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Se il Pd si smarca e punta sull’Europa alla Macron

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«Cari amici, non ci sono amici»: Renzi avrebbe potuto citare Aristotele, ieri in Direzione, per fotografare il momento che il Pd attraversa. Si decidono alleanze, candidature, collegi, ma c’è poco di amichevole nelle decisioni che Matteo Renzi è chiamato a prendere. Anche perché il cuore della sfida è altrove. E non ci sono amici, che si siano legati indissolubilmente al segretario: le minoranze interne di Orlando e Emiliano avranno le loro quote di candidati, sulla base dei risultati delle scorse primarie, e sulla base dei sondaggi accreditati in queste ore si chiuderà l’accordo con le liste minori: +Europa di Emma Bonino e Bruno Tabacci, Insieme con socialisti verdi e prodiani, Civica popolare dei moderati guidati da Beatrice Lorenzin. Ma ben poco di queste diverse forze, personalità e formazioni rimarrà vicino a Renzi, se le cose non dovessero andare per il verso giusto. Renzi questa battaglia deve vincerla altrove. Contano dunque i nomi, contano le liste, ma conta di più, per il partito democratico, riuscire a imporre all’attenzione del Paese il senso della partita che ha annunciato in Direzione: «insistere sull’Europa come punto di riferimento, senza le fughe dei ‘boh euro’ o ‘no euro’ che mettano in discussione l’appartenenza a questa grande storia».

È qualcosa di diverso da una rivendicazione dei risultati dell’azione di governo. Che d’altra parte non è mai stata premiata lungo tutto il corso di questi anni: non c’è stato un governo o una coalizione che sia riuscita a bissare il successo di un’elezione, confermandosi al governo dopo il voto. Non è mai riuscito né al centrodestra né al centrosinistra. Ci vuole dunque dell’altro. E il terreno scelto da Renzi è effettivamente quello che meglio traccia una linea di demarcazione fra il partito democratico e le altre coalizioni. Perché la Lega nutre una chiara ostilità nei confronti dell’ideologia europeista, non solo delle politiche, e anche i Cinque Stelle nutrono diffidenza (ricambiata) nei confronti di Bruxelles. C’è poi il precedente di Macron, che è riuscito a conquistare l’Eliseo su posizioni profondamente europeiste, contro l’euroscetticismo di Marine Le Pen. Replicare quello schema è dunque l’ambizione di Renzi.

Per riuscirci, occorre però una mobilitazione politico-simbolica di cui finora il discorso sull’Europa è stato privo. Renzi ne è consapevole, ed è per questo che ha insistito sull’elezione diretta del presidente
della Commissione, con «l’accorpamento in una stessa figura del ruolo del presidente della Commissione e del presidente del Consiglio». Ma che una simile proposta di riforma delle istituzioni europee riesca ad infondere quell’«elemento emozionale» che ci vuole per vincere le elezioni è abbastanza improbabile.

Che cosa significa Europa? Regole sulle banche, moneta unica, vincoli di bilancio? Agli occhi di una larga parte del Paese, l’Europa ha questo volto. Mettergli a fianco un’idea di libertà, una speranza di progresso, una condizione di prosperità si è fatto sempre più complicato. È difficile immaginare un altro terreno sul quale i democratici possano far valere il loro profilo politico-programmatico, ma è altrettanto difficile immaginare che questo terreno sia largo a sufficienza.

Eppure è chiaro che il nodo della collocazione dell’Italia nell’Unione europea è essenziale per l’implementazione di qualunque, seria politica economica. Immaginare che, nell’attuale reticolo di norme, interessi e rapporti che ci legano al continente, si possa vivere in una specie di sogno autarchico è del tutto vano. Oppure serve soltanto a alimentare un concetto distorto e anzi finto della sovranità nazionale, come fanno i cosiddetti sovranisti.

Dopodiché però siamo alle solite: può riuscire il partito democratico di Renzi a portare su posizioni di europeismo spinto la maggioranza del Paese, attaccando l’inaffidabilità dei Cinque Stelle da una parte, l’implausibilità della coalizione di centrodestra dall’altra? Porre questa domanda oggi, dopo una Direzione dedicata alle più prosaiche vicende delle deroghe per i ministri o alla mappa dei collegi sicuri, quasi sicuri o meno sicuri è forse incongruo. Ma non sempre la soluzione dei problemi politici si trova nella feconda bassura dell’esperienza, tra grassi portatori di voti e timorosi deputati uscenti; qualche volta bisogna pur provare ad appenderla al cielo di un’idea.

(Il Mattino, 18 gennaio 2018)

Matteo e l’impresa dell’aria nuova

Aria di Parigi

Fermarsi e riflettere, come chiede Ganni Cuperlo, o andare avanti? Nella Direzione di ieri, Matteo Renzi non ha mostrato di avere molti dubbi: andare avanti. Andare fino in fondo. E pazienza se Cuperlo e la minoranza del Pd mettono il muso, e pensano che in questo modo il segretario condurrà la sinistra italiana verso una sconfitta storica. Cosa del resto vorrebbe dire fermarsi? Si sono sentite tre cose. In primo luogo, fermarsi significa rinunciare al doppio incarico, e quindi andare al congresso del partito democratico con un ticket, cioè con due nomi: uno per il governo e l’altro per il partito. Come se le cose avessero mai funzionato, al tempo in cui Prodi era al governo e una volta D’Alema e l’altra Veltroni, dal partito, già gli preparavano il funerale. In secondo luogo, fermarsi vuol dire accogliere la proposta della minoranza di lasciare tutti liberi di aderire ai comitati del sì oppure del no al referendum costituzionale del prossimo autunno. Come se il partito non dovesse avere una linea riconoscibile, condivisa, unitaria, e non avesse anche un minimo dovere di coerenza – anzi di intellegibilità – rispetto al percorso di riforme avviato. Chi capirebbe un partito che ha metà della sua classe dirigente per il sì, e l’altra metà per il no, sulla questione centrale su cui – c’è poco da girarci intorno – può cadere non solo il governo ma l’intera legislatura? Ma la minoranza, imperterrita, ieri chiedeva «piena cittadinanza» per chi voterà no (e farà pure campagna). In terzo e ultimo luogo, la legge elettorale. Su questo, la minoranza batte da tempo, ma ieri anche Franceschini – cioè uno degli azionisti di riferimento della maggioranza del partito – si è schierato apertamente per la modifica dell’Italicum e l’introduzione del premio di coalizione in luogo del premio alla lista. Il ragionamento svolto dal ministro della Cultura è stato il seguente: dobbiamo battere i populismi che da Trump in America a Nigel Farage nel Regno Unito rappresentano la sfida principale. Battere i populismi significa includere, ampliare lo schieramento delle forze che sostengono il peso del governo. Ora, il premio di coalizione serve proprio a questo, e consente di allargarsi sia a sinistra che al centro. Inoltre, serve alla destra per ricompattarsi un po’, per mettere insieme pezzi che altrimenti non riuscirebbero a sommarsi.

Pure questa riflessione si infrange in realtà contro un «come se» grosso come una casa. Franceschini parlava infatti come se le coalizioni avessero finora dimostrato di reggerlo davvero, il peso del governo, e non fossero invece sistematicamente finite in pezzi. E questo sia a sinistra che a destra, essendo state vittime di coalizioni confuse e litigiose tanto Prodi quanto Berlusconi.

Insomma, le proposte ascoltate ieri sono state da Renzi rispedite al mittente. Oppure ai loro luoghi propri. Volete un partito diverso? Proponete modifiche statutarie. Volete un altro segretario? C’è il congresso che lo elegge. Ma lui, Renzi, fintanto che manterrà la leadership, andrà avanti lungo la linea tracciata. Personalizzazione o non personalizzazione. Populismo o non populismo.

Piani B, del resto, non ce ne sono. La legge elettorale e riforma costituzionale non formeranno un combinato disposto, in termini strettamente giuridici, ma politicamente parlando sono ben legate l’una all’altra, in una sfida complessiva da cui dipende, per il segretario del Pd, la possibilità di uscire finalmente dal pantano di questi anni.

Renzi, per il resto, ha messo in chiaro di non essere affatto rimasto impressionato dal voto di giugno, che ha preferito leggere in chiave prevalentemente locale. In verità, tutti gli interpreti delle diverse anime del partito hanno finito col legare insieme voto amministrativo e Brexit, col risultato che la misura del confronto è divenuta da un lato quella generale, di come evitare di finire nel mirino dei vari populismi che rinfocolano in tutto il braciere europeo e si manifestano nelle urne italiane, come in quelle britanniche, o austriache, o spagnole. Dall’altro lato, quello particolare della lotta interna al partito e delle strategie di logoramento tentate per sbalzare dal sellino il premier. Su questo secondo versante, Renzi non ha ovviamente fatto la minima concessione, e anzi in replica ci è andato giù duro contro l’accusa di vivere dentro un talent show (o – che è lo stesso – di essersi chiuso nel proprio giglio magico), rivendicando con forza la propria attività di governo. Sul primo versante, invece, si è messo a ragionare: di questione sociale e periferie con Matteo Orfini Piero Fassino e Maurizio Martina; di sicurezza con Vincenzo De Luca, di scuola e investimenti con Graziano Del Rio e Anna Ascani. Sembravano discussioni vere, e forse lo erano. Ma nessuna di queste questioni porta con sé un referendum, sicché per Renzi la vera scommessa rimane quella di riuscire a spiegare ai cittadini che la ricostruzione del sistema istituzionale, affidata al voto di ottobre, non è una questione interna ai gruppi dirigenti del Paese, alla «casta», ma anzi il modo per far circolare aria nuova nelle stanze della politica italiana.

(Il Mattino, 5 luglio 2016)

 

Il rene della politica

“S’i governassi il mondo”: sembra l’inizio di un sonetto di Cecco Angiolieri (“S’i fosse foco arderei ‘l mondo/ S’i fosse vento lo tempestarei”). Oppure un compito in classe per bambini della scuola primaria, esortati a dire come cambierebbero le tante cose brutte che vedono intorno a loro. E invece è il titolo dell’ultimo articolo, apparso la scorsa settimana su «Prospect», del filosofo americano Michael Sandel, in cui sono ripresi i temi del suo più recente best seller: «What Money Can’t Buy». Sandel è abbastanza noto in Italia, ma è soprattutto una vera e propria star nei paesi anglosassoni, dove le sue lezioni sono seguiti da torme di fan che da noi non raccolgono neanche Baricco o Saviano (segue sul blog dell’Unità)