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Se la politica si cela dietro una maschera

neutraTra Virginia Raggi e il Campidoglio c’è di mezzo il voto di domenica, ma pure qualche grana, scoppiata nelle ultime ore con la rivelazione che tra le cose non dichiarate dalla Raggi ci sono pure incarichi ricevuti da aziende pubbliche. Il principio grillino dell’assoluta trasparenza di tutti su tutto e innanzi a tutti sembra violato, e così pure la veridicità delle autocertificazioni presentate dalla aspirante sindaco al Comune di Roma, ma per i Cinquestelle sono solo schizzi di fango, sollevati strumentalmente. O al massimo pagliuzze, a confronto delle travi che sarebbero negli occhi di tutti gli altri.

Ed effettivamente di pagliuzze si tratta, a confronto con le inchieste di Mafia Capitale, o con i quotidiani conti che l’opinione pubblica è chiamata a fare con le inchieste per corruzione. E però se uno impronta tutta la propria retorica, e coltiva il proprio elettorato, e fa manbassa di voti sulla base di una intransigente discrimine morale – per cui di qui ci sono solo gli onesti, mentre di là non vi sono che farabutti, o complici dei farabutti – è chiaro che pure le pagliuzze rendono l’occhio meno limpido. E magari un Pizzarotti qualunque potrebbe accorgersene e chiederne conto: perché al sindaco di Parma si è imputato di non aver comunicato l’avviso di garanzia ricevuto, mentre a Virginia Raggi si permette di presentare dichiarazioni omissive, e forse mendaci?

La risposta c’è, in realtà, ed è pure molto semplice: è la politica, bellezza. E cioè: non quella cosa sporca e ignominiosa che i Cinquestelle pensano che la politica sia, ma quella logica intrisa di realismo, di prudenza, di mali minori, di fini che non giustificano tutti i mezzi ma qualcuno sì, per la quale un movimento politico che si appresta a conquistare la Capitale non butta tutto a mare per qualche piccola furbizia della propria candidata di turno. Si tratta di una logica che però, per farla breve, non permetterebbe di usare l’argomento che tanto sono tutti uguali e fanno tutti schifo (tutti gli altri, beninteso). E tuttavia è proprio questo l’argomento che connota il voto qualunquista che gonfia il risultato elettorale del movimento pentastellato. Sicché come si fa? In un modo solo: accettando non la disonestà morale, ma una certa quota di disonestà intellettuale, per cui certe cose si fanno ma non si dicono, e anzi si dice se mai il contrario. Si dice a gran voce che basta una bugia, un silenzio, la minima violazione di una regola, il più sottile dei veli di ipocrisia per essere espulsi dalle integerrime file dei cittadini a cinque stelle, ma poi si espelle solo se  e quando conviene (oppure solo se non conviene fare il contrario). Se poi nelle regole non c’è salvezza, tocca a chi sta al di sopra delle regole, cioè il garante supremo, Grillo. Ed è lui insindacabilmente a risolvere il caso. a sua totale discrezione.

Sul voto di domenica questa vicenda non inciderà più di tanto. Ma c’è un problema più di fondo, che va oltre il voto e che perciò merita di essere segnalato. Perché quella logica della politica che i Cinquestelle rifiutano a parole, ha dalla sua la forza delle cose reali. Le cose reali sono quelle che ritornano, e che le parole, alla lunga, non riescono a superare. Si prenda il caso De Magistris, il più clamoroso scollamento fra la demagogia messa in campo per raccogliere consenso, e i concreti atti amministrativi e di governo della città. Sui quali De Magistris non chiede di essere giudicato, preferendo invece parlare di laboratorio Napoli e di un movimento politico transnazionale che rivoluzionerà la democrazia italiana e, perché no?,quella mondiale.

Anche nel caso del voto napoletano, al tornante elettorale si presenterà probabilmente davanti il populismo «non leaderistico» di De Magistris (non leaderistico, dice il Sindaco: e se lo fosse stato, di grazia: cosa sarebbe stato?). Ma resta la doppiezza retorica: non solo la fuga dai problemi veri della città, ma, più gravemente ancora, la rimozione di quell’esercizio di responsabilità in cui la politica consiste.

Le maniere di proporsi dei grillini, come di Giggino, si somigliano molto: e infatti il sindaco di Napoli lancia abboccamenti e manifesta simpatie. Non direi però che sono tutte e integralmente di destra. Se mai, di una destra populista e demagogica, disposta a buttare all’aria tutto il quadro degli strumenti politici e istituzionali disponibili, in una democrazia, pur di indossare quella eterna maschera della incorruttibile virtù morale, che consente di fare piazza pulita di tutto il resto e di tutti gli altri.

Capiterà, a un certo punto, di doverla togliere. E non sarà per i peccati veniali della Raggi, o magari di De Magistris col fratello Claudio, ma per la obiettiva necessità di trovare compromessi, condurre mediazioni, assumersi responsabilità, accettare qualche sana incoerenza pur di portare a casa qualche risultato.

Che ne sarà allora del sacro furore dei grillini, o della confusa caciara del bel Gigi?

(Il Mattino, 18 giugno 2016)

Non toccate la domenica

Se non c’è domenica non c’è più tempo eccezionale: non c’è interruzione né rinascita, non rigenerazione né ricominciamento. Almeno così pensano gli antropologi, più preoccupati dei sindacati per l’apertura domenicale degli esercizi commerciali. L’impressione è che non basta rievocare i significati simbolici connessi al tempo festivo: il valore economico di una giornata lavorativa in più li spazza via tutti. Come se il riposo o la festa fossero tempo sprecato; e siccome non c’è più da scialare, non possiamo permetterci nemmeno la calma magnificenza di una giornata trascorsa a rigirarci i pollici da mane a sera.  Per non rinfocolare polemiche fuori luogo, non chiederemo se il governo in carica non sia la prosecuzione della politica di Berlusconi con altri mezzi: troppo evidenti sono le diversità. Però questa cosa che una domenica in cui tutti insieme si porta a spasso il cane, si vede la partita, si comprano i dolci o si fa una gita fuori porta – che una domenica così, un po’ diversa dagli affanni di ogni giorno, sia un lusso insostenibile sembra prolungare l’eco di quel che diceva un certo ministro del precedente dicastero, per il quale con la cultura non si mangia. La cultura è di troppo, insomma, e pure la domenica.

Ma che c’entra la cultura? C’entra e come, c’entra quanto l’Estetica di Hegel. Non perché vogliamo i musei aperti anche di domenica (e questo è giusto), ma perché commentando l’esistenza “retta e serena” rappresentata nella pittura olandese rinascimentale, Hegel aveva trovato questa felice espressione: sembra di vedere la domenica della vita. Le scene popolaresche erano per lui colte, in quei dipinti, nel loro momento ideale: in letizia e schiettezza, in freschezza e serenità. E siccome i temi del lavoro e della vita contadina entravano per la prima volta nella storia della pittura, a fianco di dei ed eroi, santi ed altezze reali, il filosofo assicurava: le persone che sono così cordialmente di buon umore, in osteria o nel mezzo di una festa, “non possono essere del tutto cattive e basse”. E voglio vedere: se posso posare la vanga e bermi un buon bicchiere, dopo una settimana di duro lavoro, anch’io, che sono contadino, tocco il mio momento ideale.

Ora invece che con la domenica, a quanto pare, abbiamo chiuso, il momento ideale s’allontana, e pure il connesso buon umore.  Il fatto è che però, riducendo la domenica a un giorno come gli altri, non si eliminano solo i circoletti rossi sul calendario (provate però a vedere che effetto fa una sfilza di numeri tutti neri, tutti uguali), ma si cancellano anche due o tre cose a cui dovremmo tenere. La prima vale per i cristiani: è il precetto di santificare le feste, di celebrare l’irruzione del tempo di Dio nel tempo degli uomini. Ma le altre due dovrebbero valere un po’ per tutti, perché ne va del famoso significato antropologico, e quello non è uno scherzo, se resiste da diverse migliaia di anni. Padre Enzo Bianchi lo presentava così: c’è una qualità di vita da salvaguardare, e c’è, soprattutto, la necessità di un giorno in cui gli uomini “simultaneamente riposino per potersi incontrare”. Qualcuno penserà forse che, se non si riposa tutti insieme, la domenica si farà meno fila ai caselli autostradali: è probabile, anche se sarebbe bene tornassimo a considerare importante la qualità di vita del lavoratore, non solo quella del consumatore.  Ma è dell’idea che ci si possa incontrare insieme che si sono perse le tracce. E se non si fa questione del solo tempo religioso, perché viviamo in uno Stato laico, non si tratta nemmeno del solo tempo libero, e di come andare insieme al cinema o allo stadio. Si tratta invece di un tempo collettivo che è pur’esso prezioso, legato com’è all’esistenza politica dell’uomo, alla sua dimensione costitutivamente pubblica.

Certo che però se si ritiene che no, gli uomini conducono un’esistenza autentica solo nel privato, allora non si capisce proprio a che serva la domenica, e un semplice esercizietto econometrico ne potrà dimostrare tutta l’inefficienza.

L’Unità, 5 marzo 2012

Buona domenica

"Decisivo oggi è un sì o un no sulla questione: l’appartenenza alla Chiesa cattolica è o no definita dall’accettare la soggezione della propria coscienza in materia morale all’autorità magisteriale, in tutti i casi in cui la propria coscienza (morale) si trovi in conflitto con quell’autorità sulla questione di quale sia effettivamente il bene e il dovere? A me pareva che quella grande innovazione del Concilio comportasse la risposta: no. Non più" (Roberta De Monticelli).
Non c’è domenica, non c’è giorno del Signore, in materia morale.