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Eluana, dibattito senza umanità

Quando suonano a morto le campane delle chiese di Udine, Maria (Alba Rohrwacher) è già lontana, ha già lasciato le amiche e gli altri attivisti riuniti in preghiera dinanzi ai cancelli della clinica “La quiete”, dove Luana Englaro si è spenta. Perché allora non dovrebbero valere per lei le parole rivolte a Pietro: “prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte”? Perché il rintocco delle campane, che invade lo schermo del film di Bellocchio, La bella addormentata, non dovrebbero lacerare la coscienza di Maria quanto il canto del gallo? Ma Maria è lontana per amore. La vita, la passione, la giovane età la portano lontano da dove le sue ragioni e convinzioni l’avevano fin lì condotta, e non importa se sia debolezza o forza, tradimento o buona fede: l’unica cosa che il film dimostra, è che la virtù e il corso del mondo non coincidono mai. Non nell’esistenza di Maria, ma neppure in quella degli altri protagonisti della pellicola, che nel momento decisivo, quando il presidente del Senato della Repubblica Italiana dà in aula la notizia pubblica della morte privata di una ragazza, si trovano tutti un passo prima o un passo dopo l’appuntamento che si erano dati con se stessi, con le loro proprie vite. Bellocchio non ha fatto un film a tesi: ha voluto offrire un grumo di storie che si raddensa negli ultimi giorni della vicenda Englaro intorno a un unico nodo, e all’impossibilità di scioglierlo senza che le esistenze non ne siano toccate, perfino straziate.

Nella vita, non nel Parlamento. Nel Parlamento, il decreto legge presentato il 7 febbraio 2009 dall’allora ministro Sacconi per stabilire con urgenza che “l’alimentazione e l’idratazione, in quanto forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono in alcun caso essere sospese” doveva contenere la soluzione: fermare il padre di Eluana, impedire che Eluana fosse ammazzata, come gridò il senatore Quagliariello in aula, in una sequenza agghiacciante e memorabile che il film ripropone.

Rivedendosi sul grande schermo, Quagliariello ha osservato giustamente che le storie raccontate nel film, mentre sullo sfondo si consuma la battaglia politico-parlamentare sul decreto Sacconi, non hanno nulla di simile al caso di Eluana: non si tratta in nessuna di esse del problema, posto da Beppino Englaro ai tribunali italiani, di rispettare la volontà della figlia, ricostruita in base a dichiarazioni e testimonianze. Proprio per questo, però, il film è in grado di consegnare alla nostra memoria la collera di Quagliariello come una delle scene madri della vicenda politica italiana degli ultimi anni. E se anche è vero che il film di Bellocchio contiene – come è stato scritto – troppe scene madri per considerarsi perfettamente riuscito, almeno dal punto di vista cinematografico, è anche vero che riesce invece a dirci, senza entrare nel dibattito legislativo sul fine vita, che cosa a quel dibattito, culminato nella stizza rabbiosa di Quagliariello, mancasse per davvero: l’umanità.

Che cos’è l’umanità? Io non saprei dire altrimenti: è la maniera di fare esperienza della morte nella vita, della vita nella morte. La vita e la morte non sono infatti come le due facce di un foglio, l’una in ogni punto opposta all’altra, e dunque destinate a non incontrarsi mai. Per questo non è mai bastato ripetere con Epicuro che quando c’è la morte non ci siamo noi, mentre quando ci siamo noi non c’è la morte, per cui non abbiamo da preoccuparci, dal momento che non la incontriamo mai. Invece la incontriamo. La vita incontra la morte, proprio in quanto è vita umana, e il film accumula situazioni in cui avviene questo incontro, una faccia del foglio si ripiega e si volta nell’altra, come in uno strano anello di Moebius in cui non si può stabilire qual è il recto e quale il verso. Queste situazioni hanno i nomi e le parole dell’amore, e del dolore, e Bellocchio presta ai suoi personaggi un tono a volte un po’ didascalico, o troppo sentenzioso, per distillarne il senso: ma non è vero che l’amore acceca, dice la giovane Maria. E il padre, il senatore Beffardi (Toni Servillo), che si appresta a votare tra molti tormenti in dissenso dal gruppo contro il decreto Sacconi: “il dolore non nobilita l’uomo”.

Mettendo con materiale d’archivio la politica sullo sfondo, il film suggerisce che di questa umanità non vi fu, in quella vicenda, quasi nessuna traccia. Non è un caso che le uniche riprese televisive proposte nel film (oltre a quelle legate a Eluana) riguardano uno straniante documentario sulla vita che gli ippopotami conducono in acqua: una vita-solo-vita, una vita interamente e sordamente naturale, muta come in una specie di acquario e sempre uguale. Ma non è vero che la vita e la morte rimangono uguali, come cantava Gucccini: rimangono tali solo se la vita viene fissata come nuda vita di contro alla morte, e la morte non viene vissuta come un’esperienza umana, di cui è possibile appropriarsi (se si è laici) o in cui (se si è credenti) è possibile affidarsi.

Ma non è vero neppure, ed è l’unico appunto che vorremmo muovere al film, al di là del suo valore estetico, che la politica è solo una commedia macabra e farsesca, e che l’unico politico serio è quello che si dimette e lascia lo scranno di senatore, invece di urlare rancoroso in Parlamento. Anche la politica ha una sua nobiltà. Che può ritrovare, se rinuncia a far coincidere il corso del mondo (magari con la forza di una pretestuosa decretazione d’urgenza) con le nostre esacerbate virtù, e prova invece ad alleviare il peso della loro mancata coincidenza nelle vite di ognuno di noi, mettendolo in un destino comune.

L’Unità, 9 settembre 2012

Welby cinque anni dopo

Non è giusto. O è giusto così. Dinanzi alla morte di una persona cara, nessuno è in grado di rimanere così impassibile da non chiedersi se sia giusto che debba morire. Morire così. Morire ora. Anche quando ci rassegniamo, per esempio per l’età avanzata, non sentiamo meno il bisogno di elevare il processo naturale del morire nella sfera dello spirito, che è, in un senso minimale, ciò per cui nel morire ne va del senso del vivere e dell’aver vissuto.

Non è giusto, oppure è giusto così. Ma la giustizia, qui, non è l’obbligo contratto innanzi a una legge, umana o divina, bensì la misura della comune appartenenza all’umanità e al senso, che si compie assegnando alla cultura (all’elaborazione dell’uomo) ciò che altrimenti apparterrebbe solo alla natura. Così la nascita, così la morte, così tutti i fenomeni di passaggio, gli attraversamenti di soglie, i transiti al confine. Perciò non è giusto che moriamo: non lo è in assoluto, non già solo in rapporto a questa o a quella morte, poiché il mero morire naturale non ci appartiene in quanto uomini. E perciò è giusto che noi moriamo, quando è resa giustizia (onore, rispetto, sepoltura) a chi muore, e all’umanità che muore con lui. Un tratto che però caratterizza la «seconda modernità» che noi viviamo è l’ampliamento delle scelte a nostra disposizione: scelte trasferite dapprima dall’ambito naturale a quello istituzionale, poi da quello istituzionale a quello individuale. Un processo che sociologi e filosofi presentano spesso come una perdita di sostanzialità, perché pone su esili spalle, quelle del singolo individuo, decisioni che investono l’orizzonte più grande del vivere e del morire. Non si muore quasi più, ma ogni volta, in luogo del «si» muore, si compie così un «io muoio» o un «tu muori».

Più difficile è dunque trovare la misura, la giustizia. Dopo i casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, il Parlamento italiano ha ritenuto di averla trovata. Piergiorgio Welby è morto, giusto cinque anni fa, avendo ottenuto, al termine di una lunga, lucidissima battaglia, che fosse staccato il respiratore che lo teneva artificialmente in vita. Eluana Englaro è morta dopo che il padre, al termine di una battaglia altrettanto lunga, ebbe ottenuto, grazie a un tribunale, l’interruzione dell’alimentazione artificiale, conformemente alla supposta volontà della figlia. I due casi hanno scosso profondamente le coscienze, mostrando quale viluppo di azioni e di decisioni vi sia oggi dove prima c’era un semplice accadimento naturale. E hanno anche portato il Parlamento a legiferare, con un accanimento pari a quello terapeutico, sul cosiddetto testamento biologico. L’obiettivo: porre limiti stretti tanto alla libertà del malato quanto a quella del medico. In questo

modo, però, soglie sottilissime, che devono ancora trovare una stabile configurazione di senso intorno a un letto d’ospedale o al capezzale di un malato, sono state disegnate d’autorità, fissate rigidamente in una disposizione di legge.

Ma la soglia è, soprattutto, un’esperienza, come il primo bacio, come un esame di maturità o come il primo giorno di lavoro: chi vorrebbe mai disciplinare per legge i passi da compiere per affrontare l’ingresso nel mondo adulto, prepararsi alle peripezie dell’amore o

agli affanni della vita professionale? Perché sottrarre al singolo uomo il più antico e più arduo compito, quello di cimentarsi con le prove dell’inizio e della fine? In uno Stato democratico, una legge si fa per proteggere i deboli dai forti, non già per assicurare ai forti un potere di controllo o di disciplinamento sui deboli. Ciò che valeva per gli antichi sovrani, detentori del potere di vita o di morte sui sudditi, non può valere per i cittadini.

A cinque anni di distanza dal caso Welby, ci si può dunque chiedere, «sine ira ac studio», perché quella legge. E soprattutto se non sia l’umanità dell’uomo garanzia più solida di giustizia che non l’impero della legge, in casi estremi come quelli che riguardano il vivere e il morire. Senza dogmatismi, senza sicumere, disposti a riflettere e, se del caso, a cambiare. A utilizzare lo strumento legislativo, se è per difendere e non per coartare, o a accantonarlo, se è per dare responsabilità e non puro arbitrio.

L’unità 21 dicembre 2011

Martirio

Ma se la vita è un valore supremo, se la vita è perciò indisponibile, il martire cristiano?

Si dirà: ma il martire mica si suicida, mica dispone lui della propria vita. Giusto. Ma cosa precisamente testimonia? Se è un martire, testimonia: questo vuol dire martire. E cosa testimonia, il martire? Cosa, se non che tiene più alla fede che alla vita?  Ebbene: posso io tenere più alla mia libertà, che alla vita? Mi si chiede di abiurare: io rifiuto. Mi si chiede di tradire: io rifiuto. Mi si chiede di condannare: io rifiuto. E vengo messo a morte (per esempio: mi si lascia morire di fame e sete). Se ora il sondino non può essere rifiutato, è perché chi rifiuta non testimonia nulla: nulla, s’intende, agli occhi di chi ritiene che appunto il sondino non può essere rifiutato.
Orbene, nell’articolo su Left Wing ho parlato di una catastrofe ontologica e di un disastro culturale, qui ci metto pure una grave cecità morale. Perché io voglio capire che la Chiesa non consideri la libertà di scelta e l’autonomia individuale un valore in sé, e che dunque nel suo puro esercizio io non testimonio nulla. La testimonianza sta infatti dal lato di ciò per cui scelgo: scelgo la fede, piuttosto che la vita; scelgo l’amore o l’amicizia, piuttosto che la vita; c’è un bene più grande che viene scelto, per cui ha valore di testimonianza la scelta.

Dove sta però la cecità morale? Nel fatto che è un valore più alto della vita stessa rispettare la libertà di scelta dell’altro. E’ alla Chiesa che si chiede dunque di testimoniare. Ma la Chiesa non ha più forza di testimonianza.
E infine, e dal mio punto di vista soprattutto, non è vero affatto che non testimonio. Testimonio che più della vita conta il viverla.

(Se poi siete stati così pazienti da arrivare sin qui, vi regalo il link al convegno di Radio Radicale su "Verità e menzogna su eutanasia", ma soprattutto la fulminante battuta di Ignazio Marino sull’alimentazione artificiale: "la prescrive il medico, non il cuoco" – battuta la cui fonte, sono sicuro, è il Gorgia di Platone)

Lo schifo

Stimo molto Severino, moltissimo, ma questa volta mi ha fatto davvero arrabbiare. Magari è colpa dell’intervista, ma lui non è obbligato a farsi intervistare, per far sentire la sua voce: ha invece la possibilità di scrivere, per il Corriere, pagine intere sulla faccenda. Spero perciò che lo faccia.

Severino mi ha fatto arrabbiare (come mi arrabbio solo con chi stimo veramente) perché non può lasciare che la filosofia dica che in corso è solo lo scontro fra due forme opposte di violenza, e buttar lì che lui, per sé, farebbe, ove potesse, testamento per "rifiutare tutto". In questo modo, con la scusa che le grandi cose non avvengono dall’oggi al domani (ma se è per questo non avvengono neanche dall’oggi al dopodomani), non solo lascia pensare che la filosofia non abbia nulla da dire, ma che lo "schifo" che lui prova nel pensarsi attaccato a tubi e sondini non ha nulla a che vedere con la filosofia. Una filosofia che non sostenga il suo schifo (o qualunque cosa sia) o uno schifo che non abbia una filosofia per dirsi e per pensarsi, non servono a nulla. Letteralmente: a nulla.