Archivi tag: docenti

Merito e discrezionalità, ecco la misura perfetta

Immagine2Quanti soldi ci sono per la «buona università», di cui si comincia a parlare? Domanda ineducata, triviale, culturalmente in ritardo: abbiamo infatti imparato che contano, certo, le risorse, ma conta di più la maniera in cui vengono spese. Le riforme devono investire il livello ordinamentale, la governance, la valutazione: non si può ridurre tutto a una questione di voci di bilancio col segno più o col segno meno. Benissimo. Con l’ostinazione tipica dei fatti, resta però vero che i paesi più forti investono di più in ricerca e formazione, e che l’università italiana si è vista in questi anni tagliare il fondo di finanziamento con geometrica precisione. Quindi buttiamola pure via questa prima, rozza considerazione, e prendiamo però atto, almeno, che continua imperterrito il blocco delle classi e degli scatti stipendiali per i docenti universitari. Facciamo pure che questo non significhi minimamente scarsa considerazione della figura docente e dell’università pubblica, ma ragioniamo su quale attrattività abbia oggi la posizione del ricercatore universitario a confronto con il settore privato (o con la stessa posizione occupata, però, all’estero).

E diciamo del merito, e della sua valutazione. Il sistema universitario viene valutato anzitutto dall’Agenzia Nazionale di Valutazione. l’ANVUR, e l’ANVUR, per esser chiari, non funziona. Non funziona per come viene formata, temo, e non funziona per come lavora. Qualunque intervento legislativo si voglia adottare nei prossimi mesi dovrà occuparsi della faccenda, e dovrà farlo a maggior ragione se vorrà fondare la propria legittimazione sulla parola d’ordine del merito. Ci mancherebbe pure che didattica e ricerca non debbano essere valutati (dico e l’una e l’altra, perché l’università non è solo didattica, certo, ma non è neppure soltanto ricerca). Del resto, lo esige la Costituzione, alla voce «capaci e meritevoli». Ciò detto, siamo però assai lontani da «un sistema di valutazione ben congegnato e implementato per migliorare la qualità della ricerca», per dirla con le parole (critiche) della Conferenza dei Rettori.

Ognuno ha, al riguardo, i suoi esempi da portare: non è un caso, perché quel che fanno i filosofi è molto distante da quello che fanno, poniamo, i medici, e le rispettive comunità di ricerca funzionano in maniera alquanto diversa. Poiché appartengo al primo gruppo, quello dei filosofi, mi pronuncio a spanne, e provocatoriamente, ma provando almeno a dare il sapore della cosa. E dunque: qualunque sistema di valutazione che non promuovesse al più alto rango Platone, Aristotele, Kant e Hegel ben difficilmente sarebbe un buon sistema. Se una qualunque classifica non li vedesse ai primi quattro posti (scegliete voi l’ordine) sarebbe sbagliata la classifica, non sbagliati loro. Questo però è quello che si sarebbe potuto verificare con le abilitazioni scientifiche nazionali, e che si può ancora verificare con la valutazione dei prodotti della ricerca. Certo, si può sostenere che non sempre il miglior ricercatore o scienziato è tagliato per l’università: vero. Ma è altrettanto vero che l’università dovrebbe preoccuparsi comunque di come tenerlo dentro, non di come lasciarlo fuori.

Voglio però dire una parola in più sul mio metodo spannometrico. Cosa esso presuppone? Che si sappia bene cosa è eccellente, per ragionare solo poi sul modo di farlo emergere e risultare. Qualcuno potrebbe obiettare che questo è il contrario di un buon metodo scientifico, e che contiene un margine assai ampio di discrezionalità. Rispondo: è così. Ma è inutile, temo, ragionare di merito, valutazione, eccellenze, se si rinuncia all’esercizio discrezionale di un magistero, per il quale passa ogni vera trasmissione di sapere, creazione di scuole di ricerca, formazione di tradizioni disciplinari. Da anni siamo assediati da classifiche e punteggi e standard e mediane (con l’ingombro burocratico che comportano), che, nel migliore dei casi, confermano quel che già si sa, e nel peggiore lo capovolgono, però con l’avallo ipocrita di una presunta neutralità e obiettività della valutazione.

Questioni di filosofia, forse, che c’entrano poco con l’intero sistema universitario e ambiti di studio più omogenei dove invece domina il rigore scientifico. Non ne sarei così sicuro, e non rispolvererei antiche divisioni fra saperi scientifici e saperi umanistici. Conosco ottimi ingegneri che pensano la stessa cosa, e mi dicono di conoscere le migliori teste del loro settore molto più rigorosamente di qualunque griglia ministeriale. Il punto vero è invece il collegamento – questo sì rigoroso – fra l’esercizio di valutazione e la responsabilità e la premialità per quell’esercizio (e le compatibilità di bilancio: va da sé): ma è folle pensare di eliminare la discrezionalità senza uccidere se non la ricerca, di sicuro l’ethos del ricercatore.

Poi, certo, i problemi dell’università sono anche altri, e forse maggiori. In cima all’elenco sta il diritto allo studio; di rincalzo, le sperequazioni fra le università del nord e quelle del sud, e la necessità di adottare indici che nell’allocazione delle risorse tengano conto delle differenze territoriali, demografiche, sociali: non è la stessa cosa reperire fondi in un’area depressa e in una in piena espansione. Aggiungo poi lo svecchiamento della classe docente e la nuova sfida telematica, cioè le università a distanza, che hanno tutt’altra struttura di costi e che devono essere spinti a elevare, di parecchio, la qualità della loro offerta.

Ma una riforma dell’università, se è tale, ha da essere anche, se non soprattutto, un discorso sul sapere universitario, deve cioè portare con sé un’idea generale (universitaria, appunto) del sapere. Se qualcosa vi può essere ancora più su di essa, sarà forse una “politica” del sapere; ma allora bisogna esplicitarla, non nasconderla dietro una batteria di tabelle o dietro anonime procedure di calcolo.

(Il Mattino, 22 settembre 2014)

Lo psicodramma sale in cattedra, ma agli studenti chi ci pensa?

che fatica riformarIl racconto era da fine del mondo. Passata la quale, però, si scopre con qualche stupore che la deportazione forzata e l’esodo biblico dei docenti assunti nella scuola non ci sono stati. Non, almeno, nelle proporzioni temute. Il Ministro dell’Istruzione Giannini ha fornito laconicamente i dati: le persone che hanno trovato posto fuori regione sono solo settemila. Di queste, la maggior parte proviene dalla Sicilia e dalla Campania, mentre le sedi di destinazione si trovano per lo più in Lazio o Lombardia. Come se non bastasse, il Ministro nota che il numero di spostamenti «lunghi» è inferiore a quello dello scorso anno, quando i precari a caccia di supplenze annuali, emigrati per lo più da Sud a Nord, è stato di circa 7700.

E questo è quanto. Resta da completare il piano di assunzioni, che a fine anno toccherà quasi quota centomila, ma alla fine il numero dei «deportati» si aggirerà intorno al quindici per cento del totale.

E l’ora x? E il timore e il tremore con il quale si è attesa la mezzanotte, la fronte imperlata di sudore, le lacrime e le mani giunte? Parliamoci chiaro: giudicata dal punto di vista di chi si trova costretto ad emigrare, ci può stare lo sconforto per un esito della propria carriera scolastica che dopo anni di precariato, in qualche caso decenni, si sperava diverso. Ma appunto: dopo anni o decenni. Non dunque all’assunzione scattata quest’anno, ma al ritardo accumulato negli anni scorsi, all’imballamento del sistema, all’intasamento delle graduatorie vanno imputate le difficoltà soggettive  in cui si trovano persone non proprio di primo pelo, o di prima nomina, che dopo anni di sacrifici devono riprogrammare la loro vita personale e familiare, per ottenere il sospirato posto fisso.

Come dobbiamo invece guardare la cosa, se la giudichiamo con un metro un po’ più oggettivo, avendo riguardo alle esigenze complessive del mondo della scuola, ai posti vacanti e agli studenti? È così negativo il fatto che a partire dal prossimo anno scolastico vi saranno in aula centomila docenti di ruolo in più, con tutto ciò che questo significa in termini di qualità e continuità della didattica? Davvero bisogna continuare a prendersela con l’impianto autoritario della legge, come recrimina il sindacato? La Giannini merita veramente di vestire i panni di un novello Minosse, che «giudica e manda secondo ch’avvinghia», e questa la sbatte da Cefalù a Cantù e quell’altra la sposta da Boscoreale in Val Camonica, e tutti e tutte manda in gironi infernali, dov’è pianto e stridore di denti?

Non pare proprio. La fine del mondo non è arrivata. Le famiglie si informano sui libri di testo, sui bus che porteranno a scuola i loro figli, sull’orario scolastico, sul nuovo preside d’istituto o sul nuovo professore di matematica. La scuola italiana non ha certo voltato pagina tutta in una notte, ma quelli che si aspettavano l’apocalisse – o forse solo braccia conserte e banchi rovesciati – devono ricredersi. E, alla luce dei numeri snocciolati dal Ministero, riesce difficile non pensare che la «buona scuola» sia stata in questi mesi il terreno di uno scontro tutto politico, di un tentativo di mettere in difficoltà la maggioranza di centrosinistra alienandogli una parte della sua tradizionale base sociale. Se così non fosse, non sarebbe mai stato possibile che il nodo dei trasferimenti divenisse la prova provata di una legge sbagliata e iniqua, quando invece si è trattato solo di un passaggio organizzativo non molto diverso da quello che ad inizio di ogni anno la scuola ha dovuto affrontare, mandando i supplenti a coprire le cattedre vacanti, lì dove si trovano (che non è sempre dove si desidera che siano). La vera differenza è che quest’anno su quelle cattedre ci vanno docenti di ruolo, ma è una differenza positiva, che torna a sicuro vantaggio degli studenti.

Insomma: una vicenda assai istruttiva. Fare le riforme in questo paese è complicato assai. Anche perché si viene intralciati, come s’è visto, da polemiche spesso pretestuose, o francamente di sapore corporativo, quando invece su ben altri terreni ci si dovrebbe misurare: sui contenuti didattici, sulle metodologie, sulla mobilità studentesca, sui contenuti dell’aggiornamento professionale, sul rapporto col territorio e le famiglie, sulle risorse e le strutture disponibili. La verità è che la riforma della scuola non è fatta dai nuovi docenti, soprattutto quando nuovi essi non sono, ma magari un po’ attempati, un po’ stanchi, a volte sfiduciati. Questo spiega la scarsa propensione di taluni a prendere una nuova strada, quando un pezzo di essa è stata già percorsa, ma non giustifica le strategie politiche o sindacali, costruite strumentalmente sopra.  E soprattutto costringe a mettersi nei panni degli studenti, quelli che la strada nuova debbono ancora provare a tracciarla. A essi cosa possiamo augurare? Di incontrare docenti con il futuro dietro le spalle, o piuttosto in grado di mostrarlo davanti a loro? E a quanti chilometri da casa si trova oggi il futuro?

(Il Mattino, 3 settembre 2015)

Decisione difficile ma l’occasione è davvero unica

Acquisizione a schermo intero 19082015 224036.bmpA proposito di buona scuola, si può dire: è arrivata in ritardo. Si può anche sostenere, elevando il tono della discussione con una considerazione più generale e quasi metafisica che, nell’ordine del calcolo e del capitale, gli uomini sono diventati ormai, come diceva crudamente Jean Baudrillard, «l’escremento del tempo»: mentre infatti il tempo è indispensabile e non può andare perduto senza commettere peccato mortale di inefficienza, le nostre vite, le nostre esperienze, le nostre storie possono essere perdute, azzerate o anche solo comprate e vendute. Per molti di coloro che, dopo anni di sacrifici e di vita precaria (non solo di lavoro precario), sono chiamati a decidere se accettare di trasferirsi lontano da casa, la prospettiva di dover ricominciare daccapo, da un’altra parte, dovendo quindi riorganizzare tempi di lavoro, abitudini familiari, relazioni sociali (sostenendo anche i relativi costi), equivale a cancellare un pezzo della propria vita.

Però la riforma è arrivata, e va forse giudicata in maniera un po’ più prosaica. Il piano di assunzioni che ne accompagna l’adozione comporta l’immissione in ruolo di decine e decine di migliaia di docenti. Si ha un bel dire che il governo non ha fatto altro che ottemperare a una decisione della Corte europea, che impediva di tirare avanti con l’esercito dei precari: sta il fatto che una decisione è stata presa e una responsabilità assunta. E ha proporzioni quasi storiche. Questa decisione non poteva però servire semplicemente a sanare le condizioni soggettive dei singoli docenti, deve anche consentire di coprire i vuoti negli organici scolastici, e purtroppo la loro dislocazione non corrisponde alle richieste degli aventi diritto. Di qui la «deportazione» di cui parlano polemicamente quanti (circa uno su cinque, a quel che si legge), trovando assurdo che dopo anni di supplenze la presa di servizio possa avvenire a centinaia di chilometri di casa, rifiutano di presentare domanda.

È una scelta amara, che si può capire, specie se compiuta da parte di persone non più giovani, che non cominciano adesso il loro percorso professionale, che magari hanno già preso casa e messo famiglia, o che semplicemente non sono disposte a destinare i loro prossimi stipendi a sostenere le spese necessarie a trasferirsi armi e bagagli al Nord (perché diciamolo: il sacrificio viene chiesto anzitutto ai docenti meridionali, e pure questo è un aspetto dell’impoverimento del Sud).

Ma nel computo delle cose di cui tenere conto, e per una valutazione complessiva del piano di assunzioni straordinario, va considerato pure che viene finalmente offerta una soluzione lavorativa stabile a un vastissimo numero di docenti; che solo per una parte minoritaria dei nuovi assunti si profila la possibilità di un trasferimento lontano da casa; che non è da escludersi la possibilità di avvicinamento nei prossimi anni. E, infine, che c’è un anno di tempo – a quanto si apprende– per prendere la decisione. Un anno di tempo significa che la scelta non è più una pistola puntata alla tempia, un dentro o fuori  pronunciato come una sorta di ultimatum, ma consente almeno un tempo di ponderazione, e così di osservare un certo assestamento del nuovo sistema.

La buona scuola è un difficile incastro fra esigenze diverse. Diverse, si vorrebbe dire, per ogni ordine e grado scolastico, ma anche per esigenze territoriali, percorsi professionali, progetti formativi. Immettere centomila nuovi docenti in un mondo così differenziato, non creandoli ex novo, ma prendendoli dalle graduatorie formatesi – anzi incancrenitesi – nel corso di anni e anni, non era e non è un’impresa facile, se almeno si vuole evitare che il tutto somigli semplicemente a un «ope legis» privo di qualunque criterio e di un minimo di necessità funzionale. Questa necessità è, appunto, una necessità, e cioè non discende – diciamolo chiaramente – dai più alti fini che la legge dichiara fin dal suo primo articolo: mettere la scuola al centro della società, innalzare, rispettare, recuperare, garantire, valorizzare, realizzare. Eccetera eccetera. Qui si trattava di risolvere un problema eminentemente pratico, generato da ritardi storici accumulati nel corso di anni e anzi di decenni, cercando di far incontrare le esigenze del sistema scolastico e quelle del personale docente. Certo, si può anche rinunciare a cercare compromessi del genere e  anzi ogni genere di compromesso. Quanti pensieri acuti non si trovano – solo per fare un esempio – nella prospettiva di un intellettuale irregolare come Ivan Illich, che, prima di Pasolini, auspicava la «descolarizzazione» della società, accusando la scuola di ogni nequizia: di inquinamento fisico, di polarizzazione sociale, di impotenza psicologica. Ma, per seguirlo, bisogna abbandonare del tutto il giudizio prosaico sull’istituzione, e insieme con esso anche cose come il conto dei posti disponibili, le carenze in una materia o nell’altra, i punteggi, le graduatorie e tutto il resto. È, se si vuole, una nobile scelta di vita, ma per fortuna c’è vita pure nelle istituzioni: nel loro spirito e nelle loro necessità.

(Il Mattino, 20 agosto 2015)