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I finti giovani del Paese che non cresce

È anche possibile che i giovani non esistano più. Se nelle università si è professori giovani fino a cinquant’anni, se le associazioni di giovani imprenditori possono essere guidate da splendidi quarantenni, se la legge garantisce l’apprendistato fino a trenta, non sarà perché i giovani, quelli veri, non esistono più? E d’altra parte: se abitudini di consumo adulte, dalla moda alla telefonia, riguardano ormai anche i bambini sotto i dieci anni, non sarà perché da adolescenza e gioventù non c’è da aspettarsi più nulla?  Se i giovani non esistono, è presto spiegato perché, a fronte di tassi di disoccupazione giovanile drammatici – specie nel Mezzogiorno, specie femminile, specie fra gli strati sociali più deboli – non vi siano segnali di riscossa o reazione. Abbiamo il record in Europa per disoccupati fra i 15 e i 24 anni (29,6%), ma lo scollamento fra anagrafe e stili di vita occulta il dato, e una condizione giovanile, spalmata truffaldinamente fin quasi alle soglie della pensione, anestetizza il malcontento: se i giovani non esistono, come possono protestare?

In realtà esistono, e non è la migliore politica quella di chi pensa che l’abbiamo scampata bella, se non vi sono segnali di conflittualità sociale e generazionale. Poiché è di gran lunga più preoccupante la secessione di intere generazioni dal futuro dell’Italia di un sano spirito di opposizione nel paese. Nel corso del ‘900, essere giovani ha voluto dire tante cose, e in verità, dagli ardori futuristi di inizio secolo alle contestazioni giovanili sessantottine e post-sessantottine, non sempre le iniezioni di gioventù hanno giovato all’Europa; ma mai, a nessuna società nella storia del mondo, ha potuto giovare la scomparsa di intere generazioni dalla costruzione della realtà politica e sociale del paese.

Poiché questo è quello che rischia di accadere, se si asseconda la china che l’Italia, paese che ha la struttura per età più invecchiata d’Europa, ha preso. I giovani sono pochi, lenti e in ritardo, ha scritto Massimo Livi Bacci. E in effetti sono davvero pochi, rispetto alle altre nazioni europee, e anche rispetto alla composizione demografica di trenta anni fa. Sono lenti, nel percorrere le vie della formazione e della qualificazione professionale e per conseguenza in ritardo agli appuntamenti con l’età adulta, dall’ingresso nel mondo del lavoro alla formazione di nuclei familiari autonomi.

Eppure c’è qualcosa, che appartiene alla gioventù, di cui ha bisogno il nostro paese, specialmente nei momenti di crisi. È il senso dell’ora, la percezione che qualcosa di decisivo può accadere proprio adesso. Giovane è infatti colui che possiede il senso dell’imminenza, l’impazienza di chi non vuole aspettare, e infine la sensazione che finalmente tocca a lui. Tutte le intemperanze, ma anche tutte le opportunità nascono da qui: bisogna sentire che è la volta buona, per darsi una mossa. Tutto congiura, invece, perché ai giovani siano sottratte occasioni, e perché essi non le abbiano neppure in vista, per desiderare di procurarsele.

A questo deludente sentimento del tempo è peraltro connessa l’esperienza stessa della modernità. Moderno viene infatti da modus, che vuol dire appunto: ora, adesso. Non si può essere moderni se non si è in linea con il proprio tempo e non si avverte la necessità di cambiarlo ora. Purtroppo, poche volte nella storia d’Italia si è avuta la percezione di questa urgenza: che qualcosa stava capitando, e bisognava esserne partecipi. Per di più prevalgono, in un paese a bassissimo tasso di mobilità sociale, continuismo, corporativismo, conservatorismo.

Ma cosa si può fare, per restituire ai giovani il senso del futuro? Non c’è  che un modo: crescere. Tutte le fasi in cui i giovani si sono mobilitati, fino a scuotere le fondamenta della società, sono state fasi di crescita, a volte anche impetuosa. È stato così in Europa, è così oggi (pur con tutte le differenze) nei paesi arabi. Non basta dire infatti  che sono paesi giovani: lo erano anche nei decenni scorsi. La vera differenza la fa la crescita: sociale, economica, civile; la convinzione che è il momento di costruire un domani diverso. Quando un paese cresce, i giovani sono i primi ad accorgersene e a pretendere il futuro per sé. Quando un paese è immobile, i giovani imbolsiscono, e tutti gli altri invece si mettono ridicolmente a fare i giovani. Ma nessun paese invecchiato può crescere, e, d’altra parte, se un paese non cresce invecchia e, infine, muore.

(Il Mattino, 3 ottobre 2011)