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Maggioranza e minoranza, ecco dove il Pd si è spaccato

Massimo Adinolfi, Nando Santonastasopd

Nuovi gruppi parlamentari, e presto anche nuovi soggetti politici: la scissione nel Pd è ormai cosa fatta. Ma fatta perché o per cosa? Ragioni di posizionamento politico, lotte di potere, ambizioni personali contano, ovviamente. Ma hanno comunque bisogno di un vocabolario per articolarsi, di un lessico per dirsi e per spiegarsi. Siccome non sono più disponibili i vecchi schemi ideologici, la scissione cammina sui temi e le politiche di questi anni, tra antiche velleità e nuove ambizioni. Dopo dieci anni, il partito democratico non ha ancora chiaro quale debba essere il suo complessivo orizzonte culturale: se deve spingere di più sul pedale dell’innovazione, o recuperare parte del bagaglio teorico abbandonato nel corso degli anni, se essere più testardamente socialdemocratico o più spregiudicatamente liberale, se puntare di più su apertura, speranza e futuro, o se invece offrire più sicurezza, protezione, assistenza. Se reinventarsi o ritrovarsi. E se, più prosaicamente, rivendicare o ripudiare le politiche fatte stando al governo. Il dibattito apertosi dentro il Pd, soprattutto dopo il referendum del 4 dicembre, prosegue ora anche fuori, con la scissione, anche se non così fuori e lontano come appaiono le posizioni di Sinistra italiana. In ogni caso, era giusto parlare di maggioranza e minoranza, come abbiamo fatto, perché la ricerca di spazio e di identità della sinistra non è cominciata con la scissione, e non finisce con essa. Di sicuro nel vocabolario della crisi entrano tanti, forse troppi disitnguo che hanno segnato, irrimediabilmente, la storia interna del maggiore partito italiano negli ultimi anni. Rari i momenti di scelte condivise, fino allo scontro totale che ha preceduto la sconfitta dell’ex premier e della maggioranza al referendum costituzionale. Oggi che i venti di scissione sono diventati certezza, si apre una nuova fase dagli sviluppi complicati, condizionata come sarà dalla nuova prospettiva proposizionale che si intravede nella nuova legge elettorale. Ed è qui che i giochi torneranno a essere decisivi, come non è difficile prevedere.

Il Jobs act. Su articolo 18 e bonus lo scontro più duro

È uno dei nervi scoperti del Pd, il fronte forse più acceso di contrasto tra maggioranza e minoranza. La riforma del lavoro, difesa a spada tratta da Renzi, ha puntato tra le priorità al ritorno a politiche attive del lavoro, alla creazione di nuova occupazione dopo gli anni della recessione attraverso incentivi e semplificazione burocratica, all’abolizione dei vincoli sui licenziamenti chiesta a gran voce dalle imprese. Sostenuta dall’Ue, che l’ha sempre considerata giusta e moderna, la riforma è finita subito nel mirino della minoranza. L’abolizione dell’articolo 18 e la possibilità dei licenziamenti collettivi hanno creato un solco mai colmato («Errore clamoroso», disse non a caso Speranza nel giorno dell’approvazione della legge). Ma anche i modesti risultati sui nuovi posti di lavoro e sull’occupazione giovanile in particolare sono stati imputati dai “bersaniani” ai limiti oggettivi della legge.

L’Imu. La tassa sulla prima casa tra distinguo e polemiche

Altro terreno di forte scontro, l’aboliione dell’imposta sulla prima casa. Il governo Renzi e la maggioranza Pd l’hanno estesa a tutti, senza alcuna eccezione in base alle categorie di reddito come invece chiedeva la minoranza per la quale il provvedimento è stato considerato sin dall’inizio un ulteriore “regalo” al centro politico che ha sostenuto l’esecutivo. Per Renzi quella scelta è stata invece il primo passo per un progetto più complessivo di abolizione della tassazione sulle famiglie che avrebbe dovuto portare anche alla riduzione delle aliquote Irpef, sponda che la crisi del post-referendum ha reso irraggiungibile. Per la minoranza resta al contrario l’idea-forte di tassare di più i redditi e i patrimoni alti spingendo al massimo la lotta all’evasione fiscale per recuperare le risorse necessarie.

Le alleanze. Sguardi bifronti: dal centro al richiamo della sinistra

Non si sa con quale legge elettorale si andrà a votare, né quando, ma è convinzione diffusa che la legge avrà un impianto proporzionale. Le prossimen maggioranze si formeranno dunque in Parlamento: come nella prima Repubblica, salvo il fatto che la solidità e la compattezza dei partiti di allora è incomparabilmente superiore a quelle delle formazioni politiche attuali. Ciò detto, la minoranza disdegna di guardare verso il centro, mentre la maggioranza del Pd trova più facile tirare una linea di demarcazione a sinistra. Qeusto in teoria, perché per arrivare al 51% è sempre più probabile che ci sarà bisogno di formare coalizioni molto ampie, a meno di non volersi sottrarre alla prova del governo. Ma pezzi della minoranza coltivano l’illusione di riaprire il discorso con il M5S, mentre in settori della maggioranza affascina ancora il modello neocentrista del “partito della nazione”.  

Il welfare. Lotta alla povertà: piani e “strappi” senza sbocchi

La povertà e le misure per contrastarla sono state un terreno quasi inevitabile, anche dal punto di vista ideologico, di contrasto. Il governo Renzi e la maggioranza hanno sempre detto di no all’idea di un reddito di cittadinanza “modello 5 Stelle”, puntando sul reddito di inclusione e aumentando le risorse destinate al Fondo di solidarietà per le famiglie del disagio sociale. I tempi però non sono stati brevi perché il ddl illustrato dal ministro Poletti a febbraio non ha ancora completato l’iter. La minoranza ha presentato proposte se non alternative quanto meno diverse puntando soprattutto ad estendere la platea dei beneficiari degli 80 euro (in base ai componenti del nucleo familiare) attraverso la revisione del codice Isee e degli aventi diritto al bonus bebé. Dialogo spesso tra sordi ma mai interrottosi.

I diritti. Su unioni civili e cannabis uniti senza se e senza ma

Sui temi dei diritti civili, sulle materie eticamente sensibili, il partito democratico è forse meno diviso che in passato. In Parlamento e nelle Commissioni sono in discussione almeno tre argomenti delicati: la legalizzazione delle cannabis, lo ius soli, il testamento biologico. Su posizioni progressiste si trovano tanto esponenti della maggioranza quanto esponenti della minoranza. Così è stato anche al momento di votare le unioni civili, nel 2015: Renzi ne aveva fatto un punto qualificante della sua campagna per le primarie, ma quella legge ha il consenso anche di Speranza o di Rossi. Quando fu varata, si accantonò il tema della stepchild adoption, ma nelle discussioni in corso nessuno lo ha indicato come uno dei punti sui quali fare una battaglia nel prossimo futuro.

Le privatizzazioni. Forti divisioni sul mercato ma la crisi riduce le distanze

La linea della maggioranza renziana è stata chiara sin dall’inizio: mettere sul mercato quote, mai la maggioranza, dei cosiddetti campioni nazionali del sistema industriale e produttivo del Paese (da Eni a Poste) per favorire lo sviluppo della competitività attraverso il mercato e consentire l’attrazione di capitali stranieri, indispensabili alla crescita. Di tutt’altro avviso la minoranza anche se lo stesso Bersani, ministro del governo Prodi, non ha mai nascosto che certe scelte di ispirazione blairiana andavano fatte e condivise (non a caso le “lenzuolate” rimandano al suo nome). Oggi però quelle ricette non vanno più bene di fronte alla povertà e alla strategia politica delle “destre”. Non a caso lo stesso Renzi ne ha tenuto conto negli ultimi tempi rivedendo almeno parzialmente l’impostazione originaria.

Le tasse. 80 euro, Ires, Rai: i tagli non ricompongono l’intesa

«Continuare a ridurre le tasse per i cittadini, fare di tutto per incentivare il lavoro e produrre ricchezza, perché solo così riparte la nostra economia». Renzi e la maggioranza hanno insistito moltissimo su questo punto: non solo l’Imu ma anche il bonus degli 80 euro, la riduzione del canone Rai, il taglio di Iri e Ires per le imprese, l’abolizione dell’Imu agricola sono tutti provvedimenti, spiegano, che dimostrano in modo inequivocabile la scelta di avviare concretamente l’annunciata diminuzione della pressione fiscale. La minoranza replica impugnando l’addio all’Imu: non si può togliere l’imposta anche a chi dichiara redditi da un miliardo. Meglio, si insiste, dedicarsi agli investimenti che incidono di più sulla crescita. Replica di Renzi nel fiore delle polemiche: «Per i cittadini stiamo riducendo troppo poco le tasse invece per (alcuni?) i politici le stiamo riducendo troppo. Non è fantastico?».

L’Europa. Fiscal compact, che errore. Stavolta tutti lo riconoscono

È un terreno che avvicina molto maggioranza e minoranza, peraltro d’accordo su quella che oggi viene considerata una scelta-capestro per un Paese con un elevato debito pubblico. Parliamo dell’adesione al fiscal compact “imposta” dal patto tra il governo Monti e l’Unione europea e considerato quattro anni fa come un punto irrinunciabile per riconquistare la fiducia di Bruxelles. Il pareggio di bilancio, votato dal Parlamento (Pd pressoché compatto) e inserito nella Costituzione, si è rivelato con il tempo una sorta di trappola: da tempo Renzi chiede la fine di politiche di rigore e austerità dell’Ue e su questo terrno non ha trovato opposizioni interne. La minoranza chiede però che il partito si impegni per una forte politica di redistribuzione dei redditi e sul come agire le distanze interne restano.

Gli statali. Una bocciatura che apre altri fronti di contrasto

La riforma tutto sommato non aveva trovato fortissime opposizioni: la decisione di mettere mano alla macchina pubblica, specie per eliminare privilegi e distorsioni organizzative e di carriera, rilanciando finalmente la credibilità del settore, non aveva incontrato resistenze di sorta. Il diavolo però ci ha messo lo zampino, nel senso che la decisione della Consulta di bocciare tre passaggi decisivi del piano predisposto dal ministro Madia ha finito per trasformarsi in un ulteriore motivo di scontro interno anche perché capitato nel bel mezzo delle tensioni per la riforma costituzionale. Olio bollente sull’incendio, insomma. Non è un caso che anche all’interno del partito la riproposizione del ministro nella nuova squadra di governo era considerata poco probabile. Non per Renzi che sulla riconferma del “suo” ministro non ha avuto alcun dubbio rilanciandola anche con Gentiloni.

I riferimenti. Tra Schulz il socialista e Macron l’outsider

Ora che Martin Schulz si è tuffato nella campagna elettorale tedesca, staccando la Merkel nei sondaggi, c’è la possibilità di dire che forse non tutto, del vecchio bagaglio di idee della socialdemocrazia, è da buttare. Perché Schulz ha rivitalizzato la SPD, proponendo di smantellare l’indirizzo politico economico seguito dalla Germania negli ultimi anni (dalla Merkel, ma prima ancora dallo stesso Schrøeder, il cancelliere socialdemocratico che spostò il partito verso il centro): niente austerità, retromarcia sui contratti a tempo e sul salario minimo, che invece di garantire i lavoratori ne comprime i redditi. Lo slogan suona: «è tempo di maggiore giustizia sociale, è il tempo di Martin Schulz». Schulz però entusiasma solo la minoranza, perché la maggioranza renziana pensa piuttosto a Macron, il rottamatore d’Oltralpe che si candida all’Eliseo fuori dagli schemi, oltre la destra e la sinistra.

 La scuola. La riforma della discordia ha spaccato anche il partito

La riforma della scuola è stata una buccia di banana per Renzi e il Pd. Non a caso, nel governo Gentiloni manca solo la ministra dell’Istruzione Stefania Giannini. Il giudizio della maggioranza, che quella riforma ha voluto e votato, è ovviamente positivo, ma si appoggia soprattutto sull’entità delle risorse messe a disposizione, sul numero delle assunzioni, sull’indizione del concorso. La filosofia della riforma – autonomia, nuovo ruolo della dirigenza, alternanza scuola-lavoro – è molto più timidamente difesa. La minoranza invece la ritirerebbe oggi stesso. E forse sottoporrebbe a revisione tutto l’indirizzo di riforma dei governi di centrosinistra dai tempi del ministro Luigi Berlinguer ad oggi. Ma la scuola è stato anche il terreno di una frattura con tradizionali mondi di riferimento della sinistra, che la minoranza vuole recuperare, che la maggioranza ha qualche difficoltà a rifondare.

Il sistema elettorale. Il ritorno al proporzionale occasione o iattura

La legge con cui voteremo sarà quasi sicuramente una legge proporzionale, più o meno corretta. Ma questo è un giudizio di fatto, che tiene conto della sconfitta di Renzi al referendum e della sentenza della Corte Costituzionale. Il giudizio di valore però è diverso: per gran parte della maggioranza, il proporzionale è quasi una iattura, e l’Italia rischia di scivolare nuovamente nel pantano di governi deboli e coalizioni litigiose. Se potesse correggere in senso maggioritario la legge, lo farebbe. Diverso l’avviso della minoranza, che considera il proporzionale il vestito ordinario delle democrazie parlamentari, e teme ogni rafforzamento dei momenti della decisione, ogni irrobustimento dell’esecutivo a scapito del Parlamento, che passi attraverso correzioni maggioritarie, collegi uninominali, soglie di sbarramento elevate.

Il Mezzogiorno. Masterplan e Patti al via tra dubbi e “resistenze”

Non ha forse assunto il rilievo di uno dei temi più caldi dello scontro interno ma di sicuro anche le politiche per il Sud hanno diviso il Pd. Almeno nel senso che i percorsi individuati per ridurre il divario, obiettivo comune a tutto il partito, non sono apparsi sempre condivisi. Renzi dopo un anno di incertezze e di distacco («Basta piagnistei, basta con la denuncia del Sud abbandonato» ecc. ecc.), forse anche sotto il peso della critica dei territori, ha dedicato al Mezzogiorno un masterplan e 16 Patti con Regioni e Città metropolitane, tutti almeno teoricamente decollati. Ma non è caso che proprio al Sud si sia consumata la fetta più ampia della sconfitta al referendum e che le resistenze di Emiliano in Puglia abbiano avuto un peso anche mediatico tutt’altro che trascurabile.

L’immigrazione. Accoglienza e inclusione ma con diversi accenti

Su questo tema non è sempre chiaro se si confrontino nel Pd diverse sensibilità o diverse politiche. Perché il partito democratico è per l’accoglienza e l’inclusione. Ma con regole, che rendano governabile il fenomeno. Cosa più facile a dirsi che a farsi. Così capita che, a seconda degli umori (o delle tragedie) gli accenti si spostino ora sulla sicurezza, ora invece sulla solidarietà. Un banco di prova sarà presto offerto dalle nuove misure varate dal governo Gentiloni: più poteri ai sindaci, che potranno allontanare dal territorio comunale soggetti responsabili di violazioni reiterate, velocizzazione delle procedure relative al diritto d’asilo, per accelerare eventuali rimpatri. La maggioranza non avrà tentennamenti, ma nella minoranza si faranno sentire posizioni più sbilanciate a sinistra, che temono svolte di carattere securitario.

Le riforme. Il referendum spartiacque su Costituzione e poteri

Dopo lo scontro sul referendum, c’è da ritenere che per un po’ non se ne riparlerà, ma questo non vuol dire che sul terreno delle riforme costituzionali non si sia prodotto una lacerazione. Non solo perché la minoranza ha votato no, mentre la maggioranza ha votato sì, ma perché il no è stato accompagnato da valutazioni perentorie: riduzione degli istituti di garanzia, pericolo di deriva autoritaria. In questione non era il superamento del bicameralismo, né il Senato delle regioni, ma l’impianto complessivo della riforma, che ricordava agli oppositori le aspirazioni di Craxi o il progetto di Berlusconi e Calderoli. Una cosa di destra, insomma, che deturpava uno dei miti fondanti della Repubblica, quello della Costituzione democratica nata dall’antifascismo. Proprio il genere di argomenti che, agli occhi dei fautori, condanna da decenni il Paese all’immobilismo in tema di riforme.

Il partito. Primarie aperte a tutti o più peso per gli iscritti

I democratici sono l’unica formazione politica attualmente in campo che conserva il nome di partito. A volte sembra un motivo di orgoglio, altre volte un inutile fardello. Di sicuro la minoranza imputa a Renzi le maggiori responsabilità per la scissione, accusandolo di non aver saputo o voluto tenere insieme una comunità. Per Renzi e i suoi, è la minoranza che rifiuta le regole democratiche del confronto e della decisione. Al fondo stanno però idee diverse sulla forma-partito. Non a caso, per la minoranza il problema è già nello statuto, che per via delle primarie aperte dà poco peso agli iscritti e proietta la leadership in un rapporto diretto coi cittadini. Cosa che per la maggioranza è, al contrario, un titolo di merito. Infine: Renzi ha fortemente voluto l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, la minoranza volentieri tornerebbe indietro.

(Il Mattino, 22 febbraio 2017)

Le adozioni gay sono un diritto? Dialogo tra gli opposti perché

lucca

Massimo Adinolfi: Caro Direttore, mentre Le scrivo non so ancora se e quale testo sulle unioni civili il Parlamento approverà. Le dico però la mia sul punto più controverso, la stepchild adoption, mettendo da parte le esigenze politiche e parlamentari di mediazione che mi sforzo comunque di comprendere (solo, però, fino a un certo punto). Metto da parte pure, nei limiti del possibile, il giuridichese e formulo la questione così: non consentire a una coppia omosessuale di avere dei bambini è una limitazione della loro libertà. La libertà può certo essere limitata, e talvolta deve pur esserlo, ma vi deve essere qualcosa più grande dell’esercizio di quella libertà, per farlo. Qual è il bene più grande? Io ne trovo uno solo: la salute del bambino. La salute nel senso più ampio: come benessere e felicità e crescita equilibrata del minore. Ma non saprei proprio dove siano i fondamenti teorici, filosofici o scientifici per sostenere che la salute del bambino allevato da una coppia omosessuale sia in qualche misura compromessa, mentre i casi empirici pare attestino il contrario. D’altra parte, l’adozione del figlio del coniuge, con il consenso del genitore biologico, c’è già: come mai la si vuol fermare oggi?

 

Alessandro Barbano: Caro Professore, condivido l’approccio pragmatico con cui mi invita a questa delicata discussione e provo a risponderle nello stesso modo. Per sostenere che lo sviluppo personale e affettivo di un bambino non è compromesso dal fatto di essere stato allevato da una coppia omosessuale lei adduce “casi empirici” che – sempre lei sostiene – “pare attestino il contrario”. Apprezzo la prudenza implicita nell’uso della locuzione “pare”, ma le chiedo ugualmente di quali casi empirici lei parla. È a conoscenza di un rapporto scientifico redatto da puericultori, pedagoghi, psicologi, medici, per conto di un ministero o di un’organizzazione educativa o scientifica indipendente e di grande autorevolezza, che abbia studiato il percorso affettivo e lo sviluppo della personalità di bambini adottati da coppie gay comparandolo con quello di un campione di riferimento tratto dalla cosiddetta famiglia tradizionale? Se ne conosce uno, che non sia prodotto dalle stesse organizzazioni che promuovono la battaglia per i diritti, me lo indichi per piacere. Che io sappia, ne esiste uno condotto nel 2012 da Mark Regnerus, professore di sociologia presso l’Università di Austin, uno studioso che pure si era sempre espresso a favore dei diritti di gay e lesbiche. Analizza 15 mila casi e intervista 3 mila persone, tutte comprese tra i 18 e i 39 anni, per giungere alla conclusione che quanti sono cresciuti in famiglie omosessuali sono nettamente più incerti, più instabili e, nell’esito delle loro personali realizzazioni, più svantaggiati dei loro coetanei cresciuti in famiglie cosiddette normali. Le confesso di non prendere per oro colato questo studio, condotto in una società molto diversa da quella alla quale lei e io apparteniamo e duramente attaccato dalle potenti lobby omosessuali americane. Mi chiedo però come faccia un Parlamento a legiferare nell’interesse dei minori su questioni così delicate che li riguardino, prescindendo da un’indagine conoscitiva scrupolosa di un’Autorità nazionale. E mi rispondo così: al contrario di quanto da lei sostenuto, la salute del minore, nel senso che lei intende, non ha alcun ruolo in questa battaglia. Poiché l’unico benessere di cui qui si tratta è quello degli aspiranti genitori. Lascio a lei valutare se questo è un approccio accettabile o piuttosto aberrante.

Quanto all’adozione del figlio del coniuge, che come lei giustamente ricorda è già prevista dalla legge, non le sarà sfuggito che riguarda il matrimonio. La prego di chiarirmi allora un equivoco, sotteso a questa discussione: stiamo parlando di Unioni civili o di matrimoni tra gay? Che io sappia, questa seconda ipotesi non sarebbe oggetto del disegno di legge Cirinnà, almeno a parole. Oppure sbaglio?

 

M.A.: Caro Direttore, potrei citarLe l’Associazione Italiana di Psicologia, o quella dei pediatri americani, o l’indagine recentissima di Simon Crouch (Australia) apparsa su Public Health lo scorso anno: non credo che renderemmo un buon servizio alla scienza, e ai lettori, se considerassimo questi e tanti altri studi ispirati solo da simpatia per l’omogenitorialità. Non è chiaro nemmeno perché allora non dovrei supporre che il lavoro che Lei cita non manifesti un pregiudizio di segno opposto. Lo stesso cardinal Bagnasco mi pare parli, giustamente, di più profonde questioni antropologiche, non di aspetti psicologici o sociologici. Se poi Lei concorda nel ritenere che escludere l’adozione per le coppie omosessuali sia una limitazione della libertà, posso comprendere l’invito al legislatore italiano perché consideri peculiarità storiche o culturali del nostro Paese, ma non certo far discendere dal contesto sociale una compressione dei diritti. Non diversamente, si è ragionato in passato, in Italia e non solo, a proposito del voto alle donne: non mi metterei, pertanto, su quella via.

Voglio spendere una parola anche sul mio riferimento ai casi empirici. Mi sono espresso con prudenza, è vero, ma con decisione metto qui un punto di metodo: in una società liberale, tocca a chi intende vietare dimostrare che un certo bene sarebbe danneggiato, in assenza del divieto, e che il divieto non comporta una discriminazione. Queste dimostrazioni, che io sappia, non ci sono.

C’è invece la preoccupazione del Cardinal Bagnasco (dico così per far prima): la capisco e sono pronto a discuterne.

Intanto però chiarisco l’equivoco. In Parlamento si parla di unioni civili. È il frutto di una mediazione, di vincoli costituzionali e rapporti politici. Ma dal fatto che il testo sarà chiamato a normare una vita in comune distinta dalla vita familiare non segue che non possa prevedere l’adozione. Se qualcosa segue, è se mai il sospetto che le (comprensibili) paure su utero in affitto e maternità surrogata, sollevate per vietare l’adozione, siano ingigantite un po’ strumentalmente, visto che la stepchild adoption c’è già: simili pratiche non sono infatti prerogativa delle coppie gay.

 

A.B.: Caro Professore, non escludo che la ricerca da me citata sia inficiata da un pregiudizio, rilevo solo che è l’unica compiuta su una platea di 15mila casi che valuti, non il parere dei genitori adottanti o degli operatori impegnati a sostegno di queste famiglie, come la maggior parte delle ricerche da lei citate, ma l’esito, comparato con un campione di riferimento di figli di coppie etero, dello sviluppo affettivo e, soprattutto, della realizzazione individuale dei figli di coppie gay desunta da alcuni parametri per così dire oggettivi (come il lavoro, il reddito, la stabilità familiare, ecc.). Purtroppo questa ricerca conferma ciò che – e qui mi consenta di utilizzare le sue parole – “empiricamente pare”: e cioè la maggiore volatilità e instabilità della coppia gay rispetto a quella etero. E ciononostante riconosco che questi risultati possano in parte essere fuorvianti. Perché sono convinto che a condizionare il destino individuale di molti figli di coppie gay contribuisca il clima di discriminazione e di intolleranza in cui la loro adolescenza, e soprattutto quella dei loro genitori, è stata vissuta. Tuttavia, se restiamo su un piano puramente pragmatico, e cioè l’interesse dei minori, non mi pare che esistano le condizioni e le garanzie per aprire a un’istituzione così delicata come quella dell’adozione. Anche perché, caro professore, si fa presto a dire “famiglie gay”. Nel cartello dei soggetti che si batte per diritti delle Unioni civili ci sono gruppi che espressamente rivendicano l’ambiguità come l’essenza del loro orientamento sessuale e della loro stessa identità. Spero che lei mi creda se le dico che nutro nei confronti di costoro il massimo rispetto, tuttavia le chiedo: un minore che fosse affidato alla cura e all’educazione di una “famiglia” transgender dovrebbe ritenersi tutelato dallo Stato che ne ha deciso l’affidamento e l’adozione?

Vengo poi al secondo punto e cioè la giustificazione dei limiti che lo Stato pone alle libertà individuali, e tralascio il paragone da lei portato con il precedente del suffragio femminile, poiché sono certo che non le sfuggirà, così come non è sfuggita alla stessa Carta costituzionale,  l’enorme distanza tra i diritti politici e quelli personalissimi che coinvolgono la vita e lo sviluppo della personalità dei minori e di cui qui discutiamo. Lei sostiene che in un ordinamento liberale tutto ciò che non è espressamente vietato è lecito, ma qui non è in discussione un divieto, bensì se mai l’estensione di un diritto e di una responsabilità che lo Stato riconosce da sempre all’istituzione familiare. E qui mi pare che nel suo ragionamento drammaticamente sfugga la consapevolezza che in democrazia il contenuto della libertà non prescinde dal limite. È solo attraverso questa travagliata dialettica tra la libertà, come espressione delle possibilità dell’uomo, e il senso del limite che nascono i diritti. Il senso del limite qui coincide con la responsabilità sociale dei genitori nei confronti dei figli. Il fatto che la Corte costituzionale riconosca la genitorialità un diritto incoercibile dell’individuo non esclude che lo Stato imponga limiti e pretenda garanzie per il soggetto destinatario dell’adozione. Questa garanzia si chiama famiglia, ed è tanto più robusta quanto più rappresenta un’istituzione laica fondata su sedimenti di civiltà. Lei non lo dice espressamente, ma mi consenta di intuire che volentieri chiamerebbe famiglia a tutti gli effetti quella tra due omosessuali. Mi consenta di dirle che sarebbe più coerente al fine di sostenere la legittimità delle adozioni gay.

 

M.A.: Caro Direttore, non ho dubbi: sarebbe più coerente parlare di famiglie gay e reclamare l’adozione. Ma non si tratta di incoerenza del mio parlare, bensì della necessaria opera di mediazione, come ho già scritto, dati i vincoli costituzionali e i rapporti di forza in Parlamento. Ma pensare che il significato delle parole non muti, o che non mutino le cose stesse, per via del dettato costituzionale, può funzionare, forse, sul piano della dialettica politica e della norma giuridica, ma è perlomeno ingenuo sul piano teoretico.

Ingenuità che avverto in chi parla della famiglia come di un dato naturale, quando persino cose come l’attaccamento materno ricevono un supplemento di significato decisivo dalla loro connotazione storico-culturale.

Sui risultati della ricerca che di nuovo mi adduce, mi permetta però di essere tranchant, invece di fare qui la gara a chi ha i dati meglio fondati: lei crede veramente che il Parlamento italiano si appresti a votare contro evidenza empirica e risultanze scientifiche? Un Parlamento ottusamente geocentrico in tempi copernicani? Mi permetta di pensare l’esatto contrario (e di raggelare, quando mi informa che tra i parametri di valutazione “oggettivi” il suo studio includeva il reddito: ma questo, dirò così, è un’altra storia).

Mi pare più importante agghiacciare, però, per un altro motivo che si insinua nel suo ragionamento, e che so essere diffuso. Il contesto è discriminatorio, lei dice, e invece di combattere la discriminazione pretende di convincermi che ci si debba ad essa adeguare. Ma no! Quel contesto lo si può cambiare – e per rispetto dei diritti degli omosessuali lo si deve. Si possono poi introdurre tutte le tutele del mondo perché la cura e l’educazione del minore sia garantita, anche in una “famiglia” omosessuale, proprio come lo è in una famiglia eterosessuale.
Mi sorprende però che lei rilutti a scendere sul terreno che dovrebbe trovare più congeniale, quello propriamente antropologico. A mio parere è lì, in strati profondi della cultura e della psiche umana, che la legge, o ciò che la legge consente, smuove le cose. È nell’immaginario, nella rappresentazione di sé dell’uomo e della donna, e, certo, nel modo in cui si definiscono ambiti di vita e di relazione, che qualcosa accade. Dovremmo discutere dunque di questo, dei rapporti fra natura e cultura: cosa che peraltro non si fa con gli studi scientifici da lei addotti. Il concetto di natura che qui è in gioco tutto è, infatti, meno che un concetto scientifico. Eppure trovo che si parli di naturalità di questo e di quello con disinvoltura sorprendente. Ci sono cose naturali che non hanno più alcun valore – le unghie, ad esempio, che gli ungulati apprezzano molto ma io non particolarmente – e cose culturali che hanno un valore straordinario, cioè tutta o quasi l’opera dell’uomo, compresa ovviamente la religione. Siamo sicuri che sia la natura – quale natura? – a consentirci di tracciare oggi le necessarie linee di demarcazione?

 

A.B.: Caro Professore, parto dalla sua osservazione finale e non posso che convenire con essa. Tuttavia, io fin qui non ho mai parlato di natura, né in maniera esplicita né indiretta. Ho definito piuttosto la famiglia un sedimento della civiltà, volendo intendere esattamente quella sintesi dialettica che tra natura e cultura si ridefinisce in un processo lungo quasi tremila anni, cioè dal tempo in cui – lei me lo insegna – nacque la filosofia greca. La solidità e l’unicità della famiglia è proprio un fatto che si compie nella storia e nella cultura: è questa la ragione del suo essere istituzione in senso sostanziale e del suo non essere duplicabile attraverso un’opera di ingegno o di fantasia da parte di una maggioranza parlamentare. Se la mia coscienza grida all’orrore dell’utero in affitto, non è in nome del diritto di natura e meno che mai del confessionalismo religioso. Ma della dignità della persona. La step child adoption, nelle forme previste dal decreto Cirinnà, porta la gravissima responsabilità morale di esporre la donna a una schiavitù e a una mercificazione del proprio corpo simile a quella da cui tanto la battaglia per l’aborto quanto la lotta alla prostituzione si sono adoperate per sottrarla. Mi consenta di chiederle se davvero lei è convinto che il pericolo della maternità surrogata sia ingigantito strumentalmente. Se non conosce la subalternità e la povertà che inducono donne povere e disagiate di ogni latitudine a cedere il proprio ventre per un prezzo direttamente proporzionale alla ricchezza pro-capite del paese di appartenenza, sottoscrivendo un contratto che impone loro di abortire qualora i genitori committenti cambino idea in corso d’opera. Oppure crede anche lei, come qualche femminista italiana convertita all’ideologia del desiderio e del consumo (non tutte, per fortuna), che la firma sul contratto con cui le donne cedono il proprio utero, come fosse un garage, sia una garanzia di libertà e di autodeterminazione?

Ma c’è un secondo punto del suo ragionamento che merita una risposta. Lei mi accusa di riconoscere l’esistenza della discriminazione e, invece di combatterla, di pretendere di convincerla ad adeguarsi ad essa. Temo che questo punto di vista si fondi su un errore. Combattere la discriminazione significa spegnere l’intolleranza verso il diritto di ciascun omosessuale di vivere e dichiarare il proprio orientamento sessuale, non significa riconoscere e promuovere diritti e doveri esclusivi che la società assegna all’istituzione familiare. Se così non fosse, devo pensare che lei mi consideri intollerante per il solo fatto di essere contrario al matrimonio tra gay. Mi piace pensare che non sia così.

M.A.: Caro Direttore, forse siamo d’accordo su un punto: non può essere il mercato o la trattativa privata a definire i lineamenti di una nuova genitorialità. Vedo anch’io i rischi di mercificazione che lei denuncia e penso che sia legittimo adottare strumenti di tutela. Se ho parlato di un pericolo ingigantito strumentalmente è perché distinguo il riconoscimento di un diritto dai mezzi con i quali esso dovesse essere ottenuto. Si può usar male o bene di un diritto, ma la possibilità che se ne usi male non è per mio conto sufficiente a negarlo del tutto. L’esclusività di diritti e doveri della famiglia tradizionale è però il punto in discussione: non posso assumerlo come un punto di arrivo, solo perché è il punto al quale siamo (e in verità non siamo già più, per quanto essa è cambiata e sta cambiando per conto suo). Mi convince la sua proposta di descrivere la famiglia come un sedimento storico profondo, «sintesi di natura e cultura». Come tutto ciò che è storico, però, cambia. Non sono così disinvolto dal considerare il cambiamento come un bene di per sé. Ma, allo stesso modo, non ho più ragioni, né filosofiche né scientifiche, per considerare la permanenza di una tradizione di per sé un valore. Sull’una e sull’altra cosa noi uomini siamo insomma condannati a ragionare, e a decidere.  Ma poiché sono d’accordo con lei nel farlo in nome della dignità della persona, non posso non chiedermi quale dignità venga calpestata dal riconoscere il diritto a una coppia omosessuale di avere dei bambini. Lei mi chiede se negarlo significa essere intollerante. Temo di inciampare sulle parole, e di erigere muri mentre cerchiamo un terreno comune di dialogo. Così le propongo uno scambio cordiale: io non giudico lei intollerante, lei non giudichi me permissivo (oppure, sul piano storico-filosofico, nichilista). Con il metro della moderna coscienza giuridica e morale, dovrei giudicare intolleranti pure, faccio per dire, Platone e Sant’Agostino: li capisco più a fondo, così sentenziando? Non credo. Preferisco perciò fare uno sforzo di comprensione in più, e chiederle altrettanto.

A.B.: Caro Professore, non ho mai preteso di giudicarla, e con questo intendo dire che rispetto – pur non condividendole – le posizioni di chi come lei difende l’estensione dei diritti civili senza se e senza ma. Però la invito in chiusura di questa piacevole conversazione a considerare l’opportunità di una sintesi, che fin qui la politica e talvolta le stesse istituzioni – penso al presidente della Camera Boldrini – non hanno cercato con autentica convinzione. Pochi giorni fa le piazze italiane sono state invase da un milione di persone che si battevano per il disegno di legge Cirinnà così com’è concepito, cioè con l’istituzione di un similmatrimonio con annessi i diritti di adozione per le coppie gay. Sabato le stesse piazze torneranno a riempirsi su iniziativa di chi la stessa legge abiura in toto. Pensiamo davvero di poter concepire due società che vivono l’una a fianco all’altra con valori opposti e con regole che riguardano le forme primarie e decisive delle relazioni umane imposte grazie all’esiguo numero di voti di una maggioranza parlamentare? Crediamo davvero di poter risolvere questo lacerante conflitto, che attraversa in due il Paese, con un atto di forza politico? Oppure c’è ancora spazio per cercare uno spazio comune capace di far germogliare i punti di contatto e il dialogo tra due sponde sociali evitando che si trasformino in due enclavi? Mi permetta di consegnarle, salutandola, questa domanda.

(Il Mattino, 28 gennaio 2016)

 

 

 

 

Embrioni, divieti legittimi. Meno male

fecondazione-eterologa-e-legge-40La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha emesso ieri una sentenza che farà discutere: i diritti della signora Parrillo non sono stati lesi dal divieto, oppostole in base alla legge italiana, di donare gli embrioni crioconservati alla ricerca scientifica. Nel 2002, Adelina Parrillo e Stefano Rolla fanno ricorso alla procreazione medicalmente assistita. Il 12 novembre 2003, Stefano Rolla perde la vita nell’attentato di Nassirya, in Iraq. L’anno successivo, con la legge 40, l’Italia proibisce l’utilizzo di embrioni a fini di ricerca. Non volendo procedere all’impianto degli embrioni conservati dopo la fecondazione (e depositati presso una clinica romana), e intendendo invece donarli alla scienza, Adelina Parrillo ricorre al giudizio della Corte. Ieri il verdetto che le dà torto.

La sentenza fa ovviamente rumore, perché sembra andare contro l’inarrestabile spirito dei tempi. Al quale viene facile di giudicare oscurantista e reazionario qualunque limite venga frapposto alla ricerca scientifica. Non saranno i diritti della signora Parrillo ad essere stati lesi, si dirà, ma lo sono allora i diritti dei malati, e quindi quelli di tutti noi, che veniamo privati della speranza di poter accedere a cure per il cui sviluppo è necessario che la ricerca scientifica abbia libero corso, e possa anche procedere alla sperimentazione sugli embrioni.

Le cose però non stanno proprio così. La sentenza non interviene sui limiti della ricerca scientifica. Per quei limiti, peraltro, potrebbe bastare la Convenzione del Consiglio di Europa sui diritti dell’uomo e la biomedicina (Convenzione di Oviedo), la quale richiede per un verso una «protezione adeguata all’embrione», e per l’altro vieta la «costituzione di embrione a fini di ricerca». Segno che l’embrione non sarà qualcuno, cioè una persona, ma non è nemmeno una semplice cosa (altrimenti cosa vuol dire: «protezione adeguata»?). La sentenza interviene piuttosto sul rispetto o meno del diritto di proprietà sugli embrioni vantato da chi ha prestato il proprio materiale genetico, così come sul rispetto o meno della vita privata. E dice, in breve, che gli Stati nazionali possono stabilire limiti a ciò che di un embrione si può fare: nel caso in giudizio, donarlo o meno alla scienza. La parte più interessante della sentenza riguarda proprio la «necessità» – la Corte dice proprio così – di un intervento dello Stato. I margini di valutazione sono infatti ampi, sono coinvolte sensibilità morali diverse, i paesi europei hanno legislazioni differenti, c’è una pluralità di opinioni su quando la vita umana abbia inizio. La Corte non può non notare che proprio per questo sia il Consiglio d’Europa che l’Unione europea lasciano che gli Stati nazionali godano di ampi margini di discrezione nell’adottare legislazioni più o meno restrittive a riguardo della distruzione di embrioni.

Può piacere o no, ma questo significa, nei termini più larghi possibili, che ha senso legiferare in materia. E direi: per fortuna (dal punto di vista almeno del diritto pubblico). Il pronunciamento della Corte dice cioè che la questione dell’embrione non riguarda solo i diritti individuali della persona o della coppia che l’ha voluto. Proprietà e sfera privata c’entrano, ma solo fino a un certo punto, e quel punto viene stabilito da una legge dello Stato. C’è un passaggio della decisione della Corte in cui si dice che il diritto invocato da Adelina Parrillo non rientra nei suoi «core rights», cioè nel nocciolo duro dei suoi incomprimibili diritti, poiché non concerne «un aspetto cruciale della sua esistenza o della sua identità». Ne va sì dei suoi geni, insomma, ma non del suo stesso corpo o soltanto dell’espressione della sua volontà. All’ordinamento giuridico viene dunque chiesto di tenere conto di queste evidenti differenze.

Orbene, quest’idea, che l’ultima parola non spetta alla scienza o al progresso tecnologico, ma alle responsabilità che competono ai pubblici poteri, può spiacere solo a chi ritenesse che scienza e morale individuale sono tutto ciò di cui si ha bisogno in una democrazia per ordinare la convivenza umana. E che politica e religione sono invece ciò che il progresso deve mangiarsi per liberare l’individuo da vecchi legacci e antichi retaggi di illibertà. Ma è molto dubbio che le cose stiano davvero così. E che ieri una Corte europea ne abbia chiaramente preso atto, per una volta non sostituendosi alle responsabilità della politica e dello Stato ma anzi sottolineandole, non è affatto una cattiva notizia, qualunque cosa si pensi della legge 40.

(Il Mattino, 28 agosto 2015)

Umbri di tutto il mondo, aspettatemi

Si conclude oggi il Festival internazionale del giornalismo, in svolgimento a Perugia dal 1° aprile. Come con il Festival di Sanremo, era prevista la più frontale delle controprogrammazioni, e nello stesso giorno (il 3 aprile), alla stessa ora  in cui c’era Marco Travaglio, era in programma l’incontro su Europa, laicità, diritti. Un po’ come Schopenhauer che faceva le lezioni nella stessa ora in cui le teneva Hegel.
Io perciò, memore del precedente storico, ci sarei andato lo stesso.

Ma poi s’è pensato di lanciare un segnale distensivo e l’incontro è ora fissato per il 17.