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La sfida tra i due mondi che rottamano il ‘900

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Che i sondaggi ci prendano o no, la sfida presidenziale di oggi, in Francia, ha giustamente l’attenzione di tutta Europa. Può darsi sia scontato l’esito; di sicuro non lo è il significato. Non lo è neanche se Macron dovesse vincere con largo margine la sfida e se, col senno di poi, potremmo dire di avere sovrastimato il pericolo lepenista. Con Macron vince infatti (se vince) una cosa nuova, che non c’era nel panorama politico francese fino a due anni fa. Basta questo, per lustrarsi bene gli occhi e domandarsi se non stiamo voltando definitivamente la pagina del ‘900, la pagina della grande politica, dei grandi partiti di massa, del grande movimento operaio. Dopo aver chiuso con il comunismo, l’Europa chiude anche con il socialismo democratico? Forse sì. È difficile trovare, nel panorama europeo, qualcosa di meno somigliante a Macron del Movimento Cinquestelle, in Italia. Eppure, alla domanda cosa siamo, Macron risponde sul suo sito: un popolo di marciatori, un movimento di cittadini. Zero onorevoli. Sembra grosso modo significare: non c’è bisogno di mettere i cittadini dentro la scatola di un partito. Del resto, la prima delle ragioni che sostengono la campagna per le presidenziali è così formulata: «Emmanuel Macron è diverso dai responsabili politici che lo hanno preceduto: in passato ha avuto un vero lavoro, nel settore privato e nel settore pubblico». È dunque un titolo di merito la discontinuità rispetto ai politici del passato e ai politici di professione: Macron non è né l’uno né l’altro. Quanto alle altre ragioni, sono di questo tenore: Macron propone di ridurre di un terzo il numero dei parlamentari (già sentita?), sa di cosa parla, non deve la sua fortuna politica a nessun’altro che non sia lui, sa riconoscere una buona idea anche se viene dal suo avversario politico, che non attacca mai sul piano personale. La competenza è evocata solo per dire che Macron saprà rimettere in sesto l’economia del Paese. Per il resto, c’è un riferimento non al mondo del lavoro, alle sue organizzazioni o alla sua rappresentanza ma ai salari: Macron promette di ridurre il cuneo fiscale e di pagare di più le ore di straordinario. Tradurre questo profilo nella figura di un politico di sinistra, di un socialista mitterandiano o dell’ultimo erede del Fronte popolare di Léon Blum è impossibile. Macron non rottama la vecchia sinistra soltanto, rottama il Novecento e i grandi quadri ideologici che lungo tutto il secolo scorso alimentavano lo scontro politico in Europa.

Non è un caso che proprio su questo terreno Macron ha cercato i punti deboli di Marine Le Pen. Certo: da un lato c’è il suo europeismo, dall’altro lato, c’è invece profonda diffidenza non solo verso l’Unione europea, ma verso tutto ciò che va oltre la dimensione dello Stato nazionale. Dal lato di Macron c’è una profonda fiducia nell’ordine economico internazionale e nella sua capacità di futuro; dal lato della Le Pen c’è invece una critica aspra nei confronti di quella specie di dittatura finanziaria che sarebbe il precipitato delle politiche neoliberali imposte da Berlino e Bruxelles. Dal lato di Macron resiste il vocabolario dell’accoglienza e della solidarietà nei confronti dei migranti; dal lato di Marine Le Pen c’è sciovinismo e islamofobia, per cui la Francia viene innanzi a tutto e gli stranieri, specie se musulmani, è meglio che non vengano proprio. Queste sono grandi linee di divisione lungo le quali si definisce con nettezza la differenza di identità politica e di proposta programmatica dei due candidati. Ma Macron ci aggiunge la differenza fra il nuovo e il vecchio, una carta che, quando è possibile (e lo sarà sempre, finché non si consoliderà un nuovo quadro politico), viene giocata con grande profitto. E così, mentre dietro Macron non c’è nulla, e  quello che lui promette e di cui discute è solo avanti a lui, dietro la Le Pen ci sono ancora le risorse simboliche della destra estrema, i fantasmi del passato, il radicamento nella Francia profonda, una certa cultura del risentimento, e insomma: quello che rappresentava il vecchio patriarca Jean Marie, fondatore del Front National, dal quale Marine Le Pen, l’erede politica, non si sarebbe mai staccata, nonostante la strategia di «dediabolizzazione» sventolata in questi anni.

Così, al dunque, rimangono due le France che vanno al voto: quella aperta al mondo, progressista, liberale, modernizzante, tendenzialmente cosmopolitica e dal vivace spirito urbano, e quella invece diffidente verso lo spirito di apertura, che agita sentimenti di rivalsa: dei «veri» francesi contro gli immigrati, delle periferie contro i palazzi del potere, dei perdenti della globalizzazione contro i pochi che se ne approfittano, delle persone in carne e ossa contro le gelide astrazioni del capitale, della tecnica e del denaro.

Ce n’è abbastanza per allestire nuovi conflitti e nuove linee di frattura. Ma il lessico della politica europea deve essere necessariamente reinventato.

(Il Mattino, 7 maggio 2017)

La speranza contro la paura

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Ora è chiara la scelta che la Francia è chiamata a compiere: se gli exit poll verranno confermati dal risultato finale, al ballottaggio andranno Emmanuel Macron e Marine Le Pen, l’europeista e l’euroscettica, il progressista liberale e l’estremista di destra, ed il voto sarà dunque decisivo per il futuro della Francia, ma forse anche per quello dell’Unione Europea. Che dopo gli anni della crisi, gli anni che hanno messo in ginocchio le economie periferiche dell’eurozona, e dopo l’esito imprevisto del referendum sulla Brexit, che ha portato il Regno Unito fuori dall’Unione, con ogni probabilità non reggerebbe una vittoria della destra lepenista, anti-euro e anti-immigrati. «Ritrovare la nostra libertà restituendo al popolo francese la sua sovranità: monetaria, legislativa, territoriale, economica»: questa la professione di fede di Marine. All’opposto, Macron dichiara di puntare ad un’Europa ambiziosa «che saprà ritrovare la sua vitalità e il gusto per l’avvenire». Le due passioni politiche fondamentali sono dunque in campo: la paura e la speranza. Le Pen agita le paure, e promette di «rimettere in ordine» la Francia; Macron anima una speranza, e promette di costruire una Francia nuova e più moderna. (Con Parigi, la città europea più colpita dagli attentati, che dà a Macron oltre il 30%, e a Le Pen solo il 5% circa).

Questo è però solo il primo punto del confronto politico in corso, ed è quello che più da vicino riguarda anche l’Italia, posta dinanzi ad uno spartiacque analogo, nel confronto fra le formazioni populiste e sovraniste – prime fra tutte la Lega e i Cinquestelle – che seminano dubbi sulla tenuta dell’euro e sulla riformabilità delle politiche che ne hanno accompagnato l’istituzione – e i partiti di centro e di sinistra, primo fra tutti il PD, che invece scommettono sul rilancio di una prospettiva europeista.

Ma la sfida Macron-Le Pen ha anche un altro significato, che per i nostri cugini d’Oltralpe non è meno rilevante. Essa sancisce infatti la drastica trasformazione del sistema politico francese. La Quinta Repubblica si reggeva infatti sul confronto fra socialisti e gollisti: da queste famiglie politiche sono venuti finora tutti i suoi presidenti, da Mitterand a Chirac, da Sarkozy a Hollande. Nel ballottaggio che si disputerà fra due settimane, le due principali forze politiche del Paese non saranno, invece, presenti. Non era mai successo. Così come, del resto, mai era successo che non scendesse in lizza il Presidente uscente. Invece Hollande ha preso cappello ancora prima che lo invitassero gli elettori (si immagina bruscamente) a farlo. Non solo, ma il candidato socialista, Hamon, è finito molte lunghezze dietro Macron e, a quanto pare, anche dietro Mélenchon, dietro cioè il rappresentante della sinistra più radicale. Il partito socialista è apparso dunque come la pietanza più scialba che un elettore potesse consumare: né di là né di qua, né contro l’Europa né a favore, né con i lavoratori né contro, né illiberale né liberale. Insomma, per ogni bandiera che innalzavano Melenchon o Macron, il socialismo di Hamon ne ammainava una: malinconicamente e senza neanche capire bene da che parte voltarsi. Dietro la scelta vincente di Macron, di mollare il vecchio partito socialista e di mettersi in cammino c’è però anche il peso rilevante dell’elemento personale. Che significa: la credibilità politica è oggi molto più legata ai volti e alle storie individuali che alle forze e alle storie collettive.

A destra Fillon ha perso anzitutto per via degli scandali familiari che ne hanno azzoppato la candidatura. Vero. Ma vero anche che se la linea di divisione del campo politico doveva essere tracciata prioritariamente dalla lotta contro il totalitarismo islamista, allora era difficile che a farsene interprete non fosse la destra sicuritaria e nazionalista della Le Pen. L’ultimo argomento che ha usato Fillon è stato invece: votare Marine significa ritrovarsi Presidente Macron. Aveva ragione, solo che è toccato a lui per primo dichiarare il suo sostegno per Macron: alle 20.44 di ieri sera, alle primissime avvisaglie dell’esito per lui infausto del voto, il campione conservatore ha compiuto, obtorto collo, la scelta «repubblicana» di convergere sul candidato progressista, in funziona di argine contro la destra erede di Vichy, xenofoba e post-fascista.

Proprio questa mette ora l’outsider Macron nella posizione di grande favorito per il ballottaggio: dalla sinistra che non può votare la Le Pen (se non in quelle frange più estreme, che sposano la logica dello sfascio e del tanto peggio, tanto meglio), alla destra moderata di Fillon, tutti sono con lui. Il suo posizionamento centrale paga: la strada per arrivare all’Eliseo è ora larga e in discesa.

Non è detto però che, il giorno dopo il voto, per Macron non cominceranno subito le grane. Perché a giugno si vota per l’Assemblea legislativa, e anche lì bisognerà trovare convergenze. Lì il voto dei vecchi partiti continua a pesare: per tradizioni, radicamento territoriale, personale politico, cose che al giovane movimento di Macron mancano ancora. Lì il vento del cambiamento deve ancora arrivare, e il nuovo Presidente dovrà fare probabilmente l’esperienza di governi non di coabitazione con l’opposizione (come pure è capitato in passato, a Mitterand e a Chirac), ma di governi di coalizione piuttosto eterogenei. Un campo in cui, molto più della Francia, è l’Italia ad avere un non sempre invidiabile know-how.

(Il Mattino, 24 aprile 2017)

Francia al bivio tra governabilità e futuro nell’Ue

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A una settimana dal voto in Francia, l’incertezza regna sovrana. Ed è un’incertezza che pesa sul futuro dell’intera Europa, non solo su quello dell’Eliseo. Perché la quadriglia di candidati che i sondaggi danno favoriti offre un ventaglio di soluzioni molto ampio. Che può significare il definitivo naufragio del progetto europeo, o il primo passo di una nuova navigazione.

Favoriti sono, stando alle ultime rilevazioni, Emmanuel Macron e Marine Le Pen. Il primo è il più europeista del lotto; la seconda, la più critica nei confronti dell’Unione europea. Il primo faceva parte del governo guidato dal socialista Valls, dal 2014 al 2016, ma si è poi collocato, con il suo movimento En Marche, «oltre la destra e la sinistra». La seconda invece è l’ultima espressione della destra nazionalista francese, più ingentilita rispetto a un passato razzista e antisemita, ma ancora in grado di suscitare preoccupazione nelle forze democratiche.

Inseguono, a pochi punti percentuali di distanza, François Fillon e Jean Luc Melenchon. Melenchon è il candidato dell’estrema sinistra, la bestia nera (anzi rossa) dell’establishment economico-finanziario. Fillon, già primo ministro con Sarkozy, è invece il candidato di quel che resta della destra moderata, azzoppato dagli scandali giudiziari. Se non arrivasse al ballottaggio, sarebbe la prima volta che un erede della tradizione gollista, su cui si è fondata la Quinta Repubblica, non corre per la vittoria finale. Raccolti a quanto pare in un fazzoletto di voti, ci sono insomma due candidati europeisti, e due candidati antieuropeisti; due candidati di sinistra e due candidati di destra; due candidati estremisti, e due candidati moderati; due candidati populisti, e due candidati riformisti; due candidati graditi alle capitali europee, e due candidati sgraditi.

E nessuno è in grado di dire quale coppia uscirà dal primo turno del 23 aprile.

Un primo dato è però già evidente. Il fatto che tra i quattro non si trovi Benoît Hamon, il vincitore delle primarie del partito socialista, cioè del partito del Presidente uscente Hollande – che per scelta politica personale ha deciso, fatto inedito nella recente storia delle elezioni presidenziali, di non ricandidarsi – è indicativo di una crisi profonda delle famiglie politiche tradizionali. Crisi che si presenterebbe uguale a destra, qualora, come sembra probabile, anche Fillon dovesse rimanere fuori dal secondo turno. Un simile esito non certificherebbe la fine del clivage destra/sinistra, ma la fine della sua interpretazione storicamente determinata, quella che ha prevalso nella seconda metà del Novecento, nell’epoca della divisione del mondo in due blocchi. Venuto meno quell’ordinamento del mondo, la destra e la sinistra si sono trovate dinanzi a una nuova alternativa: rifiutare la realtà del mondo globalizzato, provando a ridisegnarlo secondo nuove, aspre linee di frattura, oppure accettarlo, cercando di smussarne le contraddizioni in una chiave social-progressista o liberal-moderata.

Sono differenze che sperimentiamo anche in Italia: a destra, è la distanza che separa Salvini e Meloni (ma anche Grillo) da Berlusconi e Alfano; a sinistra, è il fossato che si va allargando fra il Pd di Renzi e le sparse formazioni dei vari Fratoianni, Civati, Speranza. In Francia, però, il doppio turno consente di verificare con chiarezza l’articolazione dell’offerta politica, senza impedire che al ballottaggio il voto si polarizzi in una sfida a due: quale maggioranza si formerà poi, nell’Assemblea Nazionale, è un problema ulteriore, e non è detto che il futuro Presidente non sarà costretto a scomode coabitazioni con maggioranze di colore e orientamento diverso.

Ma, a sette giorni dalle urne, la Francia ha il fiato sospeso. Fino a qualche settimana fa, infatti, sembrava che al ballottaggio le forze europeiste avrebbero avuto comunque un uomo su cui puntare: Macron, che in un eventuale ballottaggio godrebbe del favore di tutta la Francia repubblicana, disponibile a fare blocco pur di sbarrare la strada al pericolo Le Pen. Con il suo programma di riforme nell’ambito del lavoro, della previdenza, del fisco, Macron è forse più inviso alla tradizionale gauche che ai moderati di centro, e può quindi rappresentare un’alternativa per chi non vuole una Francia dominata dalla retorica populista, anti-euro e anti-immigrati di Marine Le Pen. Dopo aver rottamato la sinistra di Hamon, Emanuel Macron si vede però  incalzato dal populismo di Melenchon. Il cui programma sociale punta a coagulare tutto il consenso che Macron, spostandosi al centro, lascia al suo fianco sinistro. E dunque: pensione a 60 anni, settimana lavorativa di 30 ore, patrimoniale sui grandi redditi. Il tutto condito da toni che sembrano adatti a riesumare gli scontri ideologici del passato.

O forse a riproporne di nuovi la crescita di Melenchon nei sondaggi sottolinea. È probabile che alla fine Macron ce la faccia, e che toccherà a lui fermare Marine Le Pen (l’ipotesi che Fillon recuperi a sua volta consensi a destra è, ad oggi, la più remota: entrato da favorito nella corsa, è ora il più lontano dal rush finale), ma dopo il trauma della Brexit e l’elezione a sorpresa di Trump, la sensazione che si sia ulteriormente ridotto, in ambito europeo, lo spazio delle forze che “tirano” il sistema, senza ambire a rovesciarlo con bruschi scossoni, si fa ancora più forte. E più cupo e minaccioso si fa il cielo della politica. In fondo, Macron ha guadagnato voti proponendosi come un volto nuovo e senza tessere di partito. Non appena però è prevalsa l’impressione che la sua novità non comportava una discontinuità radicale con il passato recente – basti il fatto che l’ormai impopolarissimo Hollande ha fatto intendere che lo avrebbe sostenuto – il suo slancio si è affievolito. E si è rafforzata la proposta estremista di Melenchon. A un passo dal voto, l’Europa dunque non sa se prevarranno le spinte disgregatrici che annunciano una nuova età di ferro, o se invece la Francia rimarrà dentro i Trattati, come il primo pilastro di una rinnovata politica di integrazione europea, che avrà nei mesi prossimi le sue decisive prove anche in Germania e anche da noi, nella cenerentola Italia.

(Il Mattino, 16 aprile 2017)

Ma il fuorionda non dice di lui nulla di nuovo

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Il Grande Fratello e Donald Trump: trovate le differenze. Negli studi del Grande Fratello, col favore della notte, il calciatore Stefano Bettarini sciorina con un certo orgoglio all’amico Clemente Russo, il pugile, quello che ti combina con le donne: linguaggio greve, offese e spacconate, maschilismo e sessismo come se piovesse. Donald Trump, quanto a lui: è un vip vero, e ha pure un bel pacco di milioni, come volete che si comporti un tycoon come lui, con le donne? Come Stefano Bettarini (o forse Bettarini si comporta come Trump: non so). Certo, di mezzo c’è l’Atlantico, e l’elezione del Presidente della prima superpotenza mondiale: non è la stessa cosa chiedersi se Bettarini sia degno di rimanere nella casa del Grande Fratello o domandarsi se Trump sia degno dell’altra casa, quella bianca che sta a Washington, al numero 1600 di Pennsylvania Avenue. Ma tutti e due fanno le stesse battutacce sulle donne, cose che nell’editoriale di un giornale si fa fatica a riferire, anche prendendole fra le pinze delle virgolette.

Dunque non le riferirò. Ma non riferirò neppure quello che si trova nelle mail che scambio con un gruppo di amici rigorosamente maschi, o quel che in anni e anni di onorata carriera sui campi di calcetto più scalcagnati della periferia ho detto e sentito, al riparo da microfoni e telecamere (ho un’età: gli smartphone non stavano in tutte le tasche, o in tutti gli accappatoi). Quel che è certo, è che mi manca un buon numero di requisiti per divenire presidente degli Stati Uniti d’America. Tra questi, il non aver vinto le primarie dei repubblicani o dei democratici, e il non avere un cellulare, una casella di posta elettronica o una rete di amicizie maschili a prova di qualunque captazione.

Dite quel che volete, anzi lo dico prima io: l’ultimo candidato che potrei votare in America è Donald Trump. Tra lui e un democratico – qualunque democratico – sceglierei il democratico. Ma anche se fossi costretto a scegliere fra lui e un repubblicano, o addirittura un Bush a piacere, uno qualunque, preferirei un Bush. Insomma: non ho alcuna simpatia per l’uomo, per il politico, per il personaggio. Ma non riesco a convincermi che la partita delle presidenziali possa essere decisa da un fuori onda di dieci e più anni fa. Né riesco a rassegnarmi al venir meno della differenza fra pubblico e privato. Il caso di Bettarini è diverso: perché lui ha accettato per contratto di stare in un posto dove telecamere e microfoni gli ronzano attorno ventiquattro ore su ventiquattro. Ma Trump no, o perlomeno non gli si può chiedere di accettarlo ora per allora, con il senno di poi.

Mi si dirà però che è giusto che l’opinione pubblica sappia tutto, ma proprio tutto quello che pensa Donald Trump. Ed è vero. Ma ditemi: siete così ingenui dal non aver mai sospettato cosa pensi Trump delle donne, siete così ingenui da aver bisogno del fuori onda? Il punto non mi pare che sia questo, ma se convenga – convenga a tutti noi, non a Trump, che se la caverà egregiamente anche qualora non venisse eletto – che cada definitivamente il sapientissimo velo di ipocrisia con cui abbiamo costruito le società liberali moderne. Siamo arrivati dove siamo arrivati grazie a un buon numero di separazioni: separazione della religione dalla politica e della Chiesa dallo Stato, separazione dei poteri, separazione della morale dal diritto, separazione del cittadino dal borghese, separazione del censo dal voto, separazione anche tra pubblico e privato. Prima di smantellare tutte queste separazioni: non sarà il caso di chiedersi almeno cosa ci attende dopo?

Al diavolo Trump! Magari lo scaricano, magari subentra in corsa il vice-presidente: è il mio augurio all’America. Ma non è il caso di augurarsi, per esempio, che quello che c’è nel mio smartphone rimanga per l’appunto solo mio, senza intrusioni di sorta? Qualche anno fa, in una bella commedia di Paolo Genovese, «Perfetti sconosciuti», tre coppie (più uno) accettano per gioco, durante una cena, di rinunciare alla privacy del telefono: i messaggi saranno letti da tutti, le telefonate andranno in viva voce. Non vi racconto le cose terribili che capitano alle coppie, sotto la dittatura di quella trasparenza assoluta: potete immaginarlo (o comunque vedetevi il film). Ma insomma: senza il diaframma di una vita privata, senza la possibilità di dire bugie, non c’è vita in comune: non coniugale, ma nemmeno pubblica. Non mentire, dice il comandamento. Ed è ben detto: ma se è ben detto vuol dire che devo poter mentire, e che si mi togli la possibilità di mentire mi togli anche la possibilità di essere e valere come uomo.

Forse un Presidente degli Stati Uniti d’America non mente mai. In pubblico: d’accordo. Ma quanto alla sua vita privata, ai suoi costumi sessuali, ma anche solo agli scherzi volgari con gli amici? Sbaglio, o il più mitico presidente degli USA, John F. Kennedy, qualche piccola bugia la diceva, sulle sue marachelle private?

Il fatto è che le parole non se ne stanno più ferme là, dove vengono pronunciate: grazie alla tecnologia, ai dispositivi elettronici, alla rete, stanno ormai dappertutto ed è difficilissimo cancellarle. Capiamoci, però: questo significa che il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America non potrà più essere quel tipo di uomo che ha trascorso una serata tra amici, e l’ha raccontata a qualcuno. Forse è un bene, tanta moralità e purezza. O forse no, forse è meglio meno verità e autenticità, ma più libertà di distinguere fra le parole dette a un amico o a un pubblico ufficiale, in chiesa o in un comizio, in un sms o in un testamento.

(Il Mattino, 9 ottobre 2016)