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Uno vale uno, ma il comico vale per tutti

immagineC’è una bella metafora di Aristotele, che viene in mente leggendo di queste giornate di passione del Movimento Cinque Stelle a Roma. Che continuano: stavolta l’amaro calice delle dimissioni devono berlo i componenti del mini-direttorio che avrebbero dovuto affiancare Virginia Raggi nelle scelte più rilevanti della nuova amministrazione capitolina. Sembra scritto in neo-lingua: tutto bene, compito svolto, mollate i pappafichi, noi restiamo a terra mentre la nave comincia la sua navigazione. In realtà, ancora nulla è tornato al suo posto. Il nuovo assessore al bilancio, De Dominicis, non ha nemmeno fatto in tempo a insediarsi che ha già dovuto rinunciare: risulta infatti indagato dalla procura per abuso d’ufficio, e così, per la Sindaca che poche ore fa lo ha nominato, non ha più i requisiti. La giunta, dunque, non è ancora al completo.

Intanto vacilla pure il gran Direttorio (in realtà un duumvirato) di Di Battista e Di Maio: non c’è solo il sindaco di Parma, Pizzarotti, che lo vorrebbe dimissionare; anche fra i parlamentari e nella base aumentano le perplessità e le critiche. Grillo e Casaleggio avevano rinunciato al sacro principio dell’«uno uguale uno», e del «siamo tutti portavoce» perché non è così che funziona in realtà, e perché anche un Movimento retto da un non-Statuto con una testa in Liguria (Grillo) e un’altra in Lombardia (Casaleggio), ha bisogno di un’ossatura organizzativa. Il peso dei big del Movimento è allora cresciuto, e di pari passo è venuto scemando il ruolo della Rete, ridotto a rumore di fondo che si ingrossa solo nelle giornate di tempesta. Ma l’infelice gestione del caso Roma sta mettendo a dura prova la struttura direttoriale, per la semplice ragione che essa è priva di un’autentica legittimazione: si fonda infatti sul principio della nomina, pur non essendo scritto da nessuna parte ed essendo anzi contrario allo spirito «dal basso» del Movimento che i dirigenti pentastellati debbano essere, tutt’al contrario, nominati «dall’alto».

Grande è dunque la confusione sotto il cielo. Se Grillo non si stuferà, se come un grande Timoniere non deciderà di bel bello di bombardare lui il quartiere generale, sarà difficile che il Movimento trovi presto un punto fermo.

Così viene in mente la metafora aristotelica dell’esercito in rotta: le fila che disordinatamente si rompono e il fuggi fuggi generale. A un certo punto, però, qualcuno si arresta, non indietreggia più. Qualcun altro allora gli si fa accosto e poco a poco si costruisce una nuova linea difensiva. Aristotele usava la metafora per spiegare la nascita del concetto, ossia: com’è che a un certo punto ci si raccapezzi un po’. Per i Cinquestelle è un po’ più dura che per l’esercito di Aristotele, perché la rotta avviene in una terra incognita: non solo o non tanto per l’inesperienza politica o amministrativa, ma perché mancano persino i luoghi dove questo debba avvenire: nella residenza genovese di Grillo o in quella al mare? Nell’albergo romano deciso all’ultimo minuto o nel retropalco di un comizio? In un ufficio di Montecitorio o negli uffici della Casaleggio e Associati? Il movimento ha casa in Rete, così una casa vera non ce l’ha. E non ha dei veri organi interni. Probabilmente nessuno rimpiange i congressi, le assemblee nazionali, i comitati centrali e gli uffici politici di una volta. Nessuno prova più un brivido se sente parlare dl dispositivo di una commissione regionale di controllo, o dei provvedimenti di una segreteria di federazione: i partiti sono stati liquidati da un pezzo. Ma lo svolgimento della vita interna non sembra proprio che ne abbia guadagnato. Può darsi che l’iniziativa presa dal Pd, di stendere una legge sui partiti in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione,non andrà in porto, ed è nota, peraltro,la ragione per cui quella legge non è mai stata scritta: per timore che, essendovi una legge, la lotta politica interna potesse essere decisa da qualche ricorso al magistrato di turno. Ma resta un impressionante deficit di democraticità in tutte le formazioni politiche (bisogna dirlo: proprio il Pd, che tiene ancora congressi e primarie, fa eccezione), l’assenza di chiare procedure di autorizzazione, e un’inconsistenza sul piano organizzativo e gestionale preoccupante. Naturalmente c’è stato e c’è ancora un modo per coprire tutti questi difetti, ed è il ricorso al leader. È così, dopo tutto, che il centrodestra tiene ancora botta: grazie a Berlusconi (pur essendo, in verità, molto più dell’esercito di Silvio), ed è così che il M5S ha sin qui funzionato: grazie a Grillo (pur essendo, senza di lui, molto meno di quello che appare nello schermo virtuale della Rete)

Ma allora ci vuole almeno che il comico genovese salga su un predellino, come il Cavaliere, e dica come si fa o non si fa, consumando così anche le ultime ambizioni di autonomia dei piccoli candidati in pectore che cercava di coltivare nel Direttorio: i Di Battista e i Di Maio, appunto.Un colpo, forse, finirà allora davvero per cadere sul quartier generale, e una bella rivoluzione culturale restituirà definitivamente al Movimento la sua vera natura anti-istituzionale.

(Il Mattino, 9 settembre 2016)

La lotta di potere a porte chiuse dei Cinquestelle

ImmagineNo, non c’entrano i topi, i cassonetti pieni di rifiuti, le baracche lungo il Tevere o uno qualunque dei mille problemi della città. Virginia Raggi è sindaco di Roma da troppi pochi giorni perché le si possa già buttare addosso la responsabilità per i mali che affliggono la Capitale. Ma i giorni che ha impiegato per completare la sua giunta, pochi o molti che siano, sono stati sufficienti a Roberta Lombardi per lasciare il direttorio capitolino, lo «staff stellare» che s’era deciso avrebbe affiancato la Raggi per governare al meglio la città.

Naturalmente la Lombardi smentisce litigi, diverbi o dissapori. Ha un sacco da fare, sta preparando la festa nazionale del Movimento che si terrà a Palermo a settembre, e quindi il suo supporto non potrà che venire «dall’esterno». I giornalisti: sono loro che si inventano «liti, gelo o siluramenti»: secondo la Lombardi tutti vanno d’amore e d’accordo, tutti danno una mano generosa a Virginia.

Ora, si potrebbe dire: dateci almeno uno straccio di diretta, fateci vedere le riunioni del direttorio e i baci e gli abbracci che si scambiano i cinque membri fra di loro, così evitiamo di leggere i perfidi retroscena della carta stampata, ostile e prevenuta contro i grillini. Ma purtroppo la mistica della trasparenza è in ribasso: nessun incontro avviene in favore di telecamere, Grillo va dalla Raggi, si intrattiene due ore e nulla trapela; da Casaleggio a Milano gli amministratori locali si riuniscono a porte chiuse, tutti si incontrano riservatamente e nessuno spiega che fine abbia fatto il caro vecchio streaming al quale, ai loro esordi in Parlamento, volevano inchiodare i maneggi e le sordide trame delle forze politiche tradizionali.

In realtà, non c’è nulla di sorprendente in quello che accade all’ombra del Campidoglio, e se anche è difficile mettere a fuoco i particolari, è chiaro che le dinamiche innescate dalla vittoria della Raggi mettono i Cinquestelle di fronte a un’evidenza lampante, ma ufficialmente e ostinatamente negata, alla quale si accostano dunque impreparati: che cioè l’esercizio della responsabilità politica è un esercizio di potere. Né più, né meno. E ciò è vero persino nel Movimento Cinquestelle, lo vogliano o no i cittadini-portavoce: c’è chi ha potere e chi no. Chi è eletto e chi no. Chi guida il Movimento e chi no. Chi fa le nomine e chi cerca di condizionarle. La legittimazione democratica non elimina affatto queste distinzioni, e non le elimina neppure l’interpretazione grillina della democrazia. È il caso infatti di aggiungere che nulla di quello che sta avvenendo a Roma avviene, ovviamente, via web. Sulla Rete si trova piuttosto il gelido comunicato ufficiale della Lombardi, o le parole brezneviane del premier in pectore Luigi Di Maio. Ecco: non ci fossero i giornali con le loro maldicenze, di tensioni interne al Movimento nessuno parlerebbe (come non se ne parla sul blog di Grillo, che nulla dice), e la Lombardi scomparirebbe dalle foto del direttorio romano con un semplice photoshop, come una volta si sbianchettavano le immagini del Politburo, eliminando le figure cadute in disgrazia.

Di qui alla fine del mandato di Virginia Raggi con ogni probabilità ne vedremo molte altre, di vicende simili: di dimissioni, espulsioni, cambi di casacca. Manca però ai grillini la possibilità di rappresentare questi sommovimenti così come li si rappresentava una volta: come uno scontro fra linee diverse, o fra interessi diversi, o fra correnti diverse. Per definizione, infatti, nessuna diversità può albergare nel Movimento, che sta sempre dalla parte dei cittadini, che è anzi formato dai cittadini medesimi e che dunque non può mai tradirne le ragioni (salvo cacciare i traditori). Né si vede come sia possibile, allo stato, che si formi una dialettica interna ai Cinquestelle. Una dialettica, beninteso, che sia riconosciuta come tale, e che possa liberamente articolarsi senza subire gli anatemi di Grillo, o i richiami all’ordine di Casaleggio.

La costituzione di un direttorio che, nelle alate parole primaverili dell’allora candidata Raggi doveva fare la differenza e mettere il sindaco «nelle condizioni di superare le difficoltà gestionali e burocratiche a cui la mala politica ci ha sottoposto per decenni» era in realtà un tentativo di commissariarla ante factum. Per ora sembra che la Raggi, sostenuta da Grillo e da Di Maio, pur cedendo nei giorni scorsi sulla nomina del capo di Gabinetto, abbia però ottenuto qualche margine di autonomia in più, scrollandosi di dosso l’ingombrante cupola: al posto tanto ambito non è così andato la sua prima scelta, Daniele Frongia – nominato in compenso vice-sindaco – ma nemmeno il nome sponsorizzato dalla odiata Lombardi, il magistrato Daniela Morgante. È toccato così a Carla Ranieri, e la Lombardi ha lasciato il direttorio.

Ebbene, come si dovrebbero raccontare queste storie, se non in termini di una lotta senza esclusioni di colpi per il governo della città? Ma siccome la politica pentastellata è ufficialmente un’altra cosa, si chiamerà in un’altra maniera. Purtroppo però non è solo una questione di parole, ma di capacità politica, prima ancora che amministrativa. Non di competenze o professionalità, ma di direzione e leadership. E alla fine, al netto di tutte le parole, è su questo che anche i grillini e Virginia Raggi saranno giudicati.

(Il Mattino, 15 luglio 2016)