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Mattarella, i Pm e la tentazione della solennità

immagineLe parole che il Presidente della Repubblica ha rivolto ai giovani magistrati in tirocinio, nel corso della cerimonia al Quirinale, meritano di essere rimarcate. Sono parole di circostanza, nel senso che è d’uso che il Capo dello Stato tenga un discorso in una simile circostanza. E sono parole misurate, come d’altronde è nello stile di Sergio Mattarella. Che ieri, però, è uscito dal «percorso del testo scritto» per svolgere qualche considerazione più personale, più vicina alla sua stessa sensibilità ed esperienza. Sono, dunque, parole diverse.

Il discorso scritto conteneva già alcuni preziosi elementi: la sottolineatura dell’irrinunciabile valore costituzionale dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura era accompagnata da una considerazione non banale sul valore della prevedibilità delle decisioni giudiziarie, che deve valere anche – anzi: soprattutto – per l’esercizio monocratico della funzione in capo al singolo magistrato. Le decisioni «singolari» prendono infatti risalto, fanno parlare, regalano palcoscenici mediatici, ma danneggiano la credibilità della magistratura. Un altro spunto contenuto nel discorso scritto ha riguardato l’importanza degli «espressi enunciati» a cui il magistrato deve innanzitutto attenersi nell’applicazione della norma. Non è un rilievo trascurabile, perché attenersi alla lettera, evitando voli troppo pindarici sulle ali del supposto spirito della legge, contrasta la tendenza, oggi assai diffusa, a inflazionare invece il momento dell’interpretazione. Che si proclama sempre costituzionalmente orientata – com’è ovvio – ma in una fase in cui è sempre meno la Suprema Corte a fornire il suddetto orientamento, e sempre più il giudice ordinario a figurarselo piuttosto liberamente da sé.

Infine, c’è, nel discorso di Mattarella un invito ai giovani magistrati a sentirsi parte di un ufficio, a «fare squadra», a portare questa dimensione della collaborazione con colleghi e dirigenti degli uffici anche dentro i percorsi di formazione e tirocinio della Scuola superiore della magistratura. E pure questo contrasta un poco se non con lo spirito del tempo con certe abitudini professionali del magistrato, gelosissimo della propria autonomia e sempre preoccupato di resistere all’accentuarsi di impronte fortemente gerarchiche nell’organizzazione degli uffici.

Poi però Mattarella è uscito dal testo scritto, e il senso dei margini entro i quali tenere l’esercizio della professione che aveva sin lì trasmesso attraverso raccomandazioni rigorose, ma quasi soltanto in punta di dottrina, si è riempito di un significato quasi esistenziale. Mattarella è stato per alcuni anni giudice della Corte Costituzionale. Ha indossato tocco ed ermellino. Sa cosa significa passare una giornata tra scranni e stucchi. Conosce perfettamente la «solennità» che si accompagna all’esercizio delle più delicate funzioni pubbliche e che certo anche ieri i giovani magistrati avvertivano concretamente, tutta attorno a loro: nel salone del Quirinale, innanzi alle supreme autorità dello Stato. Parla dunque Mattarella a ragion veduta quando raccomanda di non smarrire, tutti compresi del proprio ruolo, «il senso dei propri limiti, particolarmente di quelli istituzionali». Di non smarrirli per via dell’aria rarefatta che si respira intorno a loro, dell’ossequio che è loro comunque dovuto, del silenzio carico di tensione con il quale l’imputato attende il verdetto, o della sensazione di potere che si prova spiccando un provvedimento e mandandolo ad esecuzione.

Pochi anni fa, l’editore Sellerio ha ripubblicato il «Diario di un giudice», scritto negli anni Cinquanta da un magistrato, Dante Troisi, che dopo la pubblicazione del libro finì sotto processo per aver leso il prestigio della magistratura. In realtà, aveva solo provato a mettere anche lui in guardia i giudici dal sentirsi «intangibili ministri della divinità». È un rischio concreto connaturato a una condizione quasi-sacerdotale, alla distanza e alla solitudine legata alla funzione, che può facilmente divenire scollamento e, quindi, rovesciarsi in arbitrio. E può dettare pensieri scandalosi come questo che Troisi annotava nel suo Diario: «Perché mi lamento di oggi? Questa di oggi è una giungla più comoda; son riuscito a salire su un albero per colpire la gente che passa sotto. Presto proverò gusto a centrarli, senza trascurare il piacere di lasciare indenne qualcuno, per goderne la meraviglia». Certo, oggi la figura del magistrato è molto meno sacralizzata di quanto non fosse nel 1955, quando uscì il «Diario». La magistratura è molto cambiata e, con essa, anche la società italiana. Ma è bene che il Presidente della Repubblica abbia lasciato ieri il «percorso del discorso scritto» per darci una pagina del suo diario, una cifra vera della sua stessa, personale esperienza. Perché ne è venuta una autentica lezione di democrazia, che vive solo se si riversa anche nella dimensione dell’ethos professionale, senza di cui non sarà mai possibile domare il ruggito dell’arroganza che si nasconde al cuore di ogni posizione di potere.

(Il Mattino, 7 febbraio 2017)

La cura per un paese normale

Crisi: Mattarella, Italia migliora, bene 2016Il primo discorso di fine anno di Sergio Mattarella è stato il discorso di un Presidente, che interpreta alla lettera il posto che la Costituzione gli assegna nell’ordinamento della Repubblica: capo dello Stato e rappresentante dell’unità nazionale. Perciò: nessun riferimento alla dialettica politica fra i partiti, spesso fuori  dalle righe, o ai prossimi, decisivi appuntamenti col voto, nel 2016: referendum confermativo ed elezioni amministrative. Nessun riferimento alle difficoltà, infine superate, di elezione dei giudici costituzionali, o alla crisi bancaria, o al cambiamento della legge elettorale. Mattarella ha scelto di riferirsi unicamente all’Italia, alle condizioni di vita degli italiani. Nel suo discorso hanno così trovato posto anzitutto «le principali difficoltà e le principali speranze della vita di ogni giorno». In primo luogo il lavoro, da cui il Presidente ha preso le mosse: i segnali di ripresa economica del Paese non sono ancora sufficienti a dare il lavoro ai troppi che sono privi. Poi il tema dell’intollerabile livello di evasione fiscale, che danneggia l’economia sana e i cittadini onesti. Quindi le materie dell’ambiente, del terrorismo, dell’emigrazione.

Non si è trattato però di un semplice catalogo di argomenti, sciorinato per creare sintonia con la platea televisiva; si è trattato piuttosto di un esplicito richiamo al dovere fondamentale dei cittadini di avere «cura della Repubblica», espressione che Mattarella ha già impiegato altre volte e che dà bene il senso del modo in cui egli intenda il proprio ruolo, e del modo in cui esorti gli italiani a intendere il proprio. E sotto quella parola, «cura», si sente declinato un richiamo ai principi e ai doveri delle istituzioni e dei cittadini, più che ai diritti. È come se le  diverse questioni economiche e sociali, o ambientali, o internazionali, affrontate nel discorso, ricevessero, nelle parole di Mattarella, un supplemento di significato, che le riporta alla preoccupazione di fondo del Presidente, declinata però nel suo uso quotidiano, nella vita di tutti i giorni: aver cura dell’Italia, avere a cuore il nostro Paese. Il dovere, l’impegno, la responsabilità: sono questi, infatti, i termini per i quali correvano le parole del discorso presidenziale.

Altro tratto stilistico distintivo è stato il riferirsi alle istituzioni nel loro insieme, senza mai far riferimento al governo o al Parlamento o ad altri organi dello Stato, e il tenere sempre insieme all’impegno delle istituzioni pubbliche quello della società, dei cittadini, della sfera privata dei rapporti economici e civili. Nessuna contrapposizione fra società civile e società politica, dunque, ma un’idea di Paese come concerto di energie diverse, impegnate tutte con eguale responsabilità.

Su due temi Mattarella è sembrato mostrare una particolare sensibilità: quello ambientale e quello migratorio. E in entrambi i casi i riferimenti sono andati alle preoccupazioni quotidiane dei cittadini, agli stili di vita e alla doverosità dei comportamenti, più che alle sedi politiche di dibattito e decisione. Sull’ambiente, ad esempio, Mattarella non ha richiamato i recentissimi risultati della Conferenza di Parigi e l’accordo sulla riduzione dei gas serra, ma ha preferito parlare dell’inquinamento delle nostre città, della limitazione nell’uso delle auto private (e, al contempo, del dovere di erogare servizi di trasporto pubblico efficienti). A proposito di emigrazione, il Presidente ha dedicato un cenno veloce, ma incisivo, all’insistenza con cui l’Italia chiede all’Unione europea un salto di qualità nel governo collegiale del fenomeno migratorio, ma poi ha voluto dedicarsi al valore dell’accoglienza, della convivenza, dell’integrazione. E, con equilibrio, ha aggiunto che accoglienza implica comunque rigore, severità verso i comportamenti irregolari o illegali, e «rispetto per le leggi e la cultura del nostro Paese».

Ci voleva, un discorso così. Chiaro, comprensibile, senza acuti o note polemiche, rivolto più ad esortare che a stigmatizzare, misurato e rispettoso dei poteri, fermo nei principi ma non per questo ostile ai cambiamenti, un discorso di un Presidente della Repubblica che tiene alla fisiologia dei rapporti fra le istituzioni, e fra le istituzioni e i cittadini, che esercita per questo il suo ufficio di raccordo, e che può dunque aiutare l’Italia a ritrovare l’assetto, politico e istituzionale, di un Paese normale.

(Il Mattino, 2 gennaio 2016)

Le armi e le lobby più forti di Obama

1998.1.275

La strage di San Bernardino, in California, è solo l’ennesima, futile strage. L’ennesimo episodio di follia, a leggere sbigottiti le cronache, se alla follia dobbiamo ricondurre un’esplosione di violenza insensata, cieca, priva di scopo. Questa volta in un centro disabili, altrove volte in una scuola, oppure in un supermarket: posti di vita ordinari, trasformati improvvisamente in poligoni di tiro.

Una violenza insensata, però armata secondo la legge. Le armi che hanno sparato ieri sono con ogni probabilità legalmente detenute dai killer, come tutte quelle che hanno fatto vittime negli States in episodi tragicamente simili. Non più tardi di due mesi fa, il Presidente Obama tenne un discorso – qualcuno li ha contati: il quindicesimo dopo un eccidio causato da armi da fuoco – e ammise sconsolatamente che quei discorsi, così come i servizi televisivi che li accompagnano, e le frasi che si dicono nei giorni successivi, sono tutte cose ormai «di routine». Due anni fa, nel 2013, dopo l’ennesima strage, Obama si era invece presentato alla stampa e al Congresso, insieme al vice Presidente Joe Biden, dicendosi determinato a far approvare un piano dettagliato: divieto di vendite per le armi con maggiore potenza di fuoco, limitazione delle possibilità d’acquisto in base a precedenti penali o alla presenza di determinate patologie, campagna di informazione: cose così, di buon senso. Non sono passate. E francamente è difficile ipotizzare che Obama riesca ora, nell’ultimo anno di Presidenza, a farle passare. Se ci riuscisse, certo lui passerebbe alla storia. Incerto e titubante in politica estera, vincerebbe la partita più difficile, contro il pericolo massimo: garantire la sicurezza degli americani dagli americani stessi. Sono loro, infatti, che lasciano più vittime sul selciato. O tra i banchi di scuola, in mezzo agli scaffali di un supermarket, dietro le auto in un parcheggio.

Per temere però che Obama non ci riuscirà neanche questa volta è sufficiente dare un’occhiata agli spot pubblicitari della National Rifle Association, la potentissima lobby delle armi. Oppure consultare i sondaggi, dai quali emerge che la maggioranza degli americani continua a ritenere che sia più sicuro vivere con una pistola in tasca, anche se per la medesima esigenza di sicurezza in tasca la pistola ce l’ha anche il tuo vicino. Quanto agli spot: libertà, sicurezza, armi, condita da richiami ai padri della Patria e alla Costituzione: da questa potente retorica non si sfugge. I grandi spazi e l’uomo che li percorre confidando solo sulla canna del proprio fucile, o sul calcio della propria pistola, rimangono miti fondativi della libertà americana.

Già, la Costituzione degli Stati Uniti d’America, quella che gli americani non cambiano mai. Il secondo emendamento dice: «essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una milizia ben organizzata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto». Vuol dire: se c’è un esercito, allora ci deve essere per ogni cittadino la possibilità di armarsi. Per la Costituzione americana nessun cittadino cede insomma allo Stato il diritto a difendersi da sé, visto che dallo Stato, dalla sua stessa milizia deve potersi difendere . È come se non vi fosse alcun monopolio della violenza legittima, come invece recita la canonica definizione di Max Weber. Nessun monopolio: ogni cittadino, all’occorrenza, può sparare.

Lo scorso giugno Obama aveva mostrato di voler gettare la spugna: «non prevedo – aveva detto – che questo Congresso adotterà alcuna iniziativa legislativa. E non prevedo alcuna azione incisiva fino a quando il popolo americano non percepirà un sufficiente senso di urgenza che li porti a dire: Questo non e’ normale, questo è qualcosa che possiamo cambiare e lo faremo».

Difficile che i morti di ieri spingeranno il popolo americano a cambiare idea. Quanto al suo Presidente, sarà purtroppo costretto a rilasciare dichiarazione di routine.

(Il Mattino, 3 dicembre 2015)