Archivi tag: dimissioni

La Rai irriformabile specchio del Paese

 

scivolone-cavallo-rai

Per dove passa l’innovazione, in Rai? Per il momento, da nessuna parte. Le dimissioni di Carlo Verdelli, dopo la bocciatura del suo piano editoriale, ripropongono tuttavia la domanda che, puntuale, si affaccia ad ogni cambio di stagione. In realtà, le cose non erano andate sin qui tutte lisce. Verdelli avrebbe dovuto presentare il piano già questa estate. Francesco Merlo, chiamato come consulente, si era dimesso, senza essere mai riuscito a trovare lo specifico televisivo di cui, a suo dire, si favoleggia soltanto. La bozza di Verdelli era stata criticata, fra l’altro, per mancanza di previsioni dal lato dei costi. E soprattutto il modo in cui il direttore editoriale delle news si era mosso – in un’autonomia che poco a poco era divenuta isolamento – non aveva certo creato un’aspettativa favorevole, dentro il corpaccione della Rai. Le avvisaglie, insomma, c’erano tutte. La materia dell’informazione pubblica rimane d’altronde una materia assai sensibile, anche senza le alzate di ingegno di Beppe Grillo sui media, i telegiornali, le verità e le post-verità.
Comunque, c’entri o no il clima politico determinatosi nel Paese dopo il referendum costituzionale, e a seguito delle dimissioni di Renzi; c’entri o no la più grande debolezza del direttore generale Campo Dall’Orto, quello che aveva chiamato Verdelli nel novembre del 2015, il piano non ha avuto luce verde e Verdelli ne ha tratto bruscamente le conseguenze, senza accogliere l’invito dei consiglieri d’amministrazione di considerare il documento solo un punto di partenza. I retroscenisti cercano ora di capire chi ha sferrato le pugnalate e perché, ma le ricostruzioni più o meno attendibili che si sono lette in queste ore – i consiglieri che storcono il naso, la presidente Maggioni che non muove un dito, il sindacato dei giornalisti che si frega le mani, tutti che, a delitto avvenuto, si voltano dall’altra parte – non toccano la sostanza del problema, cioè come cambiare l’informazione in Rai. Perché sul fatto che è da cambiare non ci piove. Ma i cambiamenti, soprattutto dal lato organizzativo, non sono facili, e si vede.
Verdelli aveva messo nero su bianco alcune cose. Innanzitutto, l’esigenza di superare la divisione delle reti Rai per aree politiche d’appartenenza, ricercando più strettamente la sinergia fra Reti e testate giornalistiche, al fine di individuare specifici e distinti target di pubblico per ciascun tg, sia in relazione al canale che alla fascia oraria di trasmissione. In secondo luogo, la necessità di redistribuire gli organici giornalistici, formati nel tempo sulla base di equilibri politici e aziendali, piuttosto che in virtù delle funzioni produttive assolte. La Rai ha 21 redazioni regionali, in cui siedono circa 800 giornalisti (su un totale di oltre 1700 giornalisti in forza all’azienda, con un’età media superiore ai cinquant’anni). Il piano prevedeva il trasferimento del Tg2 a Milano, una riorganizzazione su base macroregionale in cinque aree, l’integrazione  tra il canale “all news” e i tg regionali, la nascita di un “Tg Sud” affidato al centro di produzione della Rai di Napoli. Una rivoluzione, insomma.
Non mancavano poi, a quel che se n’è letto, osservazioni sul ritmo dei telegiornali, sugli stili di conduzione, sul linguaggio, sui materiali e sui servizi, sulle interazioni con il pubblico, sull’uso dei trend topics della Rete, persino sulle sigle: su tutto insomma quello che c’è o ci sarebbe da fare per svecchiare l’informazione Rai.
Ora, dopo le dimissioni, la Rai deve inventarsi rapidamente qualcosa, per non restare un’altra volta al palo. Questo piano naufraga, infatti, dopo che già il precedente, a cui aveva lavorato Luigi Gubitosi, era finito nel cassetto. Il dubbio che la Rai proprio non ce la faccia a fare la rivoluzione nell’informazione finora solo annunciata è forte. Quella di Verdelli era di certo una cura drastica, forse persino troppo drastica e per alcuni semplicemente irrealizzabile. Ma partiva da un’ambizione legittima: quella di dare un’anima all’informazione Rai, di legarla alla necessità di imbastire un racconto nuovo dell’Italia, di recuperare da Milano un timbro laico e moderno, di rifare da Napoli la narrazione meridionale e meridionalista del nostro Paese. E di rifarla, scuotendo il mondo sonnacchioso delle testate regionali, dando un senso al canale “all news”, recuperando condizioni di operatività in linea con le funzioni complessive dell’azienda.
Era tutto troppo astratto, campato in aria? Era sbagliato l’approccio? Erano saltate le necessarie mediazioni? Può darsi. Di sicuro, qualcuno ha pensato che dopo aver «deportato» i docenti nelle scuole italiane non si potevano «deportare» pure i giornalisti. Forse si è trattato dell’ennnesimo caso di un riformismo calato dall’alto, non capito o forse non spiegato, e perciò andato incontro all’inevitabile insuccesso. Ma il rischio che anche questa bocciatura prenda il sapore di una restaurazione esiste. L’Italia sembra essere andata a sbattere contro un iceberg: a bordo c’è chi si impegna in manovre di correzioni e complicate variazioni di rotta, ma il rischio che invece si finisca tutti a picco purtroppo esiste.

(Il Mattino, 5 gennaio 2017)

Il disastro è finito, ma il futuro è un’incognita

37479-AMBRA-DEFLe dimissioni di Ignazio Marino mettono la parola fine ad una vicenda che sfiorava ormai i limiti del grottesco, o meglio: li superava abbondantemente. Dopo la Panda in zone a traffico limitato, i viaggi negli States nei momenti e per le ragioni meno indicate, la resa dei conti per Marino è arrivata con gli scontrini, la vera cifra derisoria di questa seconda Repubblica: inezie, a confronto di qualunque altro episodio di malaffare che sia finito in questi mesi sui giornali, ma inezie gestite nel peggiore dei modi possibili. Che si tratti comunque di un disastro politico è fuor di dubbio, e per il partito democratico sarà dura circoscriverlo nei termini di una vicenda personale, che coinvolga solo ed esclusivamente la persona del sindaco. Il risultato, in ogni caso, è diverso da quello che si immaginava anche solo poche settimane fa: ad andare al voto, nella primavera del prossimo anno, saranno le tre principali città italiane, Roma, Milano, Napoli (insieme ad altri capoluoghi minori). Il turno amministrativo si colorerà così, inevitabilmente, di un significato politico. Con una complicazione fino a non molto tempo fa imprevista: in nessuna di queste città il Pd partirà con i favori del pronostico. E in nessuna ha già un candidato in pectore. La storia non si fa con i «se», ma formularne qualcuno può servire a vedere da quali spiagge il PD si è allontanato, senza avere  alcun porto sicuro in cui approdare.

E dunque: se Giuliano Pisapia, a Milano, avesse scelto di ricandidarsi, per la Lega e Forza Italia sarebbe oggi molto più dura;se, a Napoli, il PD avesse usato questi anni di opposizione a De Magistris per costruire un progetto politico chiaro, oggi non faticherebbe così tanto a trovare un candidato, e non dovrebbe tornare a Bassolino per essere competitivo; se, infine, a Roma, Marino non avesse dato una così straordinaria prova di dilettantismo, senza riuscire a portare risultati immediatamente tangibili sul piano dell’amministrazione, forse avrebbe potuto volgere in positivo la sua conclamata distanza dalla città. E invece: Pisapia non si ricandida, a Napoli non si sa a che santo votarsi, e pure a Roma, con le precipitose dimissioni di Marino, adesso si rischia di brutto.

Difficile capire come il PD si tirerà fuori da una simile situazione: di sicuro a Renzi non basterà starsene a Palazzo Chigi per non avvertire i contraccolpi del voto di primavera. Ma, su un altro piano, è impressionante constatare la distanza che separa questa stagione da quella dei primi anni Novanta, quando i sindaci costruirono non il fronte più problematico, bensì quello più avanzato del rinnovamento della politica nazionale. Oggi si torna a parlare di Bassolino, a Roma qualcuno fa il nome di Veltroni o di Rutelli, e a Milano questo non succede solo perché dopo i fasti socialisti la città non è mai andata al centrosinistra. In breve: trascorsi vent’anni, il valore che le esperienze municipali riescono ad assumere sembra essere di tutt’altro segno. A Napoli, una democrazia confusa, mescolata a istanze di partecipazione e a velleità antagoniste a volte generose, altre volte e più spessoinconcludenti, lontane da ipotesi concrete di rilancio della città. A Roma, una democrazia incapace, impotente, imbelle, con un unico vessillo in piedi, quello morale, prima che finisse nel ridicolo pure quello; a Milano la democrazia incompiuta, che mostra una certa stanchezza di sé e delle sue stesse ambizioni, quasi che la politica non fosse più il teatro sul quale valesse la pena misurarsi. Tutte e tre le esperienze specchio delle città che in esse esprimono: a Napoli, una borghesia storicamente impreparata ad assumersi un ruolo dirigente; a Roma, un involgarimento dei costumi civili contro cui è franato miseramente l’argine che l’amministrazione capitolina aveva creduto di poter costruire; a Milano una società civile che sembra sempre più attratta da dinamiche internazionali e globali, e sempre meno preoccupata della dimensione municipale e dei suoi riflessi possibili in sede nazionale. In tutti i casi, segnali di scollamento che non possono non preoccupare, e sui quali – siamo al dunque – le risposte possibili sono due: o il grillismo come epilogo conseguente di questa stagione di libera improvvisazione e drastico azzeramento della politica,oppure il suo riscatto, la sua rivalutazione, la sua ripresa, in termini non solo di progetto, ma anche di uomini, di forze e di competenze specifiche. Con risorse che, però, bisogna confessare amaramente, nelle file dei partiti ancora non si riescono a vedere.

(Il Mattino, 9 ottobre 2015)

L’addio che vale una domanda: che cos’è la fede?

Il significato di un gesto non si colloca mai soltanto nel campo delle intenzioni di chi lo compie. Ciò è tanto più vero, quanto più quel gesto è iscritto in una trama ampia di connessioni storiche, simboliche, istituzionali che lo trascendono, che lo sostengono ed a cui si sostiene. Per questo, tutte le analisi delle dimissioni annunciate da Benedetto XVI, le quali si soffermano sulle poche parole pronunciate in latino per congetture sul peso avuto dalle condizioni di salute, oppure sullo stato d’animo del Pontefice, o anche soltanto sulle circostanze più o meno contingenti che possono aver spinto l’uomo a compiere un gesto così clamoroso, possono tutte dare risalto al profilo psicologico oppure a più robuste dinamiche ecclesiali, e possono mantenere anche una doverosa forma di discrezione e rispetto per la figura di Joseph Ratzinger, ma riescono insufficienti, inadeguate per principio.

Di più: l’inadeguatezza è nelle cose stesse, poiché il significato del passo compiuto non sta in nulla di ciò che sia già accaduto, ma dipende in misura decisiva da quel che accadrà o potrà accadere. E non nelle prossime settimane, ma nei prossimi anni, nei decenni futuri. L’interpretazione di ogni gesto, e tanto più di un gesto così rilevante, è rimessa sempre al futuro. Per questo, non sono di particolare aiuto né i (rarissimi) precedenti storici, né i polverosi rimandi al diritto canonico: che la possibilità delle dimissioni sia perfettamente iscritta nella legge della Chiesa, infatti, non spiega nulla. E per la verità non sono sufficienti neppure le spiegazioni che cercano retroscena negli anni del Pontificato, oppure evidenziano difficoltà e resistenze incontrate dentro la Curia romana, o infine enfatizzano gli scandali, la «sporcizia della Chiesa». Non perché questi elementi non possono essere stati tenuti presenti, ma perché l’area di significato al quale appartiene il gesto di Benedetto XVI non è ancora tracciata: solo la storia (per i credenti: la Provvidenza) si preoccuperà di farlo. La storia, infatti, la fanno certamente gli uomini, come diceva Vico, ma con altrettanta certezza non sono semplicemente le loro intenzioni a farla (Vico sapeva anche questo).

Dove dunque guardare? Il gesto di Benedetto XVI, come ogni atto di portata storico-universale, si situa in un tempo del tutto particolare: non appartiene infatti al contesto presente, neppure ora che si sta compiendo sotto i nostri occhi; non è confitto in nessuna vicenda che si sia già consumata e con cui si possano già fare i conti. Appartiene invece a quella dimensione affatto particolare che è il futuro anteriore: è solo quel che «sarà stato», quando sarà riguardato dal futuro al quale appartiene, e in cui getta, con un inaudito carico di inquietudini, la storia stessa della Chiesa di Roma.

Non è, questo, solo un modo per lavarsene le mani, e rimandare al futuro lavoro degli storici la comprensione delle cause (e degli effetti, importanti almeno quanto le cause, e così difficili da determinare ora). Al contrario: è invece il modo per dargli il significato più teso di una domanda, rivolta alla Chiesa dal cuore stesso della Chiesa. Il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty diceva che il mondo, il mondo tutto intero e ogni ente nel mondo, esiste allo stato interrogativo. Joseph Ratzinger ha portato lo stato interrogativo nella vita della Chiesa. Che il Papa, che il Vicario di Cristo lasci la sede petrina, non può non significare che va di nuovo domandato, con inaudita radicalità, che cosa significhi essere cristiani oggi. E, domanda non meno conturbante, che cosa significhi esserlo nella Chiesa e per la Chiesa. Se il Papa ha giudicato che le sue forze non fossero più sufficienti a portare il peso del magistero papale, ciò non vuol forse dire che ogni cristiano, e la Chiesa intera, deve nuovamente domandarsi come portare quel peso, che cosa significa la presenza della Chiesa nel mondo, essere pellegrini nella storia, essere non al passo coi tempi ma segno dei tempi?

In una simile domanda c’è tutto il senso insieme teologico ed esistenziale dell’essere cristiani: non c’è dunque nulla di straordinariamente moderno, come provano a dire scioccamente quanti intendono l’istituto delle dimissioni sul piede delle consuetudini giuridiche degli Stati contemporanei. Ma non c’è neppure nulla di tradizionale, se non altro per l’eccezionalità del caso. Il fatto è che tradizione e modernità, continuità e discontinuità sono convocate insieme dal gesto di Papa Benedetto XVI, e rimangono drammaticamente indecise, aperte tuttora alle possibilità della storia e, per i credenti, all’attesa fiduciosa e alla speranza.

(in versione ridotta, questo articolo è apparso su Il Mattino di oggi)