicatezza e delirio di onnipotenza dimostravano secondo il magistrato i due ufficiali, nello spingere il capo della Procura modenese a proseguire le indagini sul caso Cpl-Concordia avviate a Napoli. Di quel caso, in realtà, nulla è arrivato a processo. E quanto alla vicenda Consip, che ha avuto gli stessi protagonisti, quel che sappiamo allo stato è che a Matteo Renzi si arrivava, attraverso il padre, manipolando le intercettazioni e inventandosi di sana pianta interventi dei servizi segreti.
Un verminaio, di cui non si vede la fine. Ma di cui si è visto l’inizio solo per l’iniziativa di un’altra Procura, quella di Roma, che ha tolto le indagini al Noe e che – notizia di queste ore – indaga per falso il pm napoletano che al Noe aveva affidato l’inchiesta, John Woodcock, già sotto esame disciplinare al Csm.
E la politica? La politica arriva tardi e con una enorme dose di ipocrisia. Perché le ombre che si allungano sulle istituzioni democratiche vengono da lontano, vengono da un uso distorto della giustizia che si trascina dai tempi di Mani Pulite – ora lo dice persino Di Pietro! –, vengono da una cultura emergenzialista che in nome della lotta alla corruzione consegna una libertà d’azione sempre più ampia e indeterminata ai pubblici ministeri, vengono da uno squilibrio sempre più accentuato fra accusa e difesa, vengono da un’opinione pubblica cresciuta a pane e avvisi di garanzia.
Al partito democratico andrebbe chiesto in queste ore: e l’altro giorno? L’assoluzione di Clemente Mastella, l’altro giorno, non dovrebbe far dire le stesse cose che si dicono oggi, con le rivelazioni del magistrato Musti? Non cadde un governo allora, con le dimissioni del Guardasigilli? Come si fa a non giudicare anche quel fatto di una gravità istituzionale enorme? Lì c’è ormai un’assoluzione, la quale dice chiaro e tondo che i magistrati, presi da furia moralizzatrice, avevano provato a criminalizzare una trattativa politica, a trasformare un fatto politico in un fatto penale. E dunque: come si fa a non vedere che uno schema si ripete, che più delle finalità perseguite allora, come di quelle perseguite ora, quel che deve preoccupare è l’incrinatura profondissima dei rapporti tra i poteri dello Stato, per cui la politica può essere tenuta sotto scacco, e un governo può cadere e un altro essere aggredito da un’inchiesta farcita di manipolazioni quasi senza colpo ferire, se è vero che quel che veniamo a sapere oggi è rimasto per mesi e mesi sottaciuto (anche da Modena, dove la presunta bomba è stata consegnata la bellezza di un anno fa), finché un’altra Procura non si è mossa. Un conflitto tra Procure, in cui la politica è vaso di coccio fra vasi di ferro.
L’ipocrisia sta però in ciò, che senza una riconsiderazione vera delle politiche della giustizia promosse in tutti questi anni, non serve a nulla mandare alti lai solo quando salta fuori quel che si cucina in certi uffici. La vera domanda non è chi c’è dietro, chi ordisce il complotto o chi tira le fila, ma chi ha messo a disposizione la cucina.
Gli storici faranno la storia, risalendo indietro fino a Tangentopoli; intanto, però, facciamo la cronaca. Non più tardi di due mesi fa, il Pd ha approvato modifiche al codice antimafia che estendono le misure cautelari anche ai corrotti. Più ampio, non più limitato, è ora l’intervento della giustizia prima di un qualunque giudicato. Una logica di carattere emergenziale, introdotta in via eccezionale per far fronte ai fenomeni di criminalità organizzata, diviene abituale, ordinaria, e viene estesa anche ad altre fattispecie. Il verso di questi provvedimenti rimane dunque lo stesso: non una cultura delle garanzie e dei diritti, ma il suo preciso opposto. Certo: in nome della lotta alla corruzione, in nome dell’efficacia nel contrasto al crimine, cioè per le migliori intenzioni e in vista dei più alti fini. Ma quelle intenzioni e quei fini sono gli stessi che avranno avuto il capitano Scafarto e il comandante Ultimo nel recarsi a Modena. La spregiudicatezza e il delirio di onnipotenza che la dottoressa Musti dice oggi di aver avvertito nei loro comportamenti è la spregiudicatezza di una consolidata maniera di fare le cose, di inquisire e di indagare, non solo la bizzarria di due individui isolati, schegge impazzite di un sistema che ha i suoi anticorpi.
E no, gli anticorpi non ci sono o non sono più sufficienti. Perché sventare un complotto – se di complotto si tratta –, beh: quello è compito di un’altra procura, ed è quello che sta facendo Roma. Ma riformare la giustizia, ricondurre nel suo letto l’azione inquirente che ormai tracima da tutte le parti: quello è compito della politica. Che non lo ha fatto e non lo sta facendo. E la sinistra, che ha grandi responsabilità nell’aver rotto gli argini al fiume sempre più limaccioso delle indagini, cavalcando per decenni l’ansia giustizialista dell’opinione pubblica, non ha che da battersi il petto e fare mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.

(Il Mattino, 16 settembre 2017)