Pensavamo che il caso Tortora fosse ormai chiuso: su responsabilità o colpe, omissioni o negligenze si può discutere , ma non sul fatto che si trattò di errore giudiziario. Più o meno clamoroso, più o meno grave, più o meno inammissibile, ma errore fu. E invece no. Invece Lucio Di Pietro, uno degli accusatori di allora, ha pensato bene di riaprirlo. Intervistato da questo giornale, il sostituto procuratore che, insieme a Felice Di Persia, mise le manette a Enzo Tortora, ha spiegato che non si trattò affatto di un errore, se per errore si intende una cantonata, un passo falso, uno sbaglio. Frutto anche solo di distrazione, di disattenzione, di sciatteria. Nulla del genere, nulla di tutto questo: «con gli elementi a nostra disposizione, non potevamo fare altrimenti», dice oggi sicuro e tetragono Di Pietro, e prosegue sciorinando i meriti di un’istruttoria che si concluse con la bellezza di 434 condanne definitive. Non solo: «molti degli assolti furono poi uccisi», il che probabilmente significa per lui che vanno considerati senz’altro colpevoli anche loro. Infine, l’istruttoria, e quel che ne seguì, ebbe pure il non piccolo merito di consentire alla giustizia italiana di familiarizzare con i nuovi strumenti introdotti per fronteggiare il crimine organizzato: la gestione dei pentiti, la contestazione del 416 bis sull’associazione mafiosa. Se non ci fossero di mezzo degli innocenti sbattuti in galera, quasi si dovrebbe dire: chapeau!
Nell’intervista, al riguardo, non c’è altro: non una parola sui molti che furono assolti, e che non usarono agli inquirenti la cortesia di confermare l’impianto accusatorio facendosi in seguito ammazzare. Non un dubbio sul «concorso a premi» per i pentiti – così lo definì lucidamente Tortora: chi fa il nome del presentatore famoso porta a casa sconti di pena e trattamenti di riguardo, e a farlo furono addirittura in quindici, spalleggiandosi l’un l’altro –. Nessuna considerazione, neanche di circostanza, per la famiglia di Tortora, o per le figlie. Nessuna parola di stima o di rispetto, neanche postuma, per l’uomo la cui vita fu distrutta da quell’indagine. E nessuna parola di scusa: d’altra parte, chi mai chiederebbe scusa per un errore che non ha commesso? Infine, nessuna considerazione di diritto, che getti sul lavoro condotto allora in Procura una luce diversa dai numeri. I quali numeri, poi, il dottor Di Pietro non ricorda interamente: le condanne furono 434, ma gli ordini di cattura furono la bellezza di 856 (e gli errori di persona qualche centinaio). Numeri da copertina, numeri da prima pagina. Che però, all’esito del processo, dicono: per ogni condanna un’assoluzione, o quasi; per ogni colpevole un non colpevole. Certo, Di Pietro chiede che si faccia la tara dei morti ammazzati. E di nuovo: il diritto evidentemente non c’entra e non gli interessa, il metodo e il merito del procedimento e delle contestazioni elevate non rilevano, la sentenza di colpevolezza è semplicemente fatta uguale all’ammazzamento.
È da credere, comunque, che per tutti loro, per tutti quelli che furono scarcerati, Lucio Di Pietro pensa ancora oggi che non c’era da far altro che privarli della libertà: gli elementi a disposizione c’erano tutti, e l’arresto era obbligatorio. Forse il magistrato non si rende conto che, per assolvere se stesso, firma in questo modo il più duro atto d’accusa nei confronti della giustizia italiana: che giustizia è infatti una giustizia che per acchiappare un colpevole deve obbligatoriamente arrestare almeno un innocente? Quale anima nobile, lette queste valutazioni, può ancora pensare che è segno di civiltà giuridica che mille colpevoli stiano fuori purché un innocente non finisca dentro? Chi oserà sostenere ancora che il diritto non dovrebbe recare traccia di quella logica del capro espiatorio dal cui fondo ancestrale pretende con fatica di staccarsi? La politica può forse – con molte prudenze, in circostanze particolari, e con un senso tragico delle proprie responsabilità – piegare alle proprie più dure ragioni i diritti dei singoli. Per farlo, l’esistenza stessa di un ordinamento reale, la sicurezza di un popolo o la vita dello Stato deve essere in gioco. Ma nessuna considerazione realistica, o strumentale, o meramente quantitativa come quella che porta Di Pietro nell’intervista può invece intervenire in tribunale, pesare su un atto giudiziario, gravare su una sentenza. È perciò un vero e proprio obbrobrio dire che per sgominare la Nuova Camorra Organizzata di Cutolo bisognava che Tortora e gli altri ci andassero di mezzo. Eppure il magistrato, a distanza di trenta e passa anni da quei fatti ragiona ancora così. Tortora doveva andare in carcere, non poteva non andarci. E ovviamente Lucio Di Pietro non subire il minimo contraccolpo professionale, anzi: fare carriera. Chi dei due sia andato in verità verso una miglior sorte, solo un dio può saperlo. Così almeno disse un filosofo greco dinanzi a dei giudici, tanto tempo fa. Era Socrate, e credeva nella giustizia molto più dei suoi giudici, e dei suoi accusatori.
(Il Mattino, 31 dicembre 2015)