Il cammino che ha percorso la religione, nei paesi europei, non rende semplice l’integrazione di forti identità confessionali. Charles Taylor, filosofo canadese, tra i maggiori studiosi contemporanei dei processi di secolarizzazione, ha riassunto la formula dell’esperienza americana, così differente da quella europea, in questi termini: va’ nella Chiesa che vuoi, ma vacci. Una formula che la maggior parte degli europei oggi non saprebbe o vorrebbe fare propria. Taylor aggiungeva poi questa parola di commento: «quando anche gli imam fecero la loro comparsa alle colazioni di preghiera, tra i preti, i pastori e i rabbini, fu il segno che l’Islam era stato invitato a far parte di uno stesso consesso». Di nuovo: un invito simile non sembra che possa venir formulato dalla generalità dei cittadini europei (a parte, naturalmente, lo spirito ecumenico di pochi). Chi lo vuole un imam a colazione? Per Taylor, la spiegazione starebbe in ciò, che mentre l’integrazione nella società statunitense è avvenuta «attraverso» la fede o l’identità religiosa,in Europa l’integrazione ha potuto compiersi «solo ignorando, marginalizzando o relegando nella dimensione del privato ogni eventuale identità religiosa». Le ragioni di questa differenza sono molte e complesse, e affondano le loro radici in una storia plurisecolare; il risultato però è questo: in America, tutto ciò che può iscriversi in una forma di patriottismo nazionale mantiene un contatto con la sfera del religioso; non così in Europa, dove forme anche varie e declinazioni anche diverse di religione civile si sono di molto raffreddate. L’Unione Europea è anzi – per continuare con la metafora –il punto di maggior freddezza che l’umanità abbia mai raggiunto, quanto a temperatura religiosa. E però l’immigrazione porta in Europa uomini e donne che hanno invece un rapporto ancora molto intenso con la religione. Non sto parlando di varianti fondamentaliste o integraliste o fanatiche, che è facile giudicare un pericolo per la convivenza democratica: parlo della più comune esperienza religiosa, di precetti, presenze rituali, cerimonie. A noi europei tutto ciò ormai fa strano, molto più strano che non agli americani, che infatti hanno percentuali più alte di credenza e pratica religiosa.
Il confronto con l’esperienza americana è importante, perché nessuno dubita che la società americana sia, anzitutto nelle sue istituzioni politiche, una società secolarizzata. Ma lì la secolarizzazione convive più facilmente con le manifestazioni dello spirito religioso di quanto non accada da noi.
Non propongo queste considerazioni per trarne la conclusione che dunque il problema è nostro: del nostro palcoscenico ideologico, così poco ospitale nei confronti della credenza religiosa. Nient’affatto: abbiamo tutto il diritto di essere ciò che siamo. Dico solo che è difficile, che i processi di integrazione sono complicati, per quanto – io credo – necessari. Investono cioè strutture profonde della società, che non sempre hanno l’elasticità necessaria per resistere alle tensioni e torsioni a cui sono sottoposte, soprattutto nei tempi di crisi. È bene saperlo. Possiamo certo contare sulla buona volontà di molti, ma non è detto che basti, e soprattutto non è detto che si abbia davvero tutto il tempo che ci vuole. Anzi: politicamente parlando, a ogni attentato è certo che il tempo a disposizione si accorcia (e i terroristi ovviamente lo sanno).
La notizia dell’arresto del cittadino algerino a Bellizzi mi ha dato però due cose da pensare. La prima, è la cosa alla quale più spesso ho associato il nome di Bellizzi, da qualche anno almeno a questa parte. Dico piazza Antonio De Curtis, e la statua di Totò (una delle prime, se non la prima in Italia). Domando: quanto tempo ci vuole a un cittadino algerino, che passa per quella piazza e qualche volta si siede vicino a quella statua, per innamorarsi di un film di Totò, per ridere delle sue battute? Con certe sue smorfie è più facile, ma con certi suoi giochi di parole? Quanto tempo ci vuole a capirli, a spiegarli, a farli propri e magari a tirarli fuori la sera con gli amici? Se ci vuol tempo, e un bel po’ di vita in comune, quanto ce ne vuole per tradurre tutto il resto di una cultura e di una forma di vita? Lo sforzo – ripeto – è indispensabile, e rinunciarvi è stupido, oltre che insensato. Ma bisogna sapere che in ogni traduzione del genere, sono mondi interi che vengono a confronto, e provano a riversarsi l’uno nell’altro.
La seconda cosa a cui ho pensato è come mai il sindaco abbia annunciato, all’indomani dell’arresto di Djamal Eddine Ouali, che si procederà al censimento dei circa seicento immigrati presenti a Bellizzi, molti dei quali costretti a vivere in condizioni poco dignitose. Nessuno però capisce perché un’Amministrazione si ponga solo l’indomani il problema di sapere chi vive, dorme, lavora nel territorio comunale. Possiamo infatti scomodare lo spirito europeo e quello americano, Charles Taylor e il secolarismo, e fare le più dotte riflessioni sulle mediazioni culturali necessarie per unire le sponde del Mediterraneo, le religioni del Libro o più semplicemente i ricchi e i poveri, e quelli che non hanno più nulla dietro di sé e quelli che si tengono stretti quel (poco o molto) che hanno per sé, ma se poi c’è bisogno di un arresto clamoroso per accorgersi di seicento immigrati finora invisibili, è molto difficile ragionare di politiche di integrazione o di sicurezza, di accoglienza o di controlli. Finisce che possiamo solo augurarci che chi viene qui venga per cercare di vivere una vita decente, perché gliene verrà del buono anche a lui.
(Il Mattino, 29 marzo 2016)