Era più facile avere certezze sul dopo voto, che non sul voto stesso. Sul voto, fino all’ultimo, non si è potuto dir molto, se non che: gli exit poll danno in lieve vantaggio Hillary Clinton, come nei pronostici della vigilia; l’affluenza alle urne è stata alta e fin da subito si sono viste file ai seggi, come non accadeva da tempo. Soprattutto, il Paese è spaccato a metà: cosa, questa, che è accentuata dalla distanza politica e ideologica tra i due candidati: l’outsider Trump che ha sbaragliato soprattutto il partito repubblicano, da una parte; la democratica Clinton che non appassiona anzitutto i democratici dall’altro. L’una è stata più aperta e rassicurante, convincente soprattutto fra le donne e le minoranze di neri e latinos, ma anche vicina ai grandi poteri economici e finanziari, promessa di continuità senza il brivido dell’avventura o la scommessa dirompente di un break. L’altro è stato dichiaratamente anti-establishment e sopra le righe, in rotta coi politici di Washington e con le élites, portavoce degli americani stufi e risentiti, impoveriti e spaventati.
Ora che la Clinton sembra aver vinto sul filo di lana (ma potremo dirlo veramente solo quando lo spoglio sarà concluso) si può riconoscere che la vittoria di Trump avrebbe provocato un terremoto, mentre quella di Hillary avrebbe l’effetto di rasserenare perlomeno i mercati e le cancellerie europee.
Anche se è finita, però, questa campagna elettorale ha lasciato il segno.
Sul sito della CNN, hanno provato a riassumerla con le parole più cliccate nel corso di questi mesi. Al primo posto sta la parola «trumpery», che non è solo un gioco di parola formato con il cognome del candidato più discusso della storia americana recente. «Trumpery» vuol dire infatti vistoso, appariscente, e non c’è dubbio che il miliardario americano non abbia fatto molto per passare inosservato. Ma non è solo questo; a colpire è la somiglianza che la corsa presidenziale ha avuto con il genere di trasmissioni televisive – popolari anche da noi – in cui non contano bravura, competenza o professionalità, quanto piuttosto capacità di far colpo, disinvoltura nell’infrangere i codici comunicativi standard, forza per imporsi anzitutto con la propria stessa presenza.
Lo choc, insomma. Perché però l’America avrebbe avuto bisogno di uno choc? E perché Trump, comunque sia andata a finire, ha potuto proporsi come un probabile vincitore della corsa alla Casa Bianca? Probabile, «presumptive», è del resto la seconda parola della lista, quella che il tycoon ha cominciato a proporre in maniera martellante subito dopo che Ted Cruz ha abbandonato le primarie, lasciando il campo libero a «The Donald».
La risposta è forse nell’affanno in cui versano i sistemi democratici, di là e di qua dell’Atlantico. Sembrano infatti presi in questa alternativa: o si tengono dentro la carreggiata del buon senso, del ragionevole, del prevedibile (che in America voleva dire Clinton), ma allora non accendono speranze e producono disaffezione; oppure suscitano sentimenti vivaci, passioni contrastanti (che in America voleva dire Trump), ma allora pagano questa vitalità con sgrammaticature e strappi rispetto al tessuto di diritti e di civiltà costruito in una lunga storia secolare.
Un assaggio della tensione con cui questa vigilia è stata vissuta è stato il primo ricorso che lo staff di Trump ha presentato ad urne ancora aperte, in Nevada, dinanzi alle file di elettori ispanici presenti nei seggi anche dopo l’orario di chiusura. Tutto regolare, secondo le autorità, ma per Trump è il segnale di una mobilitazione delle minoranze che potrebbe decidere il risultato finale.
Ora però non mancano i motivi di preoccupazione. Se avremo una prima donna Presidente degli Stati Uniti d’America non è detto che non avremo comunque un Congresso a maggioranza repubblicana. È chiaro comunque che un’elezione ottenuta di misura, in maniera poco convincente e tra molte perplessità – non ultime quelle sollevate dallo scandalo delle email in cui la Clinton è rimasta invischiata – non sarebbe il miglior viatico per il futuro inquilino della Casa Bianca.
E dopo le incognite che hanno gravato sul voto, verranno le incognite del dopo voto. Certo, l’enigma maggiore era Trump. Sulle politiche monetarie e fiscali, aveva tirato fuori solo la generica promessa di abbassare le tasse (un «must» dei conservatori), mentre in politica estera pesava l’inquietante amicizia con Putin. Ma se lo slogan del miliardario, di fare di nuovo l’America grande e rispettata nel mondo, ha avuto presa, è perché dall’altra parte non c’erano grandi risultati di politica estera da esibire. Dalle primavere arabe in poi, la guida di Obama è sembrata molto più riluttante e indecisa di quelle offerte dai Bush, o da Bill Clinton. E Hillary, che è stata Segretaria di Stato nel corso del primo mandato di Obama, non ha potuto non rappresentare anche su questo versante una poco convincente continuità.
Da qualunque parte le si guardi, dunque, queste elezioni non rappresentano per l’America un punto d’arrivo. Il Paese non sapeva se consegnarsi alla virilità spaccona di Trump, o alla femminilità poco accomodante della Clinton. Non sapeva se fermarsi o ripartire; se alzare la voce o provare ad ascoltare; se tendere la mano o serrare i pugni. Se credere o diffidare. Ora che la scelta è compiuta, se è la determinazione di Hillary Clinton ad essere stata infine coronata dal successo, come pare, saranno in molti a chiedersi comunque se davvero si è scelto per il meglio. Anche fra le fila dei suoi sostenitori: saranno di più quelli sollevati all’idea di non essere finiti nelle mani di un avventuriero, che non quelli sicuri di avere trovato la migliore erede di Barack Obama.
Dopo il primo Presidente nero, avremmo dunque il primo Presidente donna degli Stati Uniti d’America. Sarebbe un segno storico di progresso. Eppure, chi oggi non vede l’ora di esultare ha temuto fino a ieri un improvviso e inaspettato regresso. Se sarà stato evitato, non per questo non avrà gettato un’ombra lunga sul futuro dell’America, e della democrazia.
(Il Mattino, 9 novembre 2016)